domenica 29 settembre 2013

LA FEDE NELL' AT

La Fede nell'Antico Testamento        

di Giovanni Odasso, biblista

 

La “riscoperta” dell’AT come Scrittura può essere correttamente annoverata tra le acquisizioni più sintomatiche del cammino compiuto dalla Chiesa grazie all’influsso del Concilio Vaticano II. Per capire l’importanza di questo dato è illuminante la nota pagina dei discepoli di Emmaus, nella quale il Risorto “incominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). In realtà, l’insieme dei testi che con espressione poco adeguata siamo abituati a chiamare AT hanno rappresentato, per le prime generazioni cristiane, la totalità delle Scritture. Ad esse solo in una fase successiva fu aggiunta, con uguale dignità, l’ultima parte del “canone cristiano”: gli scritti dei Vangeli e degli “Apostoli”, ossia il NT.


Nel presente lavoro, che si accosta all’AT come Scrittura, si esamineranno, a partire dalla pagina di Is 7, alcune testimonianze significative per cogliere le prospettive con cui il tema della fede è presente nella Torah, nei Profeti e nei Salmi, ossia secondo l’espressione di Lc 24,27, “in tutte le Scritture”.

1. La testimonianza di Is 7,9b 


La prima testimonianza espressiva riguardante la fede è contenuta nel cap.7 dell’opera che porta il titolo canonico di “Visione di Isaia figlio di Amoz” (cf. Is 1,1). Gli eventi narrati rinviano al 734 a. C., quando il re degli Aramei e il re d’Israele si erano coalizzati per spodestare il re Acaz, re di Giuda, e porre sul trono di Gerusalemme un personaggio favorevole ai loro progetti politici. Il profeta Isaia annuncia ad Acaz, che il piano perseguito dai suoi avversari è destinato al fallimento. Dopo l’annuncio assiomatico: “ciò non si realizzerà e non avverrà” (Is 7,7b) il profeta aggiunge la solenne sentenza:

’im  lô’  ta’ămînû  kî  lô’ tē’āmēnû

    
se non accettate la sicurezza certamente non avrete nessuna sicurezza

Nella lingua ebraica questo detto profetico si presenta con una particolare elaborazione stilistica, in quanto è costruito con due forme verbali che derivano dalla stessa radice ’āmēn. Nel suo significato letterale la radice ’āmēn denota “essere stabile, incrollabile”. Presa in senso traslato, metaforico, la stessa radice connota la “stabilità interiore”, ossia la “sicurezza” che l’uomo sperimenta verso la persona nella quale può riporre pienamente la propria fiducia. E’ la sicurezza descritta dal Sal 131, dove l’orante dichiara: “Io sono tranquillo e sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia” (v. 2). Il bimbo svezzato gioisce di essere in braccio a sua madre, non perché ha bisogno del latte materno, ma perché desidera gustare la tenerezza rassicurante che gli viene dall’amore della madre.

La forma verbale ta’ămînû, conosciuta come Hifil o tema H della radice ’āmēn, è usata proprio in questo senso metaforico, per cui la prima parte del detto di Isaia si può tradurre “se non accettate la sicurezza”. Il contesto lascia chiaramente intendere che si tratta della sicurezza che viene dalla Parola che il Signore annuncia per mezzo del profeta, parola che contiene una luminosa promessa: “ciò non si realizzerà e non avverrà”.

Anche la forma verbale tē’āmēnû, conosciuta come Nifal o tema N, ricorre qui secondo la sua accezione metaforica e connota la situazione di chi si sente interiormente nella sicurezza. Di conseguenza, la seconda parte del detto isaiano si può tradurre “non sarete nella sicurezza” oppure “non avrete nessuna sicurezza”.
L’affermazione del profeta Isaia appare ora nella profonda ricchezza del suo messaggio. Il detto profetico (’im lô’ ta’ămînû kî lô’ tē’āmēnû) può essere reso nel seguente modo: “se non accettate la sicurezza (che viene dalla parola del Signore; la sicurezza che, in definitiva, è il Signore stesso), non avrete nessuna sicurezza”.

Per il nostro tema, che riguarda “la fede nell’AT”, è importante osservare che la LXX traduce il detto isaiano con l’espressione “se non credete (pisteuete) nemmeno comprenderete”. Al verbo ta’aminû, che significa propriamente “accettare la sicurezza che viene dal Signore”, corrisponde il verbo pisteuete della LXX. Ciò significa che la fede, nell’orizzonte della LXX, è l’atteggiamento dell’uomo che accetta la sicurezza che gli viene dal Signore e dalla sua Parola. Solo in questa accoglienza, in questo “ascolto”,con cui si apre alla Parola di Dio, per aderirvi esistenzialmente, l’uomo trova la sicurezza della propria sussistenza, della propria vita. Ponendo la fede nel Signore in stretta correlazione con la promessa della comprensione, la LXX si muove nella prospettiva teologica della tradizione sapienziale, prospettiva che è sottesa alla canonizzazione della Torah (cf. Dt 4,5-8), e ha ricevuto uno sviluppo sinfonico nel salmo 119. In definitiva, il vocabolario della fede, testimoniato dalla LXX (pisteuo,pistis), si comprende nella prospettiva delineata dal detto isaiano: “Se non accettate la sicurezza, non avrete nessuna sicurezza”.

Per cogliere la profondità di questa affermazione, è importante rilevare che essa, benché si situi in un orizzonte teologico, presenta una struttura che è verificabile anche a livello antropologico. La fiducia, infatti, è un atteggiamento che scaturisce dall’interiorità del soggetto umano. Certamente la fiducia può essere favorita, ostacolata o addirittura soffocata dalle circostanze e dalle persone dell’ambiente in cui si vive, ma se l’uomo non si apre personalmente verso l’altro, percepito come “tu”, non potrà mai uscire dal suo “io” e sviluppare la capacità di costruire relazioni positive, basate sulla reciproca fiducia e sul reciproco impegno.
Il detto di Is 7,9b, in questa ottica, suppone implicitamente che l’uomo, come si apre agli altri esseri umani, può aprirsi al Signore e alla Parola della sua promessa.
Questa osservazione mostra chiaramente che la fede non può essere ritenuta una sovrastruttura imposta dall’esterno, e quindi estranea all’essere umano. Essa, al contrario, costituisce il massimo sviluppo, reso possibile dall’intervento divino, delle potenzialità insite nell’uomo creato a immagine e somiglianza del suo Creatore. “La fede - come scrive Abraham Heschel - è un atto dell’uomo che trascendendo se stesso, risponde a colui che trascende il mondo”. In quanto apertura alla trascendenza, la fede implica sempre l’esperienza della liberazione con la quale il Signore impedisce che la speranza dei suoi figli sia ostacolata o, addirittura, soffocata. Essa rappresenta per l’uomo la sicurezza fondamentale della propria vita e della propria storia. Se non accetta questa sicurezza, che viene da Dio e che, in definitiva, è Dio stesso, l’uomo non potrà mai trovarsi nella condizione libera e liberante della salvezza.

Questi rilievi permettono di intravedere che il detto di Isaia contiene un messaggio le cui virtualità, in un certo senso, sono inesauribili. L’affermazione isaiana,come abbiamo visto, suppone la struttura profonda dell’uomo nel suo “essere che si apre verso l’altro” e, nel contempo, afferma che questa struttura antropologica si realizza pienamente quando l’uomo si apre a Dio ed entra in dialogo e in comunione con lui. Di conseguenza, la fede è sempre un evento che si compie nella misura con cui l’uomo, ogni giorno, si lascia raggiungere dal Signore e si apre a lui, lasciandosi interpellare dalla sua Parola. Per questo la fede lungi dal portare l’uomo ad abdicare alla propria umanità ne sviluppa al massimo le incommensurabili potenzialità. La grandezza dell’uomo è direttamente proporzionale alla sua fede.

Alla luce dei precedenti rilievi possiamo raccogliere, in modo sintetico, l’insieme dei dati principali che sono contenuti in questo testo:

(1) La fede è un atteggiamento esistenziale dell’uomo che accetta la sicurezza che viene dal Signore e dalla Parola della sua promessa.
 

(2) La fede, in questa prospettiva, è essenzialmente orientata al futuro della salvezza e, quindi, sviluppa nel credente la sicurezza che i disegni iniqui dell’uomo non potranno prevalere: “ciò non si realizzerà e non avverrà” (cf. Is 7,7b). Ne consegue che la fede è inseparabile dalla fiducia nel Signore, dalla confidenza in lui, dal rifugiarsi in lui, dall’attesa di lui e della sua Parola.

(3) La fede non si risolve unicamente in un atteggiamento soggettivo: essa suppone l’ascolto della parola del Signore, parola che è mediata non solo dal profeta (come si suppone evidentemente in Is 7), ma anche dal culto (come attesta lo stesso racconto della vocazione del profeta in Is 6) e, infine, dalla Torah scritta e dall’insieme di tutte le Scritture.

(4) La fede, di conseguenza, è un evento che avviene all’interno di una comunità e nella vitalità della sua tradizione.

(5) La fede, infine, ha un risvolto esistenziale: accettare la promessa del Signore implica ed esige che il credente sviluppi le scelte esistenziali che sono orientate da questa promessa e coerenti con essa.

Difficilmente si potrà esagerare l’importanza di questo messaggio e l’influsso da esso esercitato nella tradizione di Israele e nella formazione della Scrittura. In realtà, questo influsso raggiunge, attraverso l’opera deuteronomistica, la stessa Torah e, in un certo senso, informa la globalità delle Sante Scritture.

2. La fede nell’opera deuteronomistica
 

Con l’espressione “opera deuteronomistica” la scienza veterotestamentaria connota un’opera letteraria che inizia con i primi tre capitoli del Deuteronomio, inserisce subito dopo il Deuteronomio originario contenuto all’interno degli attuali cc.5-28, prosegue con gli ultimi capitoli del Deuteronomio e continua con i libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re. Si tratta di un insieme letterario che fu composto al tempo di Giosia, verso il 620 a.C., e ricevette significative rielaborazioni durante l’esilio babilonese e ancora nel primo periodo postesilico. Un’opera così ampia e plurisecolare è ovviamente maturata in una scuola che ha saputo custodire e sviluppare i grandi ideali del Deuteronomio, ideali che Von Rad ha sintetizzato nella celebre espressione: “un solo Dio, un solo popolo, un solo tempio”. Questa scuola, come si evince dall’esame della sua opera, fu notevolmente vicina anche agli ideali dei profeti, in particolare al messaggio di Isaia e di Geremia.
L’influsso del tema isaiano della fede all’interno della scuola deuteronomistica emerge anzitutto dal fatto che la stessa narrazione di Is 7 porta i segni inconfondibili dello stile e della concezione propri dell’opera deuteronomistica. In particolare, però, due testimonianze di quest’opera meritano di essere qui ricordate per la loro notevole rilevanza. Esse si trovano, significativamente, all’inizio dell’opera (Dt 1,32) e verso la sua conclusione (2 Re 17), venendo a formare un’inclusione che delinea l’orizzonte nel quale il Deuteronomista delinea e sviluppa la propria concezione teologica.

2.1. Il testo di Dt 1,29-35
 

All’inizio dell’opera deuteronomistica, nel primo capitolo del Deuteronomio,l’autore presenta Mosè che, in un solenne discorso, ricorda al popolo l’itinerario percorso dall’Oreb a Qadesh Barnea per esortarlo a intraprendere il camino che lo conduce nella terra promessa. In un primo momento il popolo chiede a Mosè che mandi esploratori, che possano offrire adeguate informazioni sulla situazione che incontreranno. Di ritorno dalla loro missione, gli esploratori portano un messaggio pieno di incoraggiante fiducia: “Buona è la terra che il Signore, nostro Dio, sta per darci” (Dt 1,25). Tuttavia, nonostante questa assicurazione, il popolo non accoglie il comando del Signore e mormora contro di lui: “Voi non voleste andare e vi ribellaste al comando del Signore, vostro Dio; mormoraste nelle vostre tende e diceste: Il Signore ci odia; per questo ci ha fatto uscire dal paese d’Egitto per darci in mano agli Amorrei e sterminarci» (cf. Dt 1,26-27). Le parole che, in questa situazione, Mosè rivolge al popolo sono fondamentali per cogliere il significato della fede nell’ottica teologica dell’opera deuteronomistica: Io vi dissi: «Non spaventatevi e non temeteli. Il Signore, vostro Dio, che vi precede, egli stesso combatterà per voi, come ha fatto insieme a voi sotto i vostri occhi in Egitto e nel deserto, dove hai visto che il Signore, il tuo Dio, ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto, finché siete arrivati in questo luogo».
Nonostante questo, non avete creduto nel Signore vostro Dio, che vi precedeva nel vostro cammino per cercarvi un luogo dove piantare le tende: di notte nel fuoco per mostrarvi la via per la quale dovevate andare, e di giorno nella nube. Il Signore udì le vostre parole, si adirò gravemente e giurò dicendo: «Nessuno degli uomini di questa malvagia generazione vedrà il buon paese che ho giurano di dare ai vostri padri» (Dt 1,29-35).


Se si tiene conto del contesto nel quale si trova inserito, il brano appena citato permette i seguenti rilievi:

(1) Colui che crede sperimenta la liberazione dallo spavento e dal “timore” degli uomini. In altri termini, la fede sviluppa la sicurezza che Dio libera i suoi fedeli dalle potenze che si oppongono al suo disegno salvifico.

(2) In questa visuale, il “credere” implica un’apertura al Signore da parte del fedele che confida in lui e custodisce nel proprio cuore una costante fiducia nella presenza liberatrice del suo Dio. La correlazione essenziale tra la fede e la fiducia è evidenziata dal Deuteronomista mediante l’unione del vocabolario della fede alle formule di incoraggiamento: “Non temete”, “non spaventatevi”, “siate forti”.

(3) Il credere implica, inoltre, che il fedele tenga viva la memoria dei numerosi interventi salvifici di Dio. Il ricordo dei prodigi compiuti dal Signore assicura che la fede nella potenza liberante ed elevante di Dio non si basa sull’illusione soggettiva del sentimento, ma sulla verità degli eventi salvifici che caratterizzano l’esperienza “storica” del popolo del Signore e costituiscono l’orizzonte dell’esperienza esistenziale dei credenti.

(4) Il credere, in definitiva, connota l’atteggiamento dell’uomo che trova in Dio la sicurezza del proprio futuro e quindi si apre alla sua Parola, l’accoglie nel suo cuore e la attua nella propria esistenza. Accogliendo mediante la fede la Parola, l’uomo realizza il cammino verso il pieno compimento dell’esodo salvifico di Dio. La Parola accolta, infatti, fa uscire l’uomo dalle angustie della sua schiavitù e lo orienta verso il futuro della promessa, verso la libertà sperimentata nella “conoscenza” della salvezza del Signore.

Inversamente, il testo delinea il carattere negativo dell’incredulità, della non-fede. L’uomo che, per la sua incredulità, non accetta la sicurezza che viene dalla Parola del Signore, rimane prigioniero della propria paura e del proprio spavento. In particolare, nell’opera deuteronomistica la mancanza di fede è considerata con la categoria teologica della ribellione. A causa dell’incredulità l’uomo consuma la propria ribellione e per questo rimane prigioniero della propria schiavitù e incapace di camminare verso il futuro della sua libertà. Ciò che rinchiude l’uomo nella schiavitù del proprio “io” non è l’ascolto della voce del Signore, l’esperienza autentica di Dio, ma è la paura che lo rende ribelle al Signore e alla sua Parola.

2.2. La testimonianza di 2 Re 17,13-14

Un'altra testimonianza significativa della fede è collocata verso la fine dell’opera deuteronomistica, nella pagina di 2 Re 17,7-23. Qui l’autore sospende la narrazione degli eventi dei due regni per sviluppare un’ampia riflessione teologica, che riguarda la fine del regno di Israele e, nel contempo, prepara la narrazione della caduta di Gerusalemme.
La testimonianza, contenuta in 2 Re 17,13-15, recita:

Il Signore, per mezzo di tutti i profeti e di tutti i veggenti, aveva esortato Israele e Giuda dicendo: «Convertitevi dalle vostre vie malvagie, e osservate i miei comandamenti e i miei precetti, seguendo in tutto l’insegnamento (torah) che io ho mandato ai vostri padri, e che ho inviato a voi per mezzo dei miei servi, i profeti».
Ma essi non ascoltarono, anzi resero dura la loro cervice, come la cervice dei loro padri, i quali non avevano creduto nel Signore, loro Dio. Rifiutarono le sue leggi e la sua alleanza, che aveva concluso con i loro padri, e le istruzioni che aveva dato loro;
seguirono il nulla e sono diventati essi stessi nullità.
 

Secondo questa riflessione tutta la storia dei regni di Israele e di Giuda è presentata come un irrigidimento colpevole del popolo verso il Signore (“resero dura la loro cervice”). Si tratta di un irrigidimento che ha perpetuato nel tempo il comportamento dei padri, ossia il comportamento della generazione del deserto, che in questa pagina è descritto come un “non credere”.
Tre rilievi emergono dalla lettura del testo. Anzitutto le varie resistenze del popolo alla Parola, che il Signore aveva fatto risuonare con costante premura per mezzo dei profeti, sono viste come altrettante espressioni della mancanza di fede.

Conseguentemente, la non-fede è intesa qui come chiusura alla parola profetica e, quindi, alla stessa alleanza con il Signore.
In secondo luogo l’incredulità caratterizza non solo la storia del popolo che vive nella terra promessa, ma anche la storia dei padri, ossia la generazione dell’esodo e del deserto. Secondo il deuteronomista, quindi, tutta la storia di Israele, dall’esodo in poi, è attraversata dalla colpa dell’incredulità.
Infine, la fede è compresa nella sua intrinseca connessione con la conversione.
Questa affermazione suppone che Dio offre sempre al suo popolo, e quindi a ogni fedele, la possibilità di uscire dalla sua infedeltà per percorrere il cammino dell’ascolto del Signore nella fedeltà alla sua alleanza.
In questo contesto la non-fede si configura, inversamente, come un rifiuto della conversione e quindi un rifiuto dell’alleanza e degli impegni ad essa inerenti. A questo proposito è interessante rilevare che il testo presenta l’incredulità del popolo con la stessa frase di Ger 2,5: “seguirono il nulla e sono diventati essi stessi nullità”. Il riferimento al testo di Ger 2,5 è una preziosa conferma della concezione deuteronomistica che abbiamo individuato. In realtà, mentre nel testo di Geremia la frase riguarda l’agire dei padri (“quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me?”), in 2 Re 17,14 la stessa espressione è riferita all’agire dei “figli di Israele che avevano peccato contro il Signore, loro Dio” (2 Re 17,7).

In definitiva, secondo la redazione finale dell’opera deuteronomistica il peccato che caratterizza il periodo fallimentare della monarchia è quello del quale si erano già resi colpevoli i padri, vale a dire la generazione dell’esodo e del deserto. Questo peccato consiste appunto nella mancanza di fede o, detto con altri termini, nel rifiuto della parola dei profeti, nella rinuncia a seguire il Signore per confidare nei propri idoli. Conseguentemente, l’incredulità si annida nel cuore dell’uomo che rifiuta di convertirsi al Signore.  


Dall’insieme di questi dati risulta che la storia del popolo dell’alleanza è caratterizzata dall’accoglienza del Signore nella fede o dalla ribellione a lui nell’incredulità.

Che questa prospettiva deuteronomistica sia da collegare all’influsso esercitato dalla pagina di Is 7 trova una conferma esplicita nel secondo libro delle Cronache. In quest’opera, che si colloca intorno al 300 a.C., il Cronista testimonia la stretta correlazione del vocabolario della fiducia e dell’incoraggiamento, propri dell’opera deuteronomistica, con il vocabolario della fede, tipico del profeta Isaia. La concezione del Cronista su questo tema appare in modo evidente nell’esteso racconto della vittoria di Giosafat (2 Cr 20,1-30), racconto che non ha parallelo nel libro dei Re e che è stato giustamente definito “un bel esempio di un midrash storico”.
In questa pagina si sente l’eco di motivi familiari al Deuteronomista quando Giosafat si rivolge al popolo con le parole:

“Così dice a voi il Signore: Non temete, non spaventatevi davanti a questa moltitudine immensa, perché la guerra non riguarda voi, ma Dio” (2 Cr 20,15; cf. Dt 20,1-4).

Nel contempo si avverte l’eco di Is 7,9b quando Giosafat, nel momento della partenza per la guerra, si rivolge ancora al popolo con le seguenti parole:

“Ascoltatemi, Giuda e abitanti di Gerusalemme! Credete (ha᾽ămînû) nel Signore, vostro Dio, e avrete sicurezza (wetē᾽āmēnû) ; credete (ha᾽ămînû) nei suoi profeti e riuscirete (wehaṣlîḥû)” (2 Cr 20,20).

L’esortazione “credete nel Signore e avrete sicurezza” è formulata mediante la citazione di Is 7,9b. Questo riferimento intertestuale è una prova inequivocabile dell’influsso che il detto isaiano ha continuato ad esercitare all’interno della tradizione di Israele. Il fatto che l’invito alla fede nel Signore sia accompagnato dall’esortazione a credere nei suoi profeti, rispecchia nuovamente la concezione tipica dell’opera deuteronomistica. Sempre in questo versetto, in virtù del parallelismo, la sicurezza della fede si trova connessa con la promessa della “riuscita”. Si tratta di una promessa che, evidentemente, non va intesa nel senso di un successo temporale, ma nella linea del Servo del Signore che, come recita Is 52,12a, “avrà successo”, perché è sostenuto dal Signore nell’adempimento della sua missione fino alla morte. Proprio per questo la morte del Servo poté essere compresa come un evento salvifico che avrebbe raggiunto e trasformato il popolo.
Questa prospettiva teologica, che, inaugurata da Isaia, si sviluppa nell’opera deuteronomistica e trova la propria conferma nel Cronista, costituisce l’orizzonte necessario per comprendere adeguatamente l’importanza della fede all’interno della stessa redazione finale, canonica, della Torah.

3. La fede nella Torah


Due testi, situati in punti strutturalmente nevralgici, mostrano che il tema della fede occupa una posizione speciale nella Torah. L’influsso della prospettiva deuteronomistica appare evidente nei versetti conclusivi di Es 14, il capitolo che narra la prodigiosa liberazione di Israele e che svolge, quindi, una funzione narrativa e teologica fondamentale all’interno della stessa Torah. Il testo che ci interessa è costituito dai vv. 30-31:
 

In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla rive del mare. Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva operato contro gli Egiziani, e il popolo temette il Signore e credette nel Signore e in Mosè suo servo.
 

L’esperienza dell’esodo, secondo il messaggio di questi versetti, pone l’uomo in un rapporto di adorazione verso il Signore (“temette il Signore”) e nel contempo lo orienta a vivere questo rapporto nella fede, quindi mediante una profonda fiducia in lui.

Anche in questo testo la fede, che apre l’uomo a confidare nel Signore, suppone un’esperienza di salvezza, come è indicato con l’immagine degli Egiziani morti sulla riva del mare. Questa immagine sarebbe fraintesa se fosse presa alla lettera; essa deve essere compresa nel suo significato simbolico, che a sua volta suppone una concezione propriamente escatologica. La fede apre il credente al futuro di Dio, quel futuro di salvezza in cui scomparirà ogni forma di violenza e di oppressione. Qui appare evidente che la fede è abbandono confidente nel Dio dell’esodo, nel Dio che mostra la grandezza della propria forza salvifica liberando il suo popolo dalle potenze che lo hanno ridotto in schiavitù e sono addirittura giunte a decretarne lo sterminio.

L’espressione relativa al popolo che “credette nel Signore e in Mosè suo servo” si muove nell’orizzonte della scuola deuteronomistica, per la quale la fede nel Signore si sviluppa nell’ascolto della sua Parola, mediata dai suoi servi i profeti. Nel testo di Es 14 Mosè è compreso come il rappresentante sommo della profezia e, quindi, come il mediatore della Torah.
Questa affermazione, in concreto, suppone che la fede nel Signore non ha solo una dimensione personale, che riguarda ogni fedele della famiglia di Dio (“il popolo credette nel Signore”), ma è anche dotata di una dimensione comunitaria. Essa suppone l’ascolto dei profeti e l’ascolto della Torah, ossia l’ascolto della Scrittura.
 

La dimensione personale della fede, l’accettare la sicurezza che viene dal Signore e dalla sua Parola, è posta in risalto in Gen 15,6, una pagina nella quale si percepisce non solo l’influsso della tradizione deuteronomistica, ma anche l’influsso della cosiddetta opera sacerdotale.

L’opera sacerdotale, sorta nel periodo dell’esilio, aveva posto al centro della propria concezione la berît, intesa non come alleanza bilaterale (tra il Signore e il suo popolo), ma come promessa gratuita, fatta liberamente da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe, promessa che la stessa infedeltà di Israele non avrebbe mai potuto annullare. Con il concetto teologico della promessa gratuita, “eterna”, di Dio l’opera sacerdotale sviluppa uno straordinario messaggio di speranza.

Questo concetto infatti, alla luce dell’infedeltà del popolo all’alleanza, suppone che il Signore, per adempiere il suo disegno di salvezza, non abbandonerà il popolo nella sua infedeltà, ma lo rinnoverà con il suo perdono. Si tratta del perdono che trova nella festa dell’espiazione (Lv 16) e nella celebrazione del giubileo (Lv 25) non solo i momenti cultuali della sua solenne celebrazione, ma anche il suo significato altamente teologico di rinnovata comunione con il Signore e con i fratelli “nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella tenerezza” (cf. Os 2,21).

Il testo recente di Gen 15, che suppone la tradizione deuteronomistica e la concezione sacerdotale della berît intesa come promessa, presenta Abramo raggiunto dall’esperienza profetica del Signore. Questo aspetto, proveniente dalla scuola deuteronomistica, è chiaramente indicato dalla formula dell’evento della parola (“venne ad Abramo questa parola del Signore”: cf. Gen 15,1.4), formula la cui origine è appunto da ricercare nell’ambito delle esperienze proprie dei profeti. La “Parola del Signore” giunge ad Abramo che nonostante l’età avanzata è senza figli e, dunque, vive nell’amara consapevolezza che per lui non si è adempiuta la promessa della discendenza. Proprio in questa situazione di “sterilità” l’esperienza del Signore dischiude ad Abramo il futuro della salvezza con la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo.

La reazione di Abramo a questa parola è racchiusa nella densa affermazione di Gen 15,6: “Abramo credette al Signore che glielo accreditò come giustizia”. Questa frase testimonia il significato profondo che la fede aveva acquistato all’interno della tradizione di Israele. Avere fede, come scrive Brüggemann commentando questo testo, significa “credere nel futuro di Dio e vivere certi di quel futuro anche se il presente è di morte”.

L’affermazione che Dio “accreditò questo come giustizia” ha lo scopo di presentare Abramo come modello dei “giusti” la cui voce si sente nei Salmi. E’ la voce degli ‘anawîm, di coloro che hanno scelto di vivere nella fedeltà al Signore e alla sua Parola, anche a costo dell’emarginazione economica, sociale, anche a costo della persecuzione, alla quale potevano andare incontro per la loro scelta.

La fedeltà al Signore e alla Torah, che si manifesta nella coerenza della vita, attinge il suo valore dalla fede. Effettivamente, la fede rende l’uomo “giusto” perché segna la fine di ogni forma di legalismo e nel contempo orienta il credente a sviluppare la propria esistenza in sintonia con la Parola del Signore e a fondare l’impegno della propria coerenza sulla sicurezza della fedeltà divina.

Un dato di notevole interesse, infine, è rappresentato dal fatto che proprio questa comprensione della fede, attestata nel testo recente di Gen 15, presenta una forte connessione con la concezione che affiora nella redazione finale del Salterio e nel messaggio della profezia escatologica.

4. La fede nell’orizzonte dei Salmi e della profezia escatologica

Un’eco dell’importanza di Is 7 e del suo influsso appare in alcuni salmi che, richiamandosi alla concezione deuteronomistica, e alla sua ricezione nella Torah, vedono nella mancanza di fede la causa dell’insuccesso del popolo nel cammino del suo esodo.
Il Sal 78, p. es., presenta la “ribellione del popolo”, che mormora contro il Signore e dubita della sua potenza, con la seguente descrizione:

“Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?” (v. 19bc).

Nonostante il prodigio dell’acqua, scaturita dalla roccia (v. 20a), il popolo continua nella sua mormorazione:

“Potrà forse dare anche pane e preparare carne per il suo popolo?” (v. 20b).

Come si può facilmente intravedere, questi versetti si richiamano al racconto del prodigio dell’acqua di Es 17,1-7 e al racconto della manna e delle quaglie di Es 16, offrendone un commento, un midrash, alla luce del Sal 23: Il Signore è il pastore che guida alla vita. Anche se sta attraversando la valle oscura della prova, l’orante ha la certezza che il Signore è con lui, gli prepara una mensa, lo libera dai suoi nemici e lo chiama al banchetto della liberazione, della gioia, della salvezza. La colpa del popolo, secondo il Sal 78, consiste proprio nel fatto che non vive con quella fiducia, che ha il suo modello esemplare nell’orante del Sal 23, al contrario è giunto fino a dubitare della stessa potenza del Signore. Proprio per questo la ribellione del popolo è delineata sinteticamente con l’espressione: “Non credettero in Dio e non confidarono nella sua salvezza” (v. 22).

Accanto ai motivi già incontrati nel Deuteronomista, qui affiora una sottolineatura nuova. In questo passo il credere in Dio è posto esplicitamente in parallelo con il verbo “confidare nella sua salvezza”. Ciò che mette in pericolo l’esistenza del popolo di Dio non sono i suoi nemici, ma la sua paura, la sua incredulità.

In particolare, secondo il Sal 78, la fede nel Signore sviluppa l’attesa della liberazione, l’attesa della mensa della salvezza, un’attesa che si fonda sulla sicurezza della Parola e si concretizza, come in Gen 15, in un abbandono confidente al disegno di Dio e alla sua potenza.

La connessione della fede con l’attesa della mensa preparata dal Signore costituisce un motivo che unisce questo testo all’orizzonte escatologico di Is 25,6-8, dove si annuncia che il Signore prepara sul monte Sion il banchetto dell’alleanza per tutti i popoli. L’attesa della mensa diventa attesa della salvezza escatologica che è preparata da Dio per tutte le genti.

Questo orizzonte universale della fede trova una esplicita conferma nel testo di Gn 3,5 che si muove ugualmente in una prospettiva escatologica. La pericope di Gn 3,4-10 inizia presentando Giona mentre si inoltra nella città di Ninive predicando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (v. 4). Subito dopo il testo descrive la reazione degli abitanti con la frase: “I Niniviti credettero in Dio” (v. 5). La profondità di questa frase appare nel fatto che i Niniviti non si limitarono a credere all’annuncio della fine imminente di Ninive, ma “credettero” alla parola del profeta e quindi credettero in Dio che ha la potenza di realizzare il suo disegno nella storia degli uomini e dei popoli. E’ interessante rilevare che anche in questo testo, dove si parla non di Israele, ma delle genti, il “credere in Dio” apre a quella speranza che non è un’evasione dalla realtà, ma un’energia che trasforma l’uomo e lo orienta al Signore. Gli abitanti di Ninive infatti, secondo la narrazione biblica, iniziano un digiuno penitenziale che coinvolge tutti. Lo stesso re con un apposito editto invita il popolo a rivolgersi a Dio “con forza”:

“Ognuno si converta dalla sua via malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga la sua ira ardente non si penta e metta da parte la sua ira ardente e così noi non periamo!” (Gn 3,8-9).

L’espressione “chi sa che non cambi, si ravveda” ricorre anche in Gl 2,14. L’invito alla conversione con digiuno e suppliche, che nel testo di Gioele è diretto a Israele, qui è rivolto agli abitanti di Ninive, dunque al mondo delle genti. Nel futuro escatologico anche le genti crederanno, si convertiranno e sperimenteranno la salvezza di Dio.

Nel testo di Is 25,6-8 la promessa escatologica del banchetto preparato per tutte le genti è riletta nella prospettiva della risurrezione. Questa rilettura “apocalittica” è attestata dalla frase iniziale del v. 8, con cui si annuncia che “il Signore eliminerà la morte per sempre”. Proprio questa frase mostra che, quando si sviluppa la fede nella risurrezione, l’annuncio escatologico della salvezza di tutte le genti diventa attesa del compimento delle promesse di Dio, compimento che riguarda tutti i popoli e che si realizzerà nel “mondo che deve venire”, nel mondo eterno del regno di Dio.

Particolarmente significativa e articolata, in questo contesto, è la testimonianza del Sal 116. L’orante, che ha sperimentato la liberazione da un imminente pericolo di morte a causa dei suoi nemici (cf. v. 8), richiama l’esperienza di quel momento con le parole: “Ho creduto, anche quando dicevo: Sono troppo infelice” (v.10). Nell’ora della prova, nel momento in cui avvertì che “ogni uomo è menzognero” (v. 11), l’orante di questo salmo non è venuto meno alla fiducia nel Signore, al contrario ha perseverato nella fede e nell’amore.

La domanda “Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto?” serve per introdurre il motivo del sacrificio di ringraziamento, o tôdâh, sacrificio che era offerto da chi fosse stato liberato da un grave pericolo di morte. L’orante, liberato dalla morte, può adempiere il voto formulato nell’ora del pericolo: “Alzerò il calice della salvezza e proclamerò il Nome del Signore”. Egli offre il sacrificio di ringraziamento insieme a coloro che formano il popolo dei “fedeli”, coloro che si rifugiano nel Signore e confidano nella sua parola e nella sua salvezza. Il momento centrale del sacrificio di ringraziamento è costituito dal rito in cui chi è stato liberato dalla morte, alla presenza di coloro che fanno parte della sua vita, alza il “calice della salvezza” e “proclama il nome del Signore”, vale a dire proclama la salvezza che il Signore ha operato, esaudendo la sua preghiera e liberandolo dalla morte.

Gli scritti rabbinici testimoniano che quando si sviluppò la fede nella risurrezione il sacrificio di ringraziamento assunse un significato nuovo. Si comprese, infatti, che il vero sacrificio tôdâh non è quello che si celebra in questo mondo per ringraziare Dio che ha guarito da una grave malattia o ha liberato da nemici che volevano la morte del credente, ma è la tôdâh della risurrezione.

“Nel mondo che deve venire finiranno tutti i sacrifici,
ma il sacrificio tôdâh non finirà in eterno;
finiranno anche tutti i canti,
ma i canti tôdâh non finiranno in eterno”.


Nel Sal 116 questo significato nuovo, che suppone la fede nella risurrezione, è attestato dall’affermazione “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli” (v. 14).

La fede appare qui come l’atteggiamento dell’uomo che affida tutto se stesso nelle mani del Signore, sicuro che la stessa morte non costituisce il momento della distruzione della sua esistenza, ma l’evento “prezioso” agli occhi di Dio, il momento in cui il Signore indica al fedele il sentiero della vita e lo introduce nella sazietà della gioia davanti al suo Volto (cf. Sal 16,11).

In questo orizzonte apocalittico si muove anche la redazione finale del Sal 22. Questa, infatti, legge l’esperienza della liberazione dai nemici, che porta l’orante a lodare il Signore nell’assemblea dei fratelli (cf. Sal 22,20-26), e la reinterpreta nella luce della salvezza definitiva, quando “coloro che dormono sotto terra”, liberati per sempre dalla morte, si prostreranno nell’adorazione e nella lode davanti al Signore (cf. Sal 22,29-30).

Il futuro della salvezza, al quale il credente è orientato dalla Parola del Signore, si manifesta in tutta la sua pienezza con la confessione del “mondo che deve venire”, il mondo della risurrezione.
La risurrezione costituisce, per chi crede nel Signore e nella sua Parola, la sicurezza per antonomasia. E’ la sicurezza che libera l’uomo dall’orizzonte della morte, nella quale si trova, e lo orienta all’esperienza di quella comunione con il Signore che avrà il suo compimento definitivo nella gloria del Regno.

5. Rilievi e prospettive

La presentazione del tema della fede all’interno dell’AT lascia intravedere una ricchezza e una profondità straordinarie. L’attenzione prestata allo sviluppo diacronico del tema consente ora di delineare sinteticamente le grandi linee che sono offerte dalla lettura sincronica, canonica, della Scrittura, ossia dall’insieme della Torah, dei Profeti e degli Scritti. Queste linee si raccolgono attorno a tre nuclei o modelli: il modello Abramo, il modello isaiano-deuteronomistico, il modello escatologico.

Il “modello Abramo” sottolinea che la fede è un’esperienza profetica del Signore; è l’esperienza dell’uomo che è raggiunto dalla Parola e ad essa si apre. In quanto accoglienza profetica della Parola-promessa del Signore, la fede libera dalla paura causata dall’angustia e dalla “sterilità” del presente. La paura, soffocando ogni prospettiva di futuro, da un lato rende la comunità priva di vita, come un campo di ossa aride (cf. Ez 37,1-14; specialmente il v. 11) e, dall’altro, genera le strutture inique della violenza e dell’oppressione (cf. Es 1,8-10). Liberando dalla paura, la fede dischiude il futuro della liberazione, della speranza, della solidarietà e fraternità. La fede apre a quel futuro che è impossibile all’uomo, ma che Dio, nella fedeltà alla sua Parola, realizzerà.

Il “modello isaiano-deuteronomistico” prospetta la fede come l’atteggiamento dell’uomo che accetta la sicurezza che viene dal Signore attraverso la parola dei profeti e attraverso la parola della Torah, personificata in Mosè. In questo nucleo la fede si presenta come elemento che caratterizza tutto il popolo dell’esodo e dell’alleanza. La stessa “conversione”, elemento eminentemente personale della fede, appare anche nella sua dimensione comunitaria: tutto il popolo è chiamato a convertirsi dalla ribellione dell’incredulità per aprirsi all’ascolto della parola del Signore e porre solo in lui la sicurezza della propria fiducia e della propria speranza.

Il “modello escatologico”, infine, conferisce alla fede l’orientamento verso quel futuro nel quale si realizzeranno pienamente e definitivamente le promesse della salvezza divina. Questo futuro è delineato con due peculiarità che lo caratterizzano. Anzitutto esso riguarda il popolo di Israele che nel tempo escatologico costituirà la comunità che non si ribella alla Parola e, proprio per questo, formerà il popolo “mite e umile che si rifugia nel nome del Signore” (Sof 3,12) e vive nella gioia della salvezza divina.

In secondo luogo il futuro della salvezza escatologica riguarda non solo Israele, ma tutte le genti. Con un linguaggio simbolico-teologico si afferma che tutti i popoli non solo saliranno al monte del tempio del Signore per accogliere la Torah e camminare nelle vie di Dio (cf. Is 2,2-4), non solo parteciperanno al banchetto dell’alleanza con il Signore (cf. Is 25,6-8), ma formeranno anch’essi il popolo del Signore e l’opera delle sue mani (cf. Is 19,23-25).

Un dato che ci sembra acquisito, in base alla presentazione diacronica dei testi relativi alla fede, è che questi nuclei o modelli, interagendo tra di loro, permeano l’insieme dell’AT. Così, p. es., il “modello isaiano-deuteronomistico” s’incontra nella solenne conclusione di Es 14; il “modello Abramo” è presente in modo speciale nei Salmi; il “modello escatologico”, a sua volta, costituisce l’orizzonte nel quale si venne configurando la forma canonica della Torah, dei Profeti e di tutte le Scritture. La promessa escatologica dell’effusione dello Spirito del Signore su ogni uomo (cf. Gl 3,1-5 e At 2,17-21) costituisce una preziosa conferma che la fede è intrinsecamente connessa con l’esperienza profetica del Signore. 


Nel tempo della salvezza escatologica, quando lo Spirito profetico sarà effuso su ogni uomo, tutti confideranno nel Signore e vivranno nella luce della sua Parola.

La profonda interconnessione di questi tre nuclei o modelli permette di comprendere che, a partire da quando si sviluppò l’attesa del mondo della risurrezione, questa rappresentò il loro punto di convergenza, il vertice verso il quale è protesa la fede testimoniata dalle Scritture.

In altri termini, la risurrezione costituisce l’orizzonte nel quale la fede trova la meta ultima della sua apertura fiduciosa al Signore. Le Scritture annunciano proprio questo futuro di salvezza e ad esso orientano il credente perché rende la propria esistenza nella storia un cammino costante verso la pienezza della vita e della libertà nella comunione eterna con il Dio vivente. 


Giovanni Odasso



 


Questo testo, completo di Note per l’approfondimento, è su: “Lateranum” n. 1/2012
Rivista quadrimestrale della Facoltà di S. Teologia della Pontificia Università Lateranense. In essa i docenti della Facoltà propongono i frutti della loro attività di ricerca e di insegnamento nell’ottica del sapere interdisciplinare. Negli ultimi decenni la rivista ha contribuito in modo determinante al profilarsi delle linee di pensiero di quella che può a buon diritto definirsi “scuola lateranense”.





martedì 17 settembre 2013

Ebraico biblico

INIZIATIVE DI FORMAZIONE BIBLICA

prof.Giovanni Odasso, biblista

Docente


 

CIBES
CENTRO INTERNAZIONALE 
BIBBIA E STORIA
ROMA






Con le sue iniziative il CIBES intende favorire, in tutti coloro che lo desiderano, la conoscenza della Parola di Dio mediante l’approfondimento del suo messaggio e la familiarità con la sua ricchezza spirituale.  


2013-2014 

Nel mese di ottobre si svolgono le seguenti iniziative:

1. Incontri della terza domenica

Il 20 ottobre riprendono gli “Incontri della terza domenica” dedicati, quest’anno, alla lettura meditata di brani scelti dal libro dell’Esodo.

L’incontro ha inizio alle 9.30 con la celebrazione dell’ora media e si conclude con la celebrazione eucaristica delle 11.30.
 

Il tema del 20 ottobre è:

“Io-Sono mi ha mandato a voi” (Es 3,1-15)
La vocazione di Mosè e l'attualità del suo messaggio

 


2. Lettura esegetica del Sal 24 Durante l’anno accademico 2013 – 2014 sono programmati tre cicli di giornate dedicate alla “Lettura esegetica dei Salmi”
Esse hanno un duplice scopo: 


(1) sviluppare nei partecipanti la familiarità con l’ebraico biblico;


(2) facilitare un incontro personale con le ricchezze spirituali e teologiche della Scrittura.

Per una fruttuosa partecipazione è indispensabile una conoscenza, almeno iniziale, degli elementi principali dell’ebraico biblico.      

Il primo ciclo inizia il 25 ottobre alle h. 15.00 e si conclude il 27 ottobre alle h. 12.00 




Negli incontri si svolgerà la traduzione e l’esegesi del Sal 24 mettendo opportunamente in rilievo le correlazioni intertestuali che offrono prospettive nuove e feconde per l’interpretazione del testo all’interno del canone delle Scritture.   

Sede:  
CASA DI SPIRITUALITA'                            S.RAFFAELLA MARIA
Ancelle del Sacro Cuore di Gesù 
Via XX Settembre, 65b - Roma


Informazioni:  
rivolgersi alla Segretaria del CIBES,  
Sig.ra ANGELA PAK (334.7661564) 



giovedì 12 settembre 2013

Yom Kippur

Il giorno dell'Espiazione
 

di Rav Riccardo Di Segni

Rabbino capo di Roma

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell'Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell'anno; in aramaico è yomà, "il giorno" per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. "Il giorno" cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.

Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l'altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l'espressione e il concetto di "capro espiatorio". Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d'obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché "in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore" (versetto 30).

Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell'anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l'obbligo principale dell'uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà. Letteralmente è il "ritorno" ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l'intenzione di non commettere nuovamente l'errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell'uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.

Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un'esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l'intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.

La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell'impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d'inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.

Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c'è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.

Malgrado l'austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.

A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate ["L'Osservatore Romano"], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell'osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).

Ma l'intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall'unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

(Da "L'Osservatore Romano" dell'8 ottobre 2008).

martedì 3 settembre 2013

Capodanno ebraico

Rosh ha-Shanà

Ricordatevi tutti
del giorno di Rosh ha-Shanà
perché il Signore
farà scendere su di voi
la Sua benedizione,
e il Suo Spirito
albergherà nei vostri cuori.
 

Ascoltate le parole
del Signore
e seguite i Suoi Comandamenti
affinché possiate godere
della Sua misericordia.


Inneggiate al Signore
con canti di gioia,
e le parole sgorghino liete
dalla mente libera
dagli affanni.
 

Gioite
per i doni del Signore
e serbateli come tesori,
e non dimenticate
di ringraziarLo
per l’amore che ha per voi
perché siete i Suoi figli
prediletti.
 

Non abbiate paura
di ascoltare la Sua voce
che è dentro di voi
e non temete
le avversità
perché il Signore dà forza
e sorregge.
 

Liberate il vostro cuore
e la vostra mente
dalle scorie di una vita
vanesia
e accogliete purificati
la luce del mondo.


Allora D-o
che le vostre colpe
hanno allontanato
farà ritorno tra il Suo popolo
e lo guiderà nel Suo regno
e lo consacrerà
Sacerdote del mondo.


Antonio Tirri 

da “Ascolta, Israele”, Editrice La Giuntina, Firenze 1999) 



  

IL NUOVO ANNO SIA DOLCE
PER TUTTI E RECHI IN DONO
LA PACE.
 
          BUON 5774


"Buon Anno" da Papa Francesco

"Shanà Tovà" del Papa per il nuovo Anno ebraico 5774.  

Papa Francesco riceve la delegazione del WJC



Nel corso di un'udienza concessa ieri ad una delegazione del World Jewish Congress (WJC), il Papa ha augurato agli ebrei di tutto il mondo buon nuovo anno ebraico. Bergoglio, che ha usato l'espressione augurale ebraica 'Shana Tova' (Buon Anno), ha pregato il presidente dell'organismo ebraico internazionale, Ronald S. Lauder, di trasmettere il suo augurio alle comunità ebraiche di tutto il mondo.

Bergoglio ha ribadito quanto già affermato nei mesi scorsi, quando, in occasione di un'udienza all'International Jewish Committee on Interreligious Consultations, aveva affermato che "un cristiano non può essere antisemita" e che per "essere un buon cristiano è necessario comprendere la storia e le tradizioni ebraiche".

Lauder ha elogiato il Papa affermando che "la guida di Francesco non ha solo rafforzato la Chiesa cattolica ma ha anche dato nuovo slancio alle relazioni con l'ebraismo. Mai nei passati duemila anni di storia le relazioni tra Chiesa cattolica e popolo ebraico sono state così buone. La guida dei Papi che si sono succeduti negli ultimi cinquanta anni ha aiutato a superare molto pregiudizio. Ciò ci permette ora di lavorare insieme in difesa della libertà religiosa dovunque essa sia minacciata e qualsiasi comunità religiosa sia coinvolta".

Nel loro incontro, infine, il Papa e Lauder hanno parlato della situazione in Siria e hanno concordato sul fatto di opporsi agli attacchi alle minoranze religiose, come i cristiani copti in Egitto, e contro le tendenze a restringere le tradizionali pratiche religiose come la circoncisione. Il Papa, in maniera specifica, ha espresso la sua preoccupazione sui divieti alla macellazione kosher in Polonia e ha indicato al cardinale Kurt Koch, presidente della commissione vaticana per le relazioni con gli ebrei, di informarsi sulla questione e convocare una riunione entro la prossima settimana.

Riferendosi al conflitto in Siria, il Papa ha definito inaccettabile l'uccisione di esseri umani e ha detto che "i leader mondiali devono fare tutto per evitare la guerra".



Dopo l'incontro, Lauder - a nome di tutti - ha donato al Papa una coppa per il kiddush, tipica delle cerimonie per le festività ebraiche, e una altrettanto tipica torta al miele. 

Da: Shalom7 – 03 Settembre 2013