"La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui ".
domenica 28 agosto 2016
sabato 20 agosto 2016
I Santuari dei nostri amori
Noemi Vogelmann
Goldfeld, nata a Katowìce, si è laureata presso la Hebrew University di Gerusalemme,
ha conseguito il dottorato a Cambridge, è una studiosa dei manoscritti della Genizah del Cairo e di Maimonide[1]. E’
anche una poetessa, in italiano sono stati pubblicati Il dolore del bello (Giuntina 1992) e Roma, una storia d’amore (Giuntina 1997). Giancarlo Galtieri ha composto una cantata per coro e orchestra
da un suo testo: Suono di shofar ad
Auschwitz (Verona 2000). Inoltre, Noemi si è interessata alle attività di
dialogo ebraico-cristiano, partecipando tra l’altro a uno dei Colloqui di
Camaldoli.
Figlia di Rav Mordekhai Vogelmann, cugina
di Rav Israel Meir Lau e di Daniel Vogelmann, nata in Polonia e residente in
Israele, a un certo punto della sua vita Noemi ha scoperto Roma e l’Italia. Cosa
voglia dire Roma per Yerushalayim ce lo ricorda l’immagine scelta per la
copertina del suo libro I santuari dei
nostri amori (Edizioni Interculturali 2014): una foto del bassorilievo
dell’Arco di Tito che mostra il trionfo del distruttore del Tempio e della
Città. Da uno scrittore di Tel Aviv, di cui non conosciamo il nome, il libro è
stato definito «un tentativo di tiqqun».
I
santuari dei nostri amori è un libro pieno di Torah, di Hokhmah, di Midrash,
di Qabbalah. Quello che in una
traduzione inevitabilmente si perde è la stratificazione della lingua ebraica,
in tutte le diverse fasi della sua lunga storia: dalla lingua biblica
all’ebraico moderno, passando attraverso l’ebraico mishnaico e medievale. Per
la sua prosa poetica può essere considerato «un libro dell’anima». Stratificata
è la lingua, come stratificata è l’anima (nefesh,
ruah, neshamah, hayah. yehidah).
Il Bet
ha-Miqdash è il santuario della nostra ahavah
(amore), però, perché esso sia ricostruito, è necessario passare attraverso
altri amori, confrontarsi con la sinah
(odio) e scoprire che l’ahavah è più
forte della sinah.
Il libro è il diario di un decennio
(1993-2002), ma il tempo si dilata, il passato diventa presente, i momenti si
confondono, i ricordi diventano illuminazioni.
Un pomeriggio della calda estate 1993
Noemi si trova a piazza Navona con un suo amico “appassionato dell’era
messianica”: «Vengo tartassata di domande che io stessa non mi concedo di farmi
ma qualcosa devo pur dirla, per cui mi ascolto pronunciare parole che non so se
fuoriescano da me. A quel punto si verifica una assoluta confusione tra il
lontano passato legato all’inizio della diaspora romana e ai primi anni del
cristianesimo e l’ani ma’amin, l’”Io
credo con fede completa nella venuta del Messia”». Tornata a casa, Noemi
rilegge Maimonide, poi Abraham ibn Daud, e infine vorrebbe riascoltare la voce
di suo padre e riapre il suo libro, il Bet
Mordekhai: «Le parole di Rav Abraham ibn Daud vanno interpretate a mio
modesto parere nel loro significato letterale: dal momento che secondo lui la
prima santità non ha reso santo il futuro a venire, di conseguenza in questo
tempo questo luogo non ha santità. Ma nel futuro a venire il luogo sarà
santificato di una nuova santificazione universale, nel rispetto del Signore
per sempre, da cui deriva per conseguenza che sarà anche mutato». La
riflessione conclusiva di Noemi è la seguente: «Potrebbe essere che
interpretando letteralmente, potrebbe essere che interpretando in questo modo,
si possa vedere che le parole del salmista “Il segreto del Signore è per quelli
che lo temono” si riferisca agli stessi timorati di D., che attingono una parte
importante dei loro processi intellettivi da una illuminazione mentale divina»
(pp. 35-37).
L’incontro con l’Italia era avvenuto
già nelle aule universitarie, quando la giovane studentessa ascoltava le
lezioni del Prof. Cassuto: «Con quanto amore insegnava la Bibbia il fiorentino
Moshè David Cassuto. Ed io fanciulla tra le fanciulle d’Israele cerco di
trovare una strada per gli anni futuri, dopo la fine degli studi liceali». Anni
dopo «all’Università di Bologna gli studenti italiani vengono a me con la
Bibbia in mano, ed io mi trovo a tornare con fervore, catturata nuovamente a
ricominciare dalla genesi, a tornare al primo amore, a tornare ai nostri tesori
così antichi e così nuovi» (p. 29).
Cosa vuol dire vedere Venezia con lo
sguardo di Noemi? Vuol dire trovare i suoi marmi e le sue acque nello Zohar: «E’ scritto nello Zohar, in una delle sue parti musicali,
che il grande rabbi Eliezer, quando giunse alle pietre di marmo miste con le
acque superiori, pianse, smettendo di parlare. E’ possibile che anche a Venezia
vi siano acque superiori, ma noi non le percepiremo mai, come non percepiremo
mai il principio vitale superiore dell’anima che è in noi…» (p. 33).
I
santuari dei nostri amori è anche un libro dell’amicizia, e numerosi sono
gli amici presenti nelle sue pagine. Qui ne ricorderemo solo due: Rav Israel
Meir Lau e il Pastore Martin Cunz.
Rav Lau è il bambino di Buchenwald che
è diventato Gran Rabbino d’Israele[2]. All’età
di cinque anni aveva visto suo padre, l’ultimo rabbino di Piotrkov, attendere
l’arrivo dei Tedeschi nella Sinagoga, dove era riunita tutta la Comunità, con
un Sefer Torah tra le braccia. Venne
ucciso a Treblinka. La madre morì a Ravensbrück. Lui, affidato a suo fratello
Naftali, era sopravissuto a Buchenwald, sotto la copertura di un’identità
polacca. Nel 1945 Lulek, così veniva chiamato, viene accolto in casa degli zii
Vogelmann a Kiryat Motzkin, e cresce insieme a Noemi, che considera come una
sorella. Poi frequenta le migliori Yeshivot
e nel 1993 viene nominato Gran Rabbino d’Israele.
Nel 1991 Noemi incontra in Vaticano
Giovanni Paolo II. Qualche tempo dopo va a trovare Lulek e gli parla
dell’importanza del dialogo ebraico-cristiano. Nel 1996 Rav Lau partecipa a un
convegno interreligioso sulla pace organizzato a Milano dal Cardinal Martini.
Noemi partecipa all’evento e si chiede: «Chissà se è questo il tempo o l’inizio
del tempo della realizzazione delle profezie dei nostri profeti?» (p. 48).
Nell’agosto del 1996 Noemi intraprende
un viaggio in Polonia e in Ucraina, «un viaggio verso luoghi che luoghi non
sono già più, luoghi che non conoscevo, di cui non sapevo e dei quali forse non
volevo sapere niente, luoghi forse eclissatesi in segreto chissà dove,
nell’immaginazione della storia della mia famiglia». E’accompagnata dal libro
di memorie di sua madre Bella (pubblicato a Kiryat Motzkin nel 1974) e dal
Pastore Martin Cunz, insieme a un gruppo prevalentemente di cristiani.
Varsavia, Lvov, la città di sua madre, dove ritrova la casa dei nonni,
Drohovitz, dove c’è la casa di Bruno Schultz, Brody, Tarnopol. Martin legge
brani di Buber, Babel, Rav Nahman di Brazlav. A Cernovitz c’è ancora la
casa di Celan. Scrive Noemi: «Le amabili persone con cui viaggio, che mi hanno
voluta come loro compagna israeliana in un’escursione cui si erano preparati da
molto tempo, sono di incoraggiamento per il mio spirito. Chi aveva mai sognato
di raggiungere questi posti?» (p. 117).
Sulla tomba del Baal Shem Tov a Medzeboz
accende una candela e legge il salmo che lui preferiva: «Servite Ha-Shem con
gioia» (Sal 100) e poi il salmo preferito da suo padre: «Alzo gli occhi ai
monti» (Sal 101). Sulla via si aggirano oche, mucche, galline, donne e bambini.
E ancora Toltchin, Patchora, Shargorod, Berdicev, dove vi è la tomba di un altro
saddik, Rav Levi Yitzchaq ben
Meir. Torna a Zurigo con una grande sofferenza interiore e con forze rinnovate.
Quel viaggio apre la strada a un altro
viaggio, due anni dopo, e solo questa volta Noemi riesce a ricollegarsi con la
propria storia personale, «il mio viaggio è come un rientro, lungo il percorso
di fuga dei miei genitori, per via inversa» (p. 123). Questa volta, il sostegno
viene soprattutto dalla lingua yiddisch,
dalle parole e dalle melodie chassidiche che Noemi ricorda di aver ascoltato
dalla voce della madre. Il culmine del viaggio è sulla tomba di Rav Nahman
a Uman.
La conclusione del libro è una
citazione dalla Mishnat ha-Zohar: «Vieni
e vedi. Tutti questi santuari, tutte queste creature, tutte queste schiere,
tutte queste luci e tutti questi spiriti hanno bisogno l’uno dell’altro… questi
santuari dipendono l’uno dall’altro».
Marco Cassuto Morselli
martedì 9 agosto 2016
MARK TWAIN e gli EBREI
Se le statistiche sono corrette, gli ebrei costituiscono meno dell'un per cento della razza umana. Un piccolo ammasso di stelle minute perso nello splendore della Via Lattea.
In realtà sarebbe difficile sentire parlare dell'Ebreo, ma invece se ne parla e se ne sente sempre parlare.
La sua fama sul pianeta supera quella degli altri popoli, e la sua importanza nel commercio è sorprendentemente smisurata rispetto alla scarsità del suo numero.
Il suo contributo alla lista dei grandi nomi del mondo, in letteratura, scienze, arte, musica, finanza, medicina e altre forme di istruzione ottuse è di gran lunga sproporzionata rispetto alla pochezza del suo numero.
Egli ha svolto una meravigliosa campagna in questo mondo in tutte le epoche, e l'ha fatto con le mani legate dietro la schiena. Potrebbe essere vanitoso dei suoi successi, ed essere scusato per questo.
Gli Egiziani, i Babilonesi e i Persiani sorsero, riempirono il pianeta di suoni e splendore, e si dissolsero come un sogno e svanirono. Poi vennero i Greci e i Romani, fecero un gran rumore, e se ne sono andati.
Altri popoli sono sorti e hanno tenuto alta la loro torcia per un certo periodo. Ma poi la torcia si è consumata, e adesso siedono nella penombra, o sono scomparsi.
L'Ebreo li vide. Li combatté e adesso è quello che è sempre stato, senza alcuna decadenza, senza gli acciacchi dell'età, senza debolezze, senza diminuzione delle energie, senza che sia fiaccata la sua mente vigile e aitante.
Tutte le cose sono mortali, tranne l'Ebreo. Tutte le altre forze passano, egli resta. Amen.
MARK TWAIN "HARPER'S" settembre 1899.
Questo articolo è stato scritto nel 1899, quando l'antisemitismo era molto diffuso negli Stati Uniti. Le grandi aziende non assumevano ebrei; le università non ammettevano ebrei o limitavano il loro numero con quote ristrette; persone "rispettabili" come Ford o Edison esprimevano apertamente la loro inclinazione anti-ebraica. Mark Twain ebbe una parola pronta per loro.
Traduzione: Valentina Piattelli
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lunedì 8 agosto 2016
DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO
Modalità e obiettivi
Léon Duƒour
Quanta polvere
inutilmente sollevata da coloro che, dialogando, non conoscono il loro
interlocutore! Enumeriamo alcune di queste conoscenze indispensabili,
preliminari a ogni dialogo. Ho
letto, io cristiano, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sugli ebrei? So
che dico una menzogna, una calunnia, che sono un persecutore, se continuo a
parlare di “popolo deicida” a proposito del popolo ebreo? Persino il
Concilio di Trento non aveva adoperato questo termine usato invece nelle
traduzioni dei catechismi. Sappiamo che Paolo stesso non è passato dall’ebraismo
al cristianesimo come è stato detto, ma è rimasto ebreo, fedele alla religione
dei padri (Atti 24, 14)? E che i primi cristiani erano tutti ebrei?
Sappiamo che l’ebraismo non si definisce con una fede dogmatica,
ma con una pratica di vita?
Perché questa
conoscenza sia comprensione profonda, devo uscire dal circolo chiuso in cui
vivo. Qualcuno può obiettare che gli ebrei hanno messo, per primi, la siepe
attorno alla Torà: l'hanno fatto per proteggerla contro perverse influenze.
Tocca a me lasciare
il chiuso delle mie abitudini, del mondo in cui mi sono installato confondendo
le pratiche religiose con la verità ultima, rigettando nel mondo delle tenebre
gli ebrei che, per paura, si sono rinchiusi in se stessi.
Devo superare la
frontiera: certamente troverò un mondo molto diverso dal mio.
Eppure
quali ricchezze nuove da questo contatto!
Lungi dal criticare
costumi che mi sembrano strani, come quello di tenere il capo coperto durante
la preghiera o quello di cantare in modo diverso, ho pensato che Gesù di Nazareth ha
pregato in quel modo, che i primi cristiani hanno vissuto così? Di più: ho
osservato la somiglianza della prima parte della messa e dell'ufficio
sinagogale?
Se mi reco al sèder
di Pèsach (cena di Pasqua) o alla festa di Kippùr (dell’espiazione), non mi
sono forse sentito più stimolato nella mia preghiera pasquale o nel mio comportamento
penitenziale? E così per altre istituzioni.
Prima di percorrere
le tappe di una autentica conoscenza, dobbiamo dissipare un pregiudizio che può
causare mancanza di accordo. Quando si parla di amore nella conoscenza, ciò non
significa solo provare visceralmente della compassione per un essere che
soffre; a maggior ragione, non è neppure cercare di “convertire” l'altro alla propria verità.
Rispetto forse la libertà cercando di imporre la mia fede?
Una delle riserve più
profonde che gli ebrei fanno quando sono avvicinati dai cristiani, è di non voler
essere considerati come una preda da conquistarsi alla verità cristiana.
Secondo la precisa affermazione di André Neher, essi non vogliono essere dei
“convertiti in potenza”. E' quindi con spirito di autentica gratuità
che devo avventurarmi alla conoscenza del mio fratello ebreo.
Padre
Léon Duƒour – teologo
gesuita
-Sefer- Ottobtre 1974
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