domenica 28 agosto 2016

L’UMILTA’ secondo

Thomas Merton

"La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui ".





 

sabato 20 agosto 2016

I Santuari dei nostri amori


Recensione di Marco Cassuto Morselli


         Noemi Vogelmann Goldfeld, nata a Katowìce, si è laureata presso la Hebrew University di Gerusalemme, ha conseguito il dottorato a Cambridge, è una studiosa dei manoscritti della Genizah del Cairo e di Maimonide[1]. E’ anche una poetessa, in italiano sono stati pubblicati Il dolore del bello (Giuntina 1992) e Roma, una storia d’amore (Giuntina 1997). Giancarlo Galtieri ha composto una cantata per coro e orchestra da un suo testo: Suono di shofar ad Auschwitz (Verona 2000). Inoltre, Noemi si è interessata alle attività di dialogo ebraico-cristiano, partecipando tra l’altro a uno dei Colloqui di Camaldoli.            

             Figlia di Rav Mordekhai Vogelmann, cugina di Rav Israel Meir Lau e di Daniel Vogelmann, nata in Polonia e residente in Israele, a un certo punto della sua vita Noemi ha scoperto Roma e l’Italia. Cosa voglia dire Roma per Yerushalayim ce lo ricorda l’immagine scelta per la copertina del suo libro I santuari dei nostri amori (Edizioni Interculturali 2014): una foto del bassorilievo dell’Arco di Tito che mostra il trionfo del distruttore del Tempio e della Città. Da uno scrittore di Tel Aviv, di cui non conosciamo il nome, il libro è stato definito «un tentativo di tiqqun».

         I santuari dei nostri amori è un libro pieno di Torah, di Hokhmah, di Midrash, di Qabbalah. Quello che in una traduzione inevitabilmente si perde è la stratificazione della lingua ebraica, in tutte le diverse fasi della sua lunga storia: dalla lingua biblica all’ebraico moderno, passando attraverso l’ebraico mishnaico e medievale. Per la sua prosa poetica può essere considerato «un libro dell’anima». Stratificata è la lingua, come stratificata è l’anima (nefesh, ruah, neshamah, hayah. yehidah).

         Il Bet ha-Miqdash è il santuario della nostra ahavah (amore), però, perché esso sia ricostruito, è necessario passare attraverso altri amori, confrontarsi con la sinah (odio) e scoprire che l’ahavah è più forte della sinah.

         Il libro è il diario di un decennio (1993-2002), ma il tempo si dilata, il passato diventa presente, i momenti si confondono, i ricordi diventano illuminazioni.

         Un pomeriggio della calda estate 1993 Noemi si trova a piazza Navona con un suo amico “appassionato dell’era messianica”: «Vengo tartassata di domande che io stessa non mi concedo di farmi ma qualcosa devo pur dirla, per cui mi ascolto pronunciare parole che non so se fuoriescano da me. A quel punto si verifica una assoluta confusione tra il lontano passato legato all’inizio della diaspora romana e ai primi anni del cristianesimo e l’ani ma’amin, l’”Io credo con fede completa nella venuta del Messia”». Tornata a casa, Noemi rilegge Maimonide, poi Abraham ibn Daud, e infine vorrebbe riascoltare la voce di suo padre e riapre il suo libro, il Bet Mordekhai: «Le parole di Rav Abraham ibn Daud vanno interpretate a mio modesto parere nel loro significato letterale: dal momento che secondo lui la prima santità non ha reso santo il futuro a venire, di conseguenza in questo tempo questo luogo non ha santità. Ma nel futuro a venire il luogo sarà santificato di una nuova santificazione universale, nel rispetto del Signore per sempre, da cui deriva per conseguenza che sarà anche mutato». La riflessione conclusiva di Noemi è la seguente: «Potrebbe essere che interpretando letteralmente, potrebbe essere che interpretando in questo modo, si possa vedere che le parole del salmista “Il segreto del Signore è per quelli che lo temono” si riferisca agli stessi timorati di D., che attingono una parte importante dei loro processi intellettivi da una illuminazione mentale divina» (pp. 35-37).

         L’incontro con l’Italia era avvenuto già nelle aule universitarie, quando la giovane studentessa ascoltava le lezioni del Prof. Cassuto: «Con quanto amore insegnava la Bibbia il fiorentino Moshè David Cassuto. Ed io fanciulla tra le fanciulle d’Israele cerco di trovare una strada per gli anni futuri, dopo la fine degli studi liceali». Anni dopo «all’Università di Bologna gli studenti italiani vengono a me con la Bibbia in mano, ed io mi trovo a tornare con fervore, catturata nuovamente a ricominciare dalla genesi, a tornare al primo amore, a tornare ai nostri tesori così antichi e così nuovi» (p. 29).

         Cosa vuol dire vedere Venezia con lo sguardo di Noemi? Vuol dire trovare i suoi marmi e le sue acque nello Zohar: «E’ scritto nello Zohar, in una delle sue parti musicali, che il grande rabbi Eliezer, quando giunse alle pietre di marmo miste con le acque superiori, pianse, smettendo di parlare. E’ possibile che anche a Venezia vi siano acque superiori, ma noi non le percepiremo mai, come non percepiremo mai il principio vitale superiore dell’anima che è in noi…» (p. 33).

         I santuari dei nostri amori è anche un libro dell’amicizia, e numerosi sono gli amici presenti nelle sue pagine. Qui ne ricorderemo solo due: Rav Israel Meir Lau e il Pastore Martin Cunz.

         Rav Lau è il bambino di Buchenwald che è diventato Gran Rabbino d’Israele[2]. All’età di cinque anni aveva visto suo padre, l’ultimo rabbino di Piotrkov, attendere l’arrivo dei Tedeschi nella Sinagoga, dove era riunita tutta la Comunità, con un Sefer Torah tra le braccia. Venne ucciso a Treblinka. La madre morì a Ravensbrück. Lui, affidato a suo fratello Naftali, era sopravissuto a Buchenwald, sotto la copertura di un’identità polacca. Nel 1945 Lulek, così veniva chiamato, viene accolto in casa degli zii Vogelmann a Kiryat Motzkin, e cresce insieme a Noemi, che considera come una sorella. Poi frequenta le migliori Yeshivot e nel 1993 viene nominato Gran Rabbino d’Israele.

         Nel 1991 Noemi incontra in Vaticano Giovanni Paolo II. Qualche tempo dopo va a trovare Lulek e gli parla dell’importanza del dialogo ebraico-cristiano. Nel 1996 Rav Lau partecipa a un convegno interreligioso sulla pace organizzato a Milano dal Cardinal Martini. Noemi partecipa all’evento e si chiede: «Chissà se è questo il tempo o l’inizio del tempo della realizzazione delle profezie dei nostri profeti?» (p. 48).

         Nell’agosto del 1996 Noemi intraprende un viaggio in Polonia e in Ucraina, «un viaggio verso luoghi che luoghi non sono già più, luoghi che non conoscevo, di cui non sapevo e dei quali forse non volevo sapere niente, luoghi forse eclissatesi in segreto chissà dove, nell’immaginazione della storia della mia famiglia». E’accompagnata dal libro di memorie di sua madre Bella (pubblicato a Kiryat Motzkin nel 1974) e dal Pastore Martin Cunz, insieme a un gruppo prevalentemente di cristiani. Varsavia, Lvov, la città di sua madre, dove ritrova la casa dei nonni, Drohovitz, dove c’è la casa di Bruno Schultz, Brody, Tarnopol. Martin legge brani di Buber, Babel, Rav Nahman di Brazlav. A Cernovitz c’è ancora la casa di Celan. Scrive Noemi: «Le amabili persone con cui viaggio, che mi hanno voluta come loro compagna israeliana in un’escursione cui si erano preparati da molto tempo, sono di incoraggiamento per il mio spirito. Chi aveva mai sognato di raggiungere questi posti?» (p. 117).

         Sulla tomba del Baal Shem Tov a Medzeboz accende una candela e legge il salmo che lui preferiva: «Servite Ha-Shem con gioia» (Sal 100) e poi il salmo preferito da suo padre: «Alzo gli occhi ai monti» (Sal 101). Sulla via si aggirano oche, mucche, galline, donne e bambini. E ancora Toltchin, Patchora, Shargorod, Berdicev, dove vi è la tomba di un altro saddik, Rav Levi Yitzchaq ben Meir. Torna a Zurigo con una grande sofferenza interiore e con forze rinnovate.

         Quel viaggio apre la strada a un altro viaggio, due anni dopo, e solo questa volta Noemi riesce a ricollegarsi con la propria storia personale, «il mio viaggio è come un rientro, lungo il percorso di fuga dei miei genitori, per via inversa» (p. 123). Questa volta, il sostegno viene soprattutto dalla lingua yiddisch, dalle parole e dalle melodie chassidiche che Noemi ricorda di aver ascoltato dalla voce della madre. Il culmine del viaggio è sulla tomba di Rav Nahman a Uman.

         La conclusione del libro è una citazione dalla Mishnat ha-Zohar: «Vieni e vedi. Tutti questi santuari, tutte queste creature, tutte queste schiere, tutte queste luci e tutti questi spiriti hanno bisogno l’uno dell’altro… questi santuari dipendono l’uno dall’altro».



Marco Cassuto Morselli





[1] N. Vogelmann Goldfeld, Moses Maimonides’ Treatise on Resurrection, Ktav, New York 1986.
[2]  La sua autobiografia è stata tradotta in molte lingue e anche in italiano: I. M. Lau, Dalle ceneri alla storia, Gangemi 2014.

martedì 9 agosto 2016

MARK TWAIN e gli EBREI




Se le statistiche sono corrette, gli ebrei costituiscono meno dell'un per cento della razza umana. Un piccolo ammasso di stelle minute perso nello splendore della Via Lattea.

In realtà sarebbe difficile sentire parlare dell'Ebreo, ma invece se ne parla e se ne sente sempre parlare.

La sua fama sul pianeta supera quella degli altri popoli, e la sua importanza nel commercio è sorprendentemente smisurata rispetto alla scarsità del suo numero.

Il suo contributo alla lista dei grandi nomi del mondo, in letteratura, scienze, arte, musica, finanza, medicina e altre forme di istruzione ottuse è di gran lunga sproporzionata rispetto alla pochezza del suo numero.

Egli ha svolto una meravigliosa campagna in questo mondo in tutte le epoche, e l'ha fatto con le mani legate dietro la schiena. Potrebbe essere vanitoso dei suoi successi, ed essere scusato per questo.

Gli Egiziani, i Babilonesi e i Persiani sorsero, riempirono il pianeta di suoni e splendore, e si dissolsero come un sogno e svanirono. Poi vennero i Greci e i Romani, fecero un gran rumore, e se ne sono andati.

Altri popoli sono sorti e hanno tenuto alta la loro torcia per un certo periodo. Ma poi la torcia si è consumata, e adesso siedono nella penombra, o sono scomparsi.

L'Ebreo li vide. Li combatté e adesso è quello che è sempre stato, senza alcuna decadenza, senza gli acciacchi dell'età, senza debolezze, senza diminuzione delle energie, senza che sia fiaccata la sua mente vigile e aitante.

Tutte le cose sono mortali, tranne l'Ebreo. Tutte le altre forze passano, egli resta.  Amen.


MARK TWAIN

"HARPER'S" settembre 1899.


Questo articolo è stato scritto nel 1899, quando l'antisemitismo era molto diffuso negli Stati Uniti. Le grandi aziende non assumevano ebrei; le università non ammettevano ebrei o limitavano il loro numero con quote ristrette; persone  "rispettabili" come Ford o Edison esprimevano apertamente la loro inclinazione anti-ebraica. Mark Twain ebbe una parola pronta per loro.

Traduzione: Valentina Piattelli




lunedì 8 agosto 2016

DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

Modalità e obiettivi


Léon Duƒour


Quanta polvere inutilmente sollevata da coloro che, dialogando, non conoscono il loro interlocutore! Enumeriamo alcune di queste conoscenze indispensabili, preliminari a ogni dialogo. Ho letto, io cristiano, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sugli ebrei? So che dico una menzogna, una calunnia, che sono un persecutore, se continuo a parlare di “popolo deicida” a proposito del popolo ebreo? Persino il Concilio di Trento non aveva adoperato questo termine usato invece nelle traduzioni dei catechismi. Sappiamo che Paolo stesso non è passato dall’ebraismo al cristianesimo come è stato detto, ma è rimasto ebreo, fedele alla religione dei padri (Atti 24, 14)? E che i primi cristiani erano tutti ebrei? Sappiamo che l’ebraismo non si definisce con una fede dogmatica, ma con una pratica di vita?
  
Perché questa conoscenza sia comprensione profonda, devo uscire dal circolo chiuso in cui vivo. Qualcuno può obiettare che gli ebrei hanno messo, per primi, la siepe attorno alla Torà: l'hanno fatto per proteggerla contro perverse influenze.

Tocca a me lasciare il chiuso delle mie abitudini, del mondo in cui mi sono installato confondendo le pratiche religiose con la verità ultima, rigettando nel mondo delle tenebre gli ebrei che, per paura, si sono rinchiusi in se stessi.
Devo superare la frontiera: certamente troverò un mondo molto diverso dal mio.

Eppure quali ricchezze nuove da questo contatto!

Lungi dal criticare costumi che mi sembrano strani, come quello di tenere il capo coperto durante la preghiera o quello di cantare in modo diverso, ho pensato che Gesù di Nazareth ha pregato in quel modo, che i primi cristiani hanno vissuto così? Di più: ho osservato la somiglianza della prima parte della messa e dell'ufficio sinagogale?

Se mi reco al sèder di Pèsach (cena di Pasqua) o alla festa di Kippùr (dell’espiazione), non mi sono forse sentito più stimolato nella mia preghiera pasquale o nel mio comportamento penitenziale? E così per altre istituzioni.

Prima di percorrere le tappe di una autentica conoscenza, dobbiamo dissipare un pregiudizio che può causare mancanza di accordo. Quando si parla di amore nella conoscenza, ciò non significa solo provare visceralmente della compassione per un essere che soffre; a maggior ragione, non è neppure cercare di “convertire” l'altro alla propria verità. Rispetto forse la libertà cercando di imporre la mia fede?

Una delle riserve più profonde che gli ebrei fanno quando sono avvicinati dai cristiani, è di non voler essere considerati come una preda da conquistarsi alla verità cristiana. 
Secondo la precisa affermazione di André Neher, essi non vogliono essere dei “convertiti in potenza”. E' quindi con spirito di autentica gratuità che devo avventurarmi alla conoscenza del mio fratello ebreo.





Padre Léon Duƒourteologo gesuita
-Sefer- Ottobtre 1974