mercoledì 31 ottobre 2012

Conferenze SHOAH

La Shoah tra memoria e storia

 Mercoledì 7 novembre 2012 – ore 18 - presso l’Aula Magna della Pontificia Università Gregoriana in Roma avrà luogo il primo incontro del ciclo annuale di conferenze sul tema della Shoah promosso dal Centro "Cardinal Bea" per gli Studi Giudaici, in collaborazione con l'Università degli Studi Roma Tre e l'Ufficio per la Pastorale Scolastica del Vicariato di Roma. Tema dell'incontro: La tragedia della Shoah: una sfida per la didattica
Prof. David Meghnagi, Università degli Studi Roma Tre
Prof. Frediano Sessi, Università di Brescia

 

Tutte le conferenze, gratuite e aperte al pubblico, si terranno dalle ore 18:00 alle ore 20:00 presso la Pontificia Università Gregoriana, Piazza della Pilotta 4 e l'Università degli Studi Roma Tre, Via Ostiense 159.



Programma annuale completo :


7 novembre, 2012
La tragedia della Shoah: una sfida per la didattica
Prof. David Meghnagi, Università degli Studi Roma Tre
Prof. Frediano Sessi, Università di Brescia
Sede: Pontificia Università Gregoriana - Aula Magna C021

21 novembre, 2012
La Shoah nella Letteratura
Prof. Piero Boitani, Sapienza Università di Roma
Prof. Alberto Cavaglion, Università di Firenze
Sede: Pontificia Università Gregoriana - Aula C008

5 dicembre, 2012
La Shoah nel Cinema
Prof.ssa Claudia Hassan, Università di Roma Tor Vergata
Prof. Claudio Siniscalchi, LUMSA, Roma
Sede: Università Roma Tre - Aula Magna del Rettorato

16 gennaio, 2013
Il Pensiero Ebraico di fronte alla Shoah
Rav Prof. Benedetto Carucci Viterbi, Scuole Ebraiche di Roma
Rav Dott. Roberto Della Rocca, Dipartimento Educazione e Cultura, UCEI, Roma
Sede: Pontificia Università Gregoriana - Aula C008

20 febbraio, 2013
La Teologia Cristiana dopo la Shoah Prof. Daniele Menozzi, Scuola Normale Superiore, Pisa
Prof. Philipp G. Renczes, SJ, Pontificia Università Gregoriana
Sede: Pontificia Università Gregoriana - Aula C008

6 marzo, 2013
La Shoah e l’Italia nella Storiografia
Prof. Frediano Sessi, Università di Brescia
Prof. David Meghnagi, Università degli Studi Roma Tre
Sede: Università Roma Tre - Aula Magna del Rettorato

10 aprile, 2013
La Shoah nella Filosofia
Prof.ssa Irene Kajon, Sapienza Università di Roma
Prof. Martin Morales, SJ, Pontificia Università Gregoriana
Sede: Pontificia Università Gregoriana - Aula C008

8 maggio, 2013
Tavola Rotonda:
Le sfide dell'insegnamento della Shoah
Prof. Andrea Di Maio, Pontificia Università Gregoriana
Dott.ssa Antonella Maucioni, IIS Leonardo da Vinci,Fiumicino
Dott. Enrico Modigliani, Progetto Memoria, Roma
Don Filippo Morlacchi, Ufficio Pastorale Scolastica,Vicariato di Roma
Sede: Pontificia Università Gregoriana - Aula C008

Comitato Scientifico:
Prof. David Meghnagi, Don Filippo Morlacchi, P. Philipp G. Renczes, SJ

domenica 28 ottobre 2012

Il giorno dell'Espiazione

Yom Kippùr

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell'Espiazione - Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm - è il più importante dell'anno; in aramaico è yomà, "il giorno" per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. "Il giorno" cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.

Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l'altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l'espressione e il concetto di "capro espiatorio". Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d'obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché "in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore" (versetto 30).

Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell'anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l'obbligo principale dell'uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà; letteralmente è il "ritorno" ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l'intenzione di non commettere nuovamente l'errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell'uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.

Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un'esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l'intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.

La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell'impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d'inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.

Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore - dal quale sono esenti i malati - insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c'è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l'austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.

A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell'osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l'1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l'intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall'unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

Riccardo Di Segni
Rabbino capo di Roma

Fonte: (©L'Osservatore Romano 8 ottobre 2008) 



giovedì 25 ottobre 2012

Conferenza di Seelisberg

I 10 punti presentati da Jules Isaac alla Conferenza Internazionale di Seelisberg

1- Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell'Antico come nel Nuovo Testamento.

2- Ricordare che Gesù è nato da una madre ebrea, della stirpe di Davide e del popolo d'Israele, e che il suo amore ed il suo perdono abbracciano il suo popolo ed il mondo intero.

3- Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, ed i primi martiri, erano ebrei.

4- Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell'amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna.

5- Evitare di sminuire l'ebraismo biblico o post-biblico nell'intento di esaltare il cristianesimo.

6- Evitare di usare il termine "giudei" nel senso esclusivo di "nemici di Gesù" o l’espressione "nemici di Gesù" per designare il popolo ebraico nel suo insieme.

7- Evitare di presentare la passione in modo che l'odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei che chiesero la morte di Gesù. Né sono solo gli ebrei che ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi.
Ricordare a tutti i genitori e educatori cristiani la grave responsabilità che si assumono nel presentare il vangelo e sopratutto il racconto della passione in un modo semplicista. In effetti, essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subcosciente dei loro figli o degli ascoltatori. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un amore ardente e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l'orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù, si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi.

8- Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura ed il grido della folla eccitata: "che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli", senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno."

9- Evitare di dare credito all'empia opinione secondo la quale il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a un destino di sofferenza.

10- Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla Chiesa.
I partecipanti alla Conferenza di Seelisberg (Svizzera), tra cui Jules Isaac


mercoledì 24 ottobre 2012

Jules Isaac - Gesù e Israele

 Viene nuovamente presentato al lettore italiano uno dei grandi libri del XX secolo. Jules Isaac (Rennes 1877 – Aix-en-Provence 1963) iniziò a scriverlo nel 1943, quando la sua esistenza, ormai alle soglie della vecchiaia, era minacciata ed errante, sconvolta e perseguitata. Dopo quasi quarant’anni di insegnamento della Storia, nella Francia occupata dai Tedeschi egli dovette abbandonare tutto e fuggire. Vide i suoi numerosi libri, frutto di una vita intera dedicata agli studi, finire al macero.

Nascosto nella campagna francese con la moglie, la figlia, il genero e il figlio (che vennero scoperti e deportati nei campi di sterminio: solo il figlio farà ritorno) Isaac iniziò a chiedersi come fosse possibile nel cuore dell’Europa, nel cuore del Novecento una simile barbarie. Com’è stata possibile la Shoah nell’Europa da secoli cristiana?

Non vi è dubbio che l’antisemitismo nazista è altra cosa rispetto all’antiebraismo teologico, ma la sconvolgente scoperta di Isaac è che l’insegnamento del disprezzo, capillarmente diffuso per secoli, e che ha il suo culmine nel mito del popolo deicida, ha contribuito a preparare e rendere possibile la distruzione degli Ebrei d’Europa.

Terminato nel 1946 nella solitudine di un rifugio e pubblicato a Parigi nel 1948, Gesù e Israele non può essere considerato un’opera di scienza (come lo stesso Isaac riconosce). È invece "il grido di una coscienza indignata, di un cuore lacerato".

Il libro si compone di ventun argomenti e di una conclusione pratica, che così riassumiamo:

1 - La religione cristiana è figlia della religione ebraica.
2 - Gesù è ebreo.
3 - Ebraica è la sua famiglia, ebrea è sua madre Maria (Miryam), ebraico è l’ambiente nel  quale vive.
4 - Gesù è circonciso.
5 - Il suo nome ebraico è Yeshua. Cristo è l’equivalente greco di Messia.
6 - Il Nuovo Testamento è scritto in greco, ma Gesù parlava aramaico.
7 - Nel I secolo in Israele la vita religiosa era profonda e intensa.
8 - L’insegnamento di Gesù si è svolto nel quadro tradizionale dell’ebraismo.
9 - Gesù ha osservato la Torah. Non ne ha proclamato l’abolizione.
10 - È un errore voler separare il Vangelo dall’ebraismo.
11 -La diaspora ebraica ha avuto inizio molti secoli prima della nascita di Gesù.
12 - Non si può affermare che il popolo ebraico nella sua totalità abbia rinnegato Gesù.
13 - Secondo i Vangeli, ovunque Gesù sia passato, salvo rare eccezioni, è stato accolto con entusiasmo.
14 - Non si può affermare che il popolo ebraico abbia respinto il Messia.
15 - Gesù non ha pronunciato una sentenza di condanna e di decadenza d’Israele.

Gli argomenti dal 16 al 20 sono dedicati al tema del popolo deicida: "In tutta la Cristianità, da diciotto secoli, si insegna correntemente che il popolo ebraico, pienamente responsabile della crocifissione, ha compiuto l’inesplicabile crimine del deicidio. Non vi è accusa più micidiale: effettivamente non vi è accusa che abbia fatto scorrere più sangue innocente".

21 - Israele non ha respinto Gesù né lo ha crocifisso. Gesù non ha respinto Israele né lo ha maledetto.
22 - Conclusione pratica: necessità di una riforma (redressement) dell’insegnamento cristiano.

Nell’estate del 1947 si tenne a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di Paesi. Isaac aveva preparato uno schema in diciotto punti, che vennero discussi, e infine venne approvata una dichiarazione conosciuta come I dieci punti di Seelisberg. Viene riportata in appendice perché è interessante confrontare quei punti con gli argomenti di Gesù e Israele.

In quell’occasione venne anche fondato l’International Council of Christians and Jews. Aveva dunque inizio un’altra fase della vita di Isaac, il quale fu tra i promotori dell’Amitié Judéo-Chrétienne de France (fondata nel 1948) e si adoperò per la costituzione della prima Amicizia ebraico-cristiana italiana (che venne fondata a Firenze nel 1950). Altri due libri vennero a completare il lavoro iniziato con Gesù e Israele : Genèse de l’antisémitisme (Paris 1956) e L’enseignement du mépris (Paris 1965).

Incontrò due Papi: nel 1949 venne ricevuto da Pio XII e nel 1960 da Giovanni XXIII. Nel corso di questo secondo incontro consegnò un Dossier che il Papa affidò al cardinale Bea: sarebbe stato all’origine della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II.

Da allora, si è aperta una nuova era nelle relazioni ebraico-cristiane, anche se il lavoro è enorme e le difficoltà ancora numerose. A cinquant’anni di distanza, molte cose sono cambiate, e molti degli argomenti di Isaac vengono comunemente accettati.

Ci si può chiedere però quale sia il senso di questo avvicinamento tra ebrei e cristiani. Non è in fin dei conti rischioso sia per gli uni che per gli altri? Non c’è il rischio di annullare le differenze in un confuso sincretismo?

Queste preoccupazioni sono bene espresse da uno dei grandi maestri dell’ebraismo novecentesco, R. Joseph B. Soloveitchik: "Il dialogo non deve toccare argomenti di ordine teologico, ma solo questioni laiche, di interesse comune" e più avanti: "Collaboriamo con persone appartenenti ad altre fedi in tutti i campi dello sforzo umano, ma nello stesso tempo cerchiamo di preservare la nostra distinta identità, che inevitabilmente comprende aspetti di separazione".

Da parte cristiana questa posizione viene così presentata dal pastore Matin Cunz (che la pensa diversamente ed è uno dei protagonisti del dialogo ebraico-cristiano): "Abbiamo una grandissima colpa riguardo agli ebrei. Abbiamo frainteso il Vangelo, abbiamo tradito i precetti del Cristo, il figlio del popolo ebraico. Ma tutti questi fatti tristi e vergognosi non devono e non possono cambiare le fondamenta della teologia cristiana. Le verità rimangono le stesse, il comportamento deve cambiare".

Isaac, da parte sua, licenziava il suo volume con queste sorprendenti parole:"Forse qualcuno si domanderà a quale confessione appartenga l’autore. La risposta è facile: non appartiene a nessuna confessione. Ma tutto il libro attesta il fervore che lo ispira e lo guida". Accusato di ambiguità, egli preciserà: "Fervore rispetto a Israele, fervore rispetto a Gesù, figlio d’Israele".

Se l’Alleanza con Israele non è mai stata revocata, se rav Yeshua ben Yosef non ha abolito la Torah, se la Cristianità non si è sostituita a un Israele maledetto o comunque decaduto siamo di fronte alla necessità di ridefinire la relazione tra Israele e le Chiese.

La purificazione dell’insegnamento del disprezzo e l’abbandono della teologia della sostituzione rendono possibile un riconoscimento: l’Alleanza è stata estesa alle nazioni. Il che non priva i cristiani di essere testimoni della loro fede di fronte a Israele, anzi, per la prima volta, rende la loro testimonianza credibile. Il grosso problema è sapere in che cosa propriamente tale testimonianza consista.

Per quanto possa sembrare paradossale, la testimonianza messianica delle nazioni comporta in primo luogo la consapevolezza che non è la kefirah (apostasia) d’Israele a poter essere un segno della Redenzione. Se Israele è la radice santa, ha senso sperare nella sua conversione in ramo?

Questa nuova consapevolezza rappresenterebbe una vera teshuvah, che permetterebbe di partecipare al banchetto preparato dal Signore per tutti i popoli, quando verranno distrutti il velo e la coltre posti sui loro volti (Is 25, 6-8).

Marco Morselli

martedì 16 ottobre 2012

Conferenza di Silvia Haia Antonucci

C’era una volta…
il Museo della Comunità ebraica più antica d’Europa



Conferenza di Silvia Haia Antonucci

(Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma) 

giovedì 18/10/2012 ore 16,30

presso il “Gruppo Ghimel” dell’Istituto Pitigliani (Via Arco de’ Tolomei 1, Roma)

 

A seguito della tesi  

Salvatore Fornari e Roma. Un collezionista di immagini della Capitale tra “emancipazione” e fine del XX secolo  

redatta attraverso l’analisi del Fondo Fornari conservato presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, in occasione del conseguimento della Laurea Magistrale in Studi Storico-Artistici presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia (24 gennaio 2012) in Storia dell’Arte contemporanea (prof.ssa Antonella Sbrilli).












16 ottobre 1943: Deportazione degli ebrei di Roma

La grande razzia

C’è una lapide sulla facciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte a Via del Portico d’Ottavia, quasi di fronte alla Sinagoga. Ricorda che “qui ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei”. Qui, in un’alba di 56 anni fa, si radunarono i camion e i soldati addetti alla “Judenoperation” nell’area del ghetto, dove ancora abitavano molti ebrei romani. Il centro della storia e della cultura ebraiche a Roma stava per vivere il suo giorno più atroce.

«Era sabato mattina, festa del Succot, il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte, portavano un bigliettino dattiloscritto. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, via anche i malati, nel campo dove vi porteranno c’è un’infermeria», così Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, ha ricordato quella mattina del 16 ottobre 1943.


Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziano in contemporanea la caccia per i quartieri di Roma. L’azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione. Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vengono caricati a forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le SS registrano la cattura di 1024 ebrei romani.


Per la prima volta Roma era testimone di un’operazione di massa così violenta. Tra coloro che assistettero sgomenti ci fu una donna che piangendo si mise a pregare e ripeteva sommessamente: “povera carne innocente”.


Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior numero di arresti si ebbe a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Alcuni si salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle case di vicini, di amici o trovando rifugio in case religiose, come gli ambienti attigui a S. Bartolomeo all’Isola Tiberina.


Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel collegio Militare di via della Lungara. Le oltre 30 ore trascorse al Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c’erano 207 bambini. Due giorni dopo, lunedì 18 ottobre, i prigionieri vengono caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame in partenza dalla Stazione Tiburtina. Il 22 ottobre il treno arriva ad Auschwitz.

Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo 16, di cui una sola donna, Settimia Spizzichino. Nessuno degli oltre 200 bambini è sopravvissuto.


Nel biennio 1943-1945 le perdite della popolazione ebraica in tutta Italia furono all’incirca 7750, pari al 22% del totale della popolazione ebraica nel nostro Paese.


Fonte:
Romacivica.net

venerdì 12 ottobre 2012

Israele - IL PRIMOGENITO

Il significato della primogenitura




Discorso del rabbino capo di Roma, rav Riccardo Shemuel Di Segni, in occasione del Giorno di Kippur


Tra un’ora circa, in uno dei momenti culminanti di questa nostra giornata, i kohanim, i sacerdoti discendenti di Aharon, ci daranno la benedizione. Prima di salire in tevà si faranno lavare le mani. Il privilegio di compiere questo rito, lavare le mani, spetta ai Leviti, e in loro assenza ai primogeniti. Questo perché prima che la funzione dei Leviti fosse consacrata, erano i primogeniti a svolgere certi ruoli importanti, e ancora lo fanno in qualche caso.

La storia della primogenitura ci suggerisce degli spunti importanti sui quali è opportuno riflettere. Dedichiamo un momento a ragionare su un antico racconto, che conosciamo tutti, ma ogni volta che lo rileggiamo mostra aspetti nuovi.

Abbiamo davanti due fratelli, ‘Esav e Ya‘aqov, che per quanto siano gemelli sono molto differenti tra di loro, sia nell’aspetto fisico che nel modo di comportarsi. ‘Esav, il primogenito, sta sempre in giro a caccia, mentre Ya‘aqov, il fratello minore, passa il tempo a casa, anzi nelle tende, perché quella era loro casa allora. Un giorno ‘Esav torna a casa affamato e stremato dalla fatica e trova Ya‘aqov davanti a un piatto di minestra rossa. ‘Esav la chiede e Ya‘aqov gli propone un affare, il piatto in cambio della primogenitura. ‘Esav accetta e fa lo scambio. Lasciamo stare per ora le domande importanti e più spontanee: l’affare era giusto? Ya‘aqov era un imbroglione o un profittatore? Fermiamoci su un aspetto di questa scena, la risposta di ‘Esav alla proposta del fratello:

הנה אנכי הולך למות ולמה זה לי בכרה

“ecco io vado a morire, e che ci faccio della primogenitura?” (Gen. 25:32)

Che cos’era la primogenitura, allora? Dopo l’epoca dei patriarchi, nel diritto ebraico, essere primogeniti significa ricevere, nella divisione dei beni famigliari, una parte doppia rispetto a quella di ciascun altro fratello. Inoltre i primogeniti sostituiscono i genitori nella scala del rispetto. I primogeniti esercitavano funzioni sacre, di cui è rimasto qualcosa come l’esempio, che abbiamo appena citato, e ancora oggi a 30 giorni dalla nascita devono essere riscattati. Non sappiamo bene cosa si siano scambiati i due fratelli con la vendita della primogenitura; certamente il diritto alla terra, per cui leggiamo nella Torà che Ya‘aqov rimane nella terra promessa, mentre ‘Esav si sposta più a sud. Ma perché ‘Esav rinuncia alla primogenitura con tanta leggerezza? Nelle sue parole si avverte un senso di insicurezza, sente che la sua esistenza è precaria e di promesse lontane non sa cosa fare. Solo molti anni dopo si sarebbe lamentato, e forse pentito della sua scelta. Ma in quel momento leggiamo cosa fa:

ויאכל וישת ויקם וילך ויבז עשו את הבכרה.

“mangiò e bevve, si alzò e se ne andò; ed ‘Esav disprezzò la primogenitura” (v. 34)

Questo disprezzo dovrebbe spiegare perché Ya‘aqov non era un profittatore. Semplicemente dava un senso a un ruolo spirituale, prima ancora che materiale, che invece il fratello rifiutava.

Perché parlare di tutto questo proprio ora? Perché ogni racconto antico si chiarisce con quello che succede dopo e assume significati molto più ampi. Quando Moshè si presenta al Faraone per chiedere la libertà al suo popolo, riceve l’ordine divino di dichiarare:

כה אמר ה’ בני בכרי ישראל

“Così ha detto il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es. 4:22)

Il profeta Geremia dirà:

קדש ישראל לה’ ראשית תבואתה

“Israele è sacro al Signore, l’inizio del suo raccolto” (Ger. 2:3)

La primogenitura non è solo una questione tra fratelli. È una questione tra popoli e nazioni. Secondo la Bibbia noi, Israele, siamo la nazione primogenita. Sappiamo che altre nazioni della terra non accettano di buon grado questa nomina biblica. O la negano, o dicono che l’abbiamo persa. Ma il problema non è tanto come gli altri vivano questa storia. È come noi la viviamo. Sia chiaro che la primogenitura comporta qualche privilegio, forse, ma soprattutto molti doveri e molti rischi. Secondo Rashì, quando ‘Esav diceva che non gli importava la primogenitura perché “andava a morire”, non parlava della sua vita rischiosa, ma dei rischi anche mortali della primogenitura, che lui non si voleva assumere. Non dobbiamo pensare semplicemente che noi siamo Ya‘aqov e gli altri ‘Esav. Se la Torà racconta che la discussione nasce in famiglia tra fratelli gemelli, vuol dire che il rapporto con la primogenitura, tra accoglienza e disprezzo, è questione di casa nostra, è un dissidio tra di noi; e ancora di più che una parte di ‘Esav è dentro ognuno di noi.

Che vuol dire disprezzare la primogenitura? Significa non rendersi conto, o non dare importanza alla condizione del tutto speciale che abbiamo come popolo ebraico. Lo si può fare in tanti modi e a tutti i livelli. Si può negare del tutto la propria condizione, cercando di scappare il più lontano possibile. Si può rivendicare una sorta di nobiltà, ma svuotandola degli impegni e dei doveri che la caratterizzano, trasformando e degradando la primogenitura in una distinzione senza contenuto, quasi razzista. Si disprezza la primogenitura mancando di rispetto a tutto o a parte di ciò che ci è stato trasmesso e che dobbiamo a nostra volta vivere e trasmettere.

In questa ora del tutto speciale di eccezionale affollamento, di riunione nel nome di Israele, dobbiamo riflettere su cosa significa essere Israele. Da questa riflessione deve derivare un impegno che non si fermi all’emozione di pochi momenti. Un impegno ad identificarsi nella condizione di essere il popolo figlio primogenito del Signore; senza nessuna presunzione, ma con la consapevolezza di un ruolo importante, da accettare con gioia e ottimismo; l’apprezzamento della nobiltà spirituale si deve riversare nella vita quotidiana: studiamo di più, osserviamo di più, aiutiamo di più.

Questa nostra Comunità, con la sua storia bimillenaria, continua a creare e vivere collettivamente momenti straordinari di coesione e salita spirituale, come li vivremo tra poco nel canto di E-l norà, nella berakhà, nell’ascolto dello shofàr. Sappiamo che sono le cose che ci mantengono in vita e che ci rendono indistruttibili. Tra pochi giorni le massime autorità dello Stato saranno qui con noi a ricordare gli anniversari di eventi tristi, deportazioni e attentati, che non sono stati capaci di distruggerci. Se abbiamo resistito tanto e anzi siamo cresciuti, lo dobbiamo alla consapevolezza dell’importanza del nostro ruolo. Impegniamoci, in questi momenti solenni ad essere coerenti con questa chiamata.

A tutti l’augurio di חתימה טובה תזכו לשנים רבות

Fonte: www.romaebraica.it

Ebraismo: TORAH - POPOLO - TERRA

Un Midrash racconta di un ebreo che al sopraggiungere dello Shabath, il venerdì sera si accorge di non poter arrivare in tempo alla sinagoga per la preghiera. Decide allora di pregare in casa, ma si accorge anche di non avere il libro delle preghiere e di non sapere le preghiere a memoria. Allora dice: "Signore dell'Universo, non faccio più in tempo ad andare alla sinagoga a pregare con gli altri, non ho il libro delle preghiere e non so le preghiere a memoria. Ti propongo che facciamo così: io dico le lettere dell'alfabeto e Tu componi le parole della preghiera".

Ogni volta che ci si accinge a trattare una tematica talmente vasta, complessa e profonda ci si rende conto della inadeguatezza delle proprie parole. Non resta che "dire delle lettere di alfabeto" nella fiducia che un Altro le metta insieme formando parole adeguate.

Non è una novità che la cultura occidentale e il mondo cristiano si interessino all'Ebraismo, se non altro perché da quella radice noi veniamo e perché l'Ebraismo è una realtà concreta che abbiamo avuto sempre insieme con noi.

La novità sta nel modo come - a partire dalla Shoah e dal Concilio Vaticano II - ci stiamo interessando all'Ebraismo.

È fondamentale per noi avvicinarci all'Ebraismo. Ho detto "per noi" proprio perché come credenti cristiani e come facenti parte della cultura occidentale siamo debitori in grandissima misura a questa antica e attuale realtà. Occorre tuttavia fare attenzione a non considerare l'Ebraismo quasi esso fosse solo "in funzione di" una cultura, civiltà, religione nostra. La "nuova" attenzione all'Ebraismo è un gesto di giustizia e di valenza culturale.

Come si fa a conoscere l'Ebraismo?

Si interpella Israele. Questo è utile che sia evidenziato perché siamo facilmente portati a decidere noi che cosa sia l'Ebraismo, come siano e chi siano gli ebrei.

Non è difficile interpellare Israele. Da sempre Israele si dice prima di tutto a se stesso e poi agli altri. E si dice in una maniera che chiamerei personalissima, specifica, creando uno stile unico di letteratura religiosa. Creando tutta una modalità di pensiero che costituisce un "unicum" nell'universo delle culture, quella che in seguito noi abbiamo chiamato "teologia narrativa".

Israele, specie l'Israele biblico, non filosofeggia, non fa grandi riflessioni sui problemi fondamentali della vita. Israele narra, racconta. Da qui in poi possiamo dire che dovremmo giocare su due piani, interpellando Israele: da un punto di vista si può considerare ciò che Israele dice come ispirato da Dio, e questo appartiene ai credenti. Ma possiamo anche come studiosi prescindere da una lettura di fede e accorgerci che ciò che Israele dice è comunque di un interesse enorme e di una profondità, ricchezza, novità straordinaria, in mezzo a quelle che sono le grandi culture coeve.

Più si studia Israele più ci si accorge che non è solo una religione o un'etnia, o una nazione, o un gruppo sociale, o più gruppi tribali riuniti, e che non è neanche la somma di tutto questo.

Scrive Davide Megnagi: "Per quanto gli ebrei abbiano costituito attraverso i secoli una "comunità religiosa distinta, con fedi e modelli di culto specifici ", la religione appare largamente insufficiente a dare ragione della complessa e variegata fenomenologia dell'Ebraismo: né gli atteggiamenti ideologici e metafisici degli ebrei nei confronti della terra di Israele, da cui sono stati esiliati così a lungo, né i modi in cui si è reciprocamente definito il loro rapporto con le altre religioni e nazioni, si possono spiegare esclusivamente in termini di fede religiosa. Il termine religione (in ebraico dath) non compare mai nella Torà.

Altrettanto parziale appare la riduzione dell'ebraismo alle categorie di "nazione " o di "gruppo etnico", che hanno validità solo in quanto riferite "in gran parte a tipi di collettività sviluppatesi nell'era moderna". Allo stesso tempo concetti come "comunità tribale", "comunità santa" e "popolo", di per sé vaghi possono al più denotare alcune caratteristiche della comunità ebraica degli albori, e rappresentare il nucleo di un programma religioso teso a fare di un intera collettività una "comunità di sacerdoti" ('Am Kohanim, “popolo di sacerdoti”), testimone dell'unicità di Dio, della sua universalità e regalità nel mondo.

Dal momento che l' esperienza storica dell' ebraismo moderno è così fortemente intrecciata con le sue esperienze passate, i termini "moderni ", derivanti per lo più dall'esperienza storica dell'Europa moderna, non possono che risultare inadeguati a coprire l 'intero ventaglio della stessa esperienza storica moderna degli ebrei. Da qui una delle ragioni del fascino dell'ebraismo e dell'inquietudine che suscita per il suo essere allo stesso tempo dentro e .fuori, lontano e prossimo nell'immaginario collettivo occidentale e cristiano ".

Si potrebbe parlare di un "universo ebraico" nel senso di un fenomeno etnico e storico che tocca tutti gli ambiti, incastonato come è nel tempo (biblico - della diaspora - dei ghetti - dell'Olocausto - del Sionismo - dello Stato) e nello spazio, (a partire dalla Mezzaluna fertile, agli spazi della diaspora; il che significa una compresenza degli ebrei in quello che una volta si diceva "il mondo allora conosciuto" e via via che si scoprono nuovi mondi, ecco nuove presenze ebraiche, fino ad oggi).

Il fenomeno Israele ha sollecitato l'interesse di molti studiosi. Mi limito qui a citare Toynbee e Weber i quali sono molto negativi nei confronti dell'Ebraismo. Toynbee sostiene che la civiltà rabbinica dell'esilio è solo l'esito di fossilizzazione della spinta originaria. Weber parla di "Popolo paria". A contestare queste affermazioni è apparso nel 1993 il citato studio di Eisenstadt che applica all'ebraismo una categoria particolare e parla di "civiltà" esprimendosi in questi termini: "Il termine civiltà abbraccia tutti i tentativi di costruire o ricostruire la vita sociale secondo una visione ontologica in cui concezioni della natura, del cosmo e della realtà oltremondana e mondana si coniughino con la regolamentazione della principali sfere della vita sociale e dell'interazione tra sfera politica, autorità, economia, vita famigliare ecc. Sebbene civiltà e religioni siano strettamente intrecciate tra di loro nella storia dell'umanità molte religioni hanno costituito soltanto una componente, ma non necessariamente quella centrale, delle civiltà".

Torniamo a Israele che racconta. Come tutti gli antichi popoli parla inizialmente in termini di religiosità. Ma sono termini così sostanziali, così coesi con l'espressione migliore della realtà umana, che continueranno a costituire - non solo per Israele - la fonte del diritto, del rispetto di quanto di meglio l'umanità possa esprimere in ambito d'identità e di rapporti.

Torah


Israele racconta. Prima oralmente, poi trascrivendo. Poi - nei secoli - producendo tutta una Tradizione vitale. Nasce la Torah. In mezzo a popolazioni idolatre e politeiste Israele - senza ritenersi da ciò impoverito, sapendo anzi di aver fatto una conquista grande - dice che c'è un Dio solo. E da qui viene la grandezza di Israele in quanto capace di universalità a tutti i livelli: se c'è un Dio solo, questo è il Dio di tutti. Un Dio "uno" che non è un "uno" matematico, ma I 'unico, totalmente trascendente. Pensate quanto è straordinaria questa intuizione che nasce in un contesto di popoli che concepiscono divinità immanenti, idoli che hanno bisogno di essere costruiti da mano d'uomo.

L'altra sconvolgente particolarità d'lsraele è che narra di un Dio che si coinvolge nella storia dell'umanità. La novità è sconcertante soprattutto se la si proporziona alla piccolezza di questo "non ancora popolo". Heschel approfondirà questo concetto nella sua opera : "Dio alla ricerca dell'uomo".

Non è più l'uomo che cerca Dio: su questo concetto si sono costruite tutte le grandi culture antiche. La grandiosità e novità dell'intuizione di Israele è che Dio si mette alla ricerca dell'uomo. Israele non tenta di dire chi è Dio: Israele racconta come agisce Dio.

Questo Dio è un "Tu" che interpella l 'uomo. Un Dio Persona, essere di relazione, al punto che si crea un interlocutore. E arriva sulla terra I 'uomo. E arriva come essere capace di scelta, chiamato alla conoscenza, alla lode, all'amore, alla condivisione. Libero di dire sì o no. Un autore dice: "Da quando ha creato I 'uomo, Dio ha perso la pace ". Si è trovato di fronte un interlocutore difficile. Per questo uomo Dio costruisce il cosmo come casa e gliela affida. Secondo la tradizione ebraica Dio ha creato il meno possibile perché I'uomo fosse suo collaboratore nel compimento del mondo. L'esperienza tutta ci insegna che se e quando l'uomo si inserisce nel disegno di Dio nel mondo c'è armonia e altrimenti è il disastro.

Un uomo chiamato all'amore. Dalla cultura ebraica ci viene con forza il concetto dell'amore. Pensate a Levitico 19, 18-34: "Amerai il tuo prossimo come te stesso... un forestiero nella vostra terra amatelo come voi stessi: anche voi foste forestieri...". Un uomo fatto per lo Shalom, per il tempo e la modalità messianica della vita. Quando gli ebrei parlano di messianismo pensano a questo: ad una comunità e ad un tempo nel quale ci sia da parte di tutte le creature la realizzazione piena del disegno di Dio che è un disegno d' amore.

Popolo


Israele narra e parla di un gruppo di tribù nomadi che sono interpellate da Dio. La chiamata di Dio fonda il Popolo. Non ci sarebbe popolo di Israele se non ci fosse stata questa autoconcezione (per un credente ispirata, per uno studioso un modo specialissimo assunto da questo nucleo umano per dirsi) di essere convocati da Dio. Nasce perciò il popolo come "popolo eletto". Nell'autentica concezione ebraica - contrariamente a quanto spesso si sente dire - l'elezione non è un privilegio, è un impegno, una responsabilità. E percepirsi come popolo chiamato all'ascolto, costituito dall'impegno dell'ascolto e dunque dall'impegno di una risposta. Ascoltare e rispondere, praticare le "mitzvot" (i precetti) e costituire tutto un organismo di riti e preghiere (il culto) è ciò che struttura il popolo.

Scrive G. Della Pergola: "L 'ebraismo nasce come distinzione. Dalla distinzione prendono forma il suo specifico modo di conoscere, la sua ermeneutica fondamentale, il suo metodo, la sua capacità di analisi, il suo rigore, il modo con cui si applica al mondo. Nell'ebraismo ogni cosa è determinata in quanto tale perché distinta: le acque sono distinte e separate dalla terra, la luce è distinta dalle tenebre. Così in Genesi si descrive la creazione: e il popolo di Israele è distinto e separato da ogni altro popolo. Anzi: addirittura è popolo "eletto ", scelto. È infatti popolo di Dio e non solo appartenente al mondo e alla storia degli uomini. Popolo santo "Kasher", di sacerdoti, separato. Popolo che abita "al di là del fiume" a cui è stata data una Legge che è anche una Strada. Un popolo che cammina sulla strada di Dio. Distinto ma non solitario; separato, ma non “per sé solo ". Non come tutti gli altri, eppure né snob né aristocratico. Non confuso con gli altri seppure con gli altri: ma convinto che il modo più corretto per stare con gli altri parte dalla non rinuncia ad una definizione di sé, alla propria identità e alla propria memoria ".

È il concetto di Qahal: santa assemblea convocata che diventa popolo solo in forza della convocazione, non per scelta sua, nel tempo biblico, in cui Israele perde più volte la terra e poi ritorna, e nel momento diasporico, momento terribile, dal 70 d.C. in poi, in cui comincia, con la i distruzione del Tempio, lo spargersi ovunque che continua tuttora e che si riduce solo nel 1948 con la rifondazione dello Stato in terra di Israele.

In tutto questo tempo questa gente che non ha più terra, che ha un passato illustre ma passato, paradossalmente in minoranza ovunque si trovi, riesce a fare questa operazione incredibile di compresenza: assimilarsi senza perdersi nella realtà in cui vive, lasciarsi contagiare, e contagiare la realtà ospitante. Heschel dice: "Da quando ha perso la sua terra, per 2000 anni, Israele ha vissuto su un paese di pergamena. Ha vissuto sulle Scritture: ha fatto forza sulle Scritture: le ha lette, le ha trascritte, cantate, pregate, custodite, difese, ha dato la vita per le Scritture. Le ha “interpretate”. E in questo "interpretate" è il dato di grande e profonda religiosità che permea tutta l'etica di Israele, la sua maniera straordinaria di resistere alla violenza, di vedere la preziosità della vita per cui i Maestri diranno: "Chi uccide un uomo è come se avesse ucciso tutto il mondo". Il senso della Tzedaqà (giustizia - carità) ha questo concetto profondo dietro la parola: quando compiamo carità stiamo solo obbedendo al comandamento, condividendo e rispettando il bene dell'altro. È onesto dire che Israele non ha avuto Inquisizione, non ha Jihàd (guerra santa), non ha preteso vendetta nemmeno dopo l'esperienza terribile dell'Olocausto

Terra


Dio chiama delle tribù nomadi nella persona di Abramo e fonda un popolo al quale dà (non solo promette) una Terra. Nella storia sacra ci sono battaglie accanite per la conquista della terra, ma la lettura che Israele ne fa è che Dio procura al suo popolo l'elemento che gli è indispensabile per dirsi tale: una terra su cui servirLo. Questa è una terra data. Proprio perché si ritiene depositario di un dono Israele si ritiene presente su quella terra perché Dio lì lo ha voluto. Per Israele la terra non è - come invece è per tutte le grandi religioni antiche - la terra madre, ma è una terra sposa. Una terra che Israele deve accogliere, scegliere quotidianamente, ogni giorno riscoprire, di cui deve ogni giorno innamorarsi, con la quale deve stringere un rapporto sacro perché su questa terra soltanto può compiere tutte le mitzvot.

Terra: un luogo preciso, concreto. Con la nostra ascetica cristiana noi abbiamo via disincarnato questo concetto e abbiamo difficoltà a entrare nelle categorie ebraiche: terra come un luogo preciso, donato da Dio. Donato però sotto condizione: nella Scrittura ogni volta che Dio parla con Israele a proposito della terra dice: "Se osserverete i precetti. Se sarete fedeli " E ogni volta che Israele non è fedele il primo dono che gli viene tolto è la Terra. Ma poiché le promesse di Dio sono senza pentimento la terra non viene mai tolta definitivamente. Quando Israele si pente - contrariamente a quanto ha lungamente pensato la nostra cultura cioè: ormai Dio ha abbandonato Israele per sempre - Dio non si smentisce.

Una terra lunghissimamente sognata perché lungamente persa, luogo del difficile oggi e del problematico domani.

Dice Paolo De Benedetti: "Non si tratta di una terra simbolo, di una terra mistica, come quella Palestina che era il miraggio dei crociati (ai quali gli ebrei devono decine di migliaia di morti), oppure come quella Palestina vagheggiata dai pellegrini cristiani. La terra che Israele considera ne/la propria fede come elemento essenziale del rapporto con Dio, è una terra fatta di terra ".

E dice Ben Gurion: "Nessuno può capire che cos 'è questo Stato per noi. È come una famiglia per chi non l 'ha mai avuta. Un letto per chi ha sempre dormito per terra. Una coperta e un po' di fuoco per chi ha trascorso una lunga notte all'aperto, tra il vento e sotto la pioggia ".

Renza Fozzati 

Roma - Tempio Maggiore

venerdì 5 ottobre 2012

AMICIZIA EBRAICO - CRISTIANA - ROMA

nuovo presidente: Marco Morselli

“Per amore di Gerusalemme” esprime vivo compiacimento per l’elezione a presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Roma del prof. Marco Cassuto MORSELLI, della comunità ebraica romana, e formula i più fervidi auguri di buon lavoro al neo eletto e ai sette membri del Consiglio:

Adelina Bartolomei, vicepresidente, valdese, con il compito della documentazione sull’attualità, alimentazione del Sito e relazioni con i Soci e simpatizzanti, oltre che con la Chiesa Valdese e Luterana e con il SAE (Segretariato Attività Ecumeniche).

Marina Zola, vicepresidente, cattolica. Tesoriera e incaricata delle relazioni con la Diocesi, il Movimento dei Focolari, e l’Associazione Religioni per la Pace.

Maria Letizia Giordano, metodista. Curatrice dell’Archivio cartaceo (fotocopie) e dei Libri custoditi nella Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia. Incaricata delle relazioni con la Chiesa metodista.

Enrico Modigliani, Comunità ebraica. Laico, già deputato al Parlamento della Repubblica, ha l’incarico dei rapporti Istituzionali. Fondatore del “Progetto Memoria”, sensibile ai temi della laicità dello Stato e della Libertà religiosa.

Primo Piermattei, cattolico. Creatore e curatore del Sito Internet www.aecroma.it
Assieme alla moglie Maria Brutti Piermattei, cattolica, studiosa di teologia biblica, hanno l’incarico dei rapporti con l’ICCJ (International Council of Christians and Jews)

Eric Noffke, pastore della Chiesa Metodista e docente presso la FVT. Consulente teologico all’interno del Consiglio.



mercoledì 3 ottobre 2012

IL CARD.BAGNASCO INCONTRA I RABBINI LARAS E DI SEGNI



“Non è intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei”.


Il 22 settembre, nel periodo penitenziale iniziato con Rosh Ha-Shanah, il cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha incontrato i rabbini Giuseppe Laras, Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, e Riccardo Di Segni, Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma. Il Cardinale ha voluto porgere loro gli auguri per l’inizio dell’anno ebraico pregandoli di estenderli a tutti gli ebrei italiani.

Durante l’incontro il Cardinale ha ribadito la sua stima personale e quella dei Vescovi della Conferenza Episcopale nei confronti delle Comunità ebraiche italiane. Il Cardinale ha anche compreso le reazioni di preoccupazione manifestate in relazione a talune espressioni del testo liturgico, e ha comunque ribadito quanto già il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, aveva espresso con chiarezza nella Lettera al Rabbinato di Israele circa le intenzioni del Santo Padre dopo la pubblicazione dell’“Oremus et pro Iudaeis”.

Non c’è, nel modo più assoluto, alcun cambiamento nell’atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. A tale riguardo la Conferenza Episcopale Italiana ribadisce che non è intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei. Il Cardinale ha manifestato la sua preoccupazione per quei focolai di antisemitismo e di antigiudaismo che, di tempo in tempo, continuano ad apparire, ribadendo la necessità di un'attenta vigilanza, auspicando che i legami già profondi tra le due parti si stringano ancor più. Con la crescita dell’amicizia e della stima reciproca sarà più facile sradicare quegli elementi che possono favorire atteggiamenti antiebraici.

In base ai chiarimenti intervenuti durante l'incontro, si è deciso di comune accordo di riprendere la celebrazione comune della Giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, che quest'anno non ha potuto vedere la partecipazione degli ebrei. E’ stata comune la convinzione che la ripresa di tale Celebrazione aiuterà la comprensione reciproca e renderà più fruttuosa la collaborazione per la crescita dell’amore verso Dio e il prossimo.

Il cammino compiuto in questi ultimi decenni è stato straordinario e pieno di frutti per tutti. In tale orizzonte, quindi, continuerà la riflessione sulle Dieci Parole, come Benedetto XVI aveva auspicato nella sinagoga di Colonia. L’anno prossimo, pertanto, si riprenderà il quarto comandamento, secondo la numerazione ebraica: «Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo».

Al termine dell’incontro, le due parti hanno auspicato che si favoriscano in ogni modo, sia a livello istituzionale nazionale che di base, le occasioni di incontro: la fede nel Dio dei Padri, ricevuta in dono, rende responsabili i credenti cristiani ed ebrei per l’edificazione di una convivenza basata sul rispetto dell'Insegnamento di Dio.

WWW.Chiesa Cattolica Italiana – Le News - 22 settembre 2009

FINE DELLA "MISSIO AD HAEBREOS"

 FINE DELLA “MISSIO AD HAEBREOS”
Nel tempo di Pasqua, la liturgia cattolica riflette sulla sua nascita, a partire dalla morte e risurrezione del Signore. In essa ricorre una frase degli Atti che si legge nella quarta domenica di Pasqua. Pietro termina il suo discorso di difesa davanti al Sinedrio con queste parole: “Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,11-12).

La dichiarazione Dominus Jesus, della Congregazionedella Fede (6 agosto 2000) ha ribadito il valore di questo dato di fede. È vero però che questa “centralità” di Gesù nella “storia della salvezza” è stata vissuta dalla chiesa lungo la sua storia in diversi modi. Due fatti più recenti sembrano introdurre una nuova comprensione e un nuovo atteggiamento della Chiesa cattolica a questo riguardo nei confronti degli ebrei.

Gli ebrei hanno fatto più attenzione di noi al testo della preghiera che il papa ha deposto il 26 marzo 2000 fra le pietre del Muro Occidentale a Gerusalemme. Esso diceva: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un'autentica fraternità con il popolo dell'alleanza. Per Cristo nostro Signore. Amen”.

Ora, gli ebrei si sono detti: se il papa dice che noi "siamo" ora il popolo dell'alleanza, vuol dire che la fa finita con la teoria della "sostituzione", cioè con la convinzione dei cristiani di essere il “nuovo”popolo dell’alleanza, in sostituzione dell’“antico”.

Che cosa questa affermazione comporta lo hanno esplicitato i vescovi e gli ebrei americani in un documento del 12 agosto 2002. Si tratta di una Dichiarazione congiunta, titolata “Riflessioni sull'Alleanza e sulla Missione", della Consulta della Assemblea Nazionale delle Sinagoghe e del Comitato Episcopale per le Questioni Interreligiose e Ecumeniche della Conferenza Episcopale Cattolica degli Stati Uniti, al termine di venti anni di incontri biennali.

Le riflessioni dei vescovi cattolici descrivono il crescente rispetto per la tradizione giudaica sviluppatosi nella Chiesa dopo il concilio Vaticano II.

Il rispetto e l’apprezzamento sempre più profondo della eterna alleanza tra Dio e il popolo Ebraico, insieme con il riconoscimento della missione affidata ai Giudei di testimoniare l’amore fedele del Signore, conducono alla conclusione che le “campagne” miranti alla conversione dei Giudei al cristianesimo non sono più teologicamente accettabili nella Chiesa Cattolica.

In particolare, i vescovi elencano i numerosi documenti ecclesiali che hanno segnato questo cammino dopo la dichiarazione Conciliare Nostra Aetate del 1965, includendo i tre documenti preparati dalla Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo: Linee guida e orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate n. 4 (1974); Note sul modo corretto di presentare i Giudei e il Giudaismo nella predicazione nell’insegnamento nella Chiesa Cattolica Romana (1985); e Noi ricordiamo: Una riflessione sulla Shoà (1988)

Dopo aver riconosciuto che i rapporti del cristianesimo con l’ebraismo non soltanto sono unici, ma anche che cristianesimo e giudaismo condividono un compito centrale e decisivo di testimonianza in favore dell’alleanza di Dio, i vescovi americani si chiedono, dunque, quali implicazioni ne derivino per l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo. Devono i cristiani, come facevano un tempo, invitare gli ebrei a farsi battezzare?

Si tratta, dicono i vescovi, di una questione complessa, non solo per la consapevolezza della teologia cristiana, ma anche a causa dei momenti storici in cui i cristiani costringevano gli ebrei al battesimo in modo forzato.

I vescovi americani cominciano la loro risposta ricordando una importante comunicazione presentata al Sesto incontro del Comitato Cattolico-Giudaico a Venezia, venticinque anni fa, in cui il Prof. Tommaso Federici esaminava le conseguenze “missionarie” della dichiarazione conciliare Nostra Aetate. Su basi storiche e teologiche, egli allora concludeva che non ci doveva essere nella Chiesa nessuna organizzazione di nessun tipo che fosse dedicata alla conversione dei Giudei. Di fatto, questa fu la pratica seguita dalla Chiesa cattolica negli anni seguenti.

Più recentemente, il Card. Kasper, Presidente della Commissione per i rapporti con l’Ebraismo, spiegò questa prassi affermando che in senso stretto “missione” significa “proclamazione” della conversione dai falsi dei al vero Dio, con il conseguente invito al battesimo e alla catechesi, e che, pertanto, in questo senso, queste iniziative non possono essere in modo appropriato rivolte agli Ebrei. Dal punto di vista della Chiesa, il Giudaismo è una religione che sgorga dalla rivelazione divina. Come notava il card. Kasper, “la grazia di Dio, che secondo la nostra fede è la grazia di Gesù Cristo, è disponibile per tutti. Perciò la Chiesa crede che il Giudaismo, cioè la fedele risposta del popolo giudaico alla alleanza irrevocabile di Dio, è per essi fonte di salvezza, poiché Dio è fedele alle sue promesse”.

Tale cambiamento di prospettiva è stato ripreso da parte ebraica nel Jerusalem Post del 10 gennaio 2003. In esso Yossi Klein Halevi scrive che "questi cambiamenti rivoluzionari formano la più straordinaria storia del nostro tempo: il processo di guarigione dell’umanità dalle più profonde ferite religiose. Nessuna altra religione ha mai sfidato la sua propria teologia negativa verso un’altra fede in modo così profondo come ha fatto il Cattolicesimo e parte del Protestantesimo”.

Da annotare un'altra tappa importante: dopo un incontro preliminare a Gerusalemme il 5 giugno 2002, delegazioni di alto livello della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo e del Gran Rabbinato d’Israele si sono incontrate a Villa Cavalletti (Grottaferrata - Roma), dal 23 al 27 febbraio 2003.

Argomento centrale delle discussioni, svoltesi in un’atmosfera cordiale e amichevole, è stato la ricerca su come promuovere la pace, l’armonia e i valori religiosi nelle società contemporanee. Ne è scaturito un Comunicato congiunto incentrato su due punti: La santità della vita umana e la centralità della famiglia.

Nel dicembre 2003, le delegazioni d'alto livello delle due parti hanno convenuto a Gerusalemme di discutere sul tema de "l'importanza dell' insegnamento di base della Scrittura nella società contemporanea e per l' educazione delle giovani generazioni".

I dibattiti si sono svolti in un clima d'amicizia e di mutuo rispetto. Constatiamo con soddisfazione che le due delegazioni hanno già stabilito delle solide basi che permettono d'intravedere in avvenire il seguito di una efficace collaborazione.

Da parte nostra, ci chiediamo se questi cambiamenti sono davvero compresi, accolti, diffusi e favoriti nei nostri ambienti ecclesiastici. Soprattutto il linguaggio della predicazione risente ancora molto della teoria “sostitutiva”. Basterebbe ricordare le spiegazioni della parabola dei vignaioli omicidi (in cui il termine greco “ethnos” viene ancora tradotto e compreso come “nazione”); cfr. anche alcune riflessioni sul popolo ebraico sullo sfondo del linguaggio giovanneo, quando si dice che “i suoi” non lo accolsero.

Speriamo che sia un discorso sempre più raro e destinato presto a scomparire del tutto
il riferire ancora oggi “i suoi” del vangelo di Giovanni, così come il corrispondente modo del quarto vangelo di intendere “i Giudei”, a tutto il popolo ebraico, considerato in blocco come rifiutante l’annuncio di Gesù e per di più giudicato negativamente proprio nella sua fedeltà alla legge e all’alleanza mosaica.

Antonio Pinna

su "Letture Sabatiche" dell'11 maggio 2003



lunedì 1 ottobre 2012

VISITA DI BENEDETTO XVI AL TEMPIO MAGGIORE


"Il Signore ha fatto grandi cose per loro” Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 126) “Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!” 

(Salmo 133)

Discorso del Papa



















Signor Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, 

Signor Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,

Signor Presidente della Comunità Ebraica di Roma

Signori Rabbini,

Distinte Autorità, 


Cari amici e fratelli, 

1. All’inizio dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suo Hèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo.


Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l’affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo.


2. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell’anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York.

Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”.


3. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un’epoca davvero tragica per l’umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell’uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo. Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo, “con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” (Discorso al campo di Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727).


In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.


4. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). “A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.).


5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento” (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).


6. In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.


Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme.


Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.


Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.


7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.


8. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su “L’insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l’ambiente”; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale.


9. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso.


10. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare. 


Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio 2009). 


Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa.



[“Genti tutte, lodate il Signore,

popoli tutti, cantate la sua lode,

perché forte è il suo amore per noi

e la fedeltà del Signore dura per sempre”.

Alleluia” (Sal 117)]


© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana