sabato 30 marzo 2013

PASQUA CRISTIANA

  La Veglia pasquale nella Chiesa cattolica
 
Sabato santo: accensione del fuoco sul sagrato
"Tutte le vigilie che si celebrano in onore del Signore sono gradite e accette a Dio; ma questa vigilia è al di sopra di tutte le vigilie" (S.Cromazio).

La notte del Sabato santo ha luogo la "Madre di tutte le Veglie", che celebra la festa di Pasqua e ne realizza il mistero di salvezza. La Veglia inizia con la liturgia della luce: l'accensione del fuoco nuovo e del Cero pasquale, simbolo di Cristo, luce del mondo, e della restaurazione di tutte le cose in Cristo (Alfa e Omega). Alla luce del Cero pasquale si accendono tutte le candele dell'assemblea a significare che tutti i battezzati, illuminati da Cristo, sono luce del mondo. Segue l'antico canto dell’Exultet che dà un primo annuncio della risurrezione, ripercorrendo tutte le tappe della storia della salvezza.

Subito dopo, con la liturgia della Parola, ha inizio la seconda parte della Veglia.

La sacra Scrittura che si proclama in questa notte santa è molto ricca e comprende: sette letture tratte dall'Antico Testamento, seguite ognuna da un Salmo Responsoriale e da una preghiera del sacerdote Presidente.

La prima lettura, descrive la Creazione del mondo (Genesi 1,1-2,2); la seconda, presenta la prova di Abramo e il legamento di Isacco (Genesi 22,1-18); la terza lettura, descrive
l'Esodo dall'Egitto nella notte in cui, per opera di Dio, "gli Israeliti camminarono all'asciutto in mezzo al mare" (Esodo 14,15-15,1). Seguono le letture dei profeti: due di Isaia, una di Baruc e un'altra di Ezechiele. Isaia parla dell' Alleanza d'amore che legherà per sempre Dio al suo popolo: alleanza gratuita, ma esigente. Il profeta Baruc invita Israele a camminare "nei sentieri di Dio", secondo la legge di Mosè (Baruc 3,9-15.32-4,4). Ezechiele, infine, annuncia la purificazione del popolo eletto, il suo rinnovamento spirituale e la redenzione definitiva: "Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati (...) Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri;  voi  sarete  il mio popolo e io sarò il vostro Dio" (Ezechiele 36,16-17a. 18-28).

Tutta l'assemblea cristiana, dopo aver percorso il suo cammino di fede col popolo della prima Alleanza, ora canta l'Inno di lode a Dio che ha realizzato in Cristo le sue promesse. Al canto del "Gloria a Dio nell'alto dei cieli" si unisce il suono delle campane e degli strumenti musicali, a sottolineare la gioia di tutte le creature per la Risurrezione del Signore. Segue la proclamazione di un passo fondamentale della lettera di San Paolo ai Romani in cui egli, riferendosi al Sacramento del Battesimo, afferma la nostra morte e risurrezione con Cristo. La lettura del Vangelo della Risurrezione è preceduta dal Canto pasquale dell'Alleluia - soppresso durante i quaranta giorni della Quaresima - che torna ora a sottolineare l'esultanza della Chiesa per la Risurrezione del suo Signore.

La terza parte della Veglia è costituita dalla liturgia battesimale. Per antica tradizione, la notte di Pasqua, si celebrano i Battesimi e si rinnovano le promesse battesimali.

Nella quarta parte della Veglia si celebra la liturgia eucaristica. Dopo due giorni senza Eucaristia, il Risorto ritorna in mezzo ai suoi nei segni del Pane e del Vino consacrati. Mangiando il Cibo eucaristico, i fedeli celebrano veramente la Pasqua del Signore, in attesa della sua gloriosa venuta nella Parusìa. "Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato: celebriamo dunque la festa con purezza e verità" (Antìfona alla Comunione).


L'Eucaristia del giorno di Pasqua sottolinea che la festa che si celebra è quella del "Giorno" per eccellenza:  
"Giorno radioso e splendido del trionfo di Cristo".

La Pasqua cristiana, come quella ebraica, dura otto giorni (ottava di Pasqua).
"I cinquanta giorni che si succedono dalla Domenica di Risurrezione alla Domenica di Pentecoste si celebrano nell'esultanza e nella gioia come un solo giorno di festa, anzi, come la «Grande Domenica»".                                          

Vittoria Scanu

domenica 24 marzo 2013

PESACH

La Pasqua ebraica: festa della memoria e della speranza



“Per Amore di Gerusalemme” augura a tutti gli amici di religione ebraica, una Pasqua serena e gioiosa: 
Hag Pèsach Kasher Ve Sameach! 

Pèsach è la prima e la principale festa ebraica. Essa ricorda il passaggio degli ebrei dallo stato di schiavitù a quello di libertà e la formazione del popolo ebraico come nazione unita ed indipendente, con usi, costumi e leggi proprie. La Pasqua ebraica commemora l’uscita degli ebrei dall’Egitto dopo 430 anni di dura schiavitù sotto il giogo faraonico. Il ricordo di questa miracolosa "uscita" è divenuto il punto centrale della legge e della vita degli ebrei, tanto che questo pensiero si trova un gran numero di volte espresso in molti passi della Bibbia e nei libri di preghiere.

Il nome della festa: Pèsach, deriva dal verbo pasoach, che significa "passare oltre", perché l’Angelo, inviato dall’Eterno per colpire i primogeniti egiziani, "oltrepassò" le case abitate dagli ebrei, lasciandone in vita i primogeniti.

La festa viene anche chiamata "festa delle azzime" perché per tutta la durata della festa è vietato cibarsi di sostanze lievitate e si mangia pane azzimo, in ricordo del pane che gli ebrei in fuga non ebbero il tempo di far lievitare (Cfr Lv 23,6). La Pasqua ebraica dura otto giorni (sette in terra d’Israele). Le prime due sere, si fa una cena chiamata Sèder (ordine), appunto perché il suo svolgimento segue un determinato ordine, e si mangiano cibi simbolici che ricordano l’amarezza della schiavitù in Egitto e la dolcezza della libertà ritrovata. Durante il Sèder si recita il testo della Haggadà (racconto), libro contenente in forma edificante e leggendaria, commista a vari passi biblici, il racconto dell’uscita degli ebrei dall’Egitto. La notte di Pasqua, tutti, grandi e piccoli, celebrano la memoria di quella notte splendida e terribile, in cui Dio stesso scese a liberare Israele.

Nei paesi della diaspora e in terra d'Israele, la notte di ogni Pasqua si leva un canto da ogni casa ebraica: "... Pertanto è nostro dovere rendere omaggio, lodare, celebrare, glorificare, esaltare, magnificare, encomiare Colui che fece ai nostri padri e a noi tutti questi prodigi. Che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalla soggezione alla redenzione, dal dolore alla letizia, dal lutto alla festa, dalle tenebre a splendida luce; diciamo dunque davanti a Lui: Alleluia".

Di generazione in generazione, partecipando al memoriale di Pèsach, ogni ebreo si sente salvato e liberato da Dio, rinnovato spiritualmente, come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto. Ai bambini che fanno domande, il padre di famiglia risponde spiegando perché la notte di Pasqua è unica, diversa da tutte le altre notti. Si cantano Salmi, Inni e il "grande Hallel" (Sal 136). Si bevono quattro coppe di vino durante la lettura dell’ Haggadà, ma - al racconto di ogni piaga che ha colpito l’Egitto - ogni partecipante versa in una ciotola una goccia di vino, che verrà poi gettato. Essendo il vino segno di gioia, con questo gesto si vuol significare che, anche nella gioia più grande, non bisogna gioire per la morte di nessuno, neppure dei propri nemici.

Vittoria Scanu


PER NON DIMENTICARE

Questo è il racconto dell’ultima Pasqua della famiglia di Elie Wiesel, nel villaggio di Sighet, in Transilvania, già invaso dai nazisti.

"Ci sono i tedeschi. Con le autoblindo, le macchine decapottabili, le motociclette. Portano uniformi nere, nere da far paura, vengono avanti senza uno sguardo né a destra né a sinistra... Pèsach è vicina: è la festa della memoria e della speranza. La vigilia, un decreto ha ordinato la chiusura delle sinagoghe. I miei amici e io ci separiamo tristi dalla nostra, quella dei giovani. Contemplo i muri un'ultima volta: affido loro i sacri rotoli, i libri del Talmud. Li ritroveremo?... Mio padre e io assistiamo al servizio del Rabbi di Borshe. Recitiamo l'Hallèl, canto di ringraziamento, una serie di salmi, di lodi a Dio per ringraziarlo della sua bontà verso il suo popolo. Abbiamo il cuore stretto, tuttavia cantiamo anche se a bassa voce. Ci lasciamo stringendoci le mani, e augurandoci a vicenda: "Buona festa, buona festa!" A casa la tavola è preparata. Tovaglia bianca, sei candelieri, argenteria brillante. Mia nonna, vestita per la festa, è ancora più raccolta del solito. Anche la piccola Tsipuka...Mio padre ci presenta il nostro ospite: è Moishele, lo Scaccino ... Mio padre prende Tsipuka sulle ginocchia e declama: "Ecco il pane della nostra miseria e della nostra afflizione ... I nostri antenati l'hanno mangiato in terra d'Egitto ...".

Faccio la prima delle quattro domande rituali: "Perché questa notte è diversa da tutte le altre?”. Il padre risponde: "... Perché un tempo vivevamo in schiavitù, sotto il Faraone, in Egitto”.

Un'idea mi attraversa la mente: e, se fosse lui il profeta Elia travestito da scaccino? Non si dice che stasera visiti tutte le famiglie ebree dove si ricorda e dove si bevono quattro coppe di vino in onore della liberazione? A metà del pasto, Moishele si mette a parlare con voce dolce e ardente: "Reb Shloime la ringrazio per avermi invitato ... Vorrei raccontarle ciò che vi attende. Glielo devo". Intorno al tavolo gli sguardi sono sospesi alle sue labbra aride.

Bella e dolce, bella e seria da spezzarmi il cuore, la mia sorellina, seduta compostamente sulle ginocchia di mio padre, si mette una mano sugli occhi come per scacciare un'immagine penosa. Mio padre la rassicura accarezzandole i capelli. "Non ora," dice a Moishele lo scaccino. "Le sue storie sono tristi e la legge ci proibisce di essere tristi la sera di Pèsach”. Sarà la mia ultima Pèsach - e la mia ultima festa - a casa".

(E. Wiesel:”Tutti i fiumi vanno al mare”, Bompiani 1996).

Wiesel, fu deportato con la sua famiglia ad Auschwitz e a Buchenwald dove perirono il padre, la madre e la sorellina.


mercoledì 20 marzo 2013

PASTORE E OSPITE

Il Pastore guida, l'ospite accoglie.

Nel Salmo 23 (22), che risuona familiare alle nostre orecchie, sono due le immagini principali che ci parlano di Dio: il pastore e l’ospite.

Dio è cantato dal salmo innanzitutto come un pastore. Il pastore ha il compito di guidare, nutrire, spronare. La prima cosa che il salmista dice in riferimento a Dio come suo pastore è che egli “non manca di nulla” (v. 1). Il pastore è innanzitutto colui che non ti fa mancare nulla: la sicurezza del cibo per la vita, la sicurezza dai pericoli esterni, la sicurezza dalle avversità del tempo. Il pastore è per le sue pecore la garanzia di questa sicurezza che deriva dal fatto di sapere che c’è qualcuno che non ti fa mancare nulla. Gesù nel Vangelo di Giovanni si è presentato come “il buon pastore” (Gv 10,14). Egli non fa mancare nulla ai suoi discepoli, perché offre la vita per loro (Gv 10,11) e insegna loro che facendo altrettanto, cioè donando la vita, non si manca di nulla. Il buon pastore ci dice che è donando tutto che non si manca di nulla.

In secondo luogo il pastore nel Salmo è presentato come colui che fa riposare in pascoli verdeggianti. E’ colui che mi dà riposo. Nella Bibbia l’immagine del riposo appartiene al linguaggio della salvezza: entrare nel riposo di Dio, significa entrare nella sua vita, nel suo Regno. Ma poi il Salmo continua descrivendoci questo riposo nel quale il Signore ci fa entrare come un luogo dove scorrono acque tranquille che sono in grado di ricreare la nostra vita. Nel deserto, luogo comune per il pascolo nella terra di Israele, è difficile trovare acque tranquille. Quando l’acqua c’è, è impetuosa e pericolosa. Solo in alcuni posti, le oasi, c’è la possibilità di acque tranquille alle quali ci si può abbeverare senza pericolo. Gesù ha fatto sdraiare le folle che lo seguivano sull’erba verde per saziare la loro fame di Parola e di Pane (Mc 6,39). E’ l’erba verde del tempo pasquale, la primavera, che fa rifiorire il deserto, quella sulla quale il Signore fa riposare le folle per moltiplicare il pane per la loro e la nostra fame. Gesù si è mostrato capace di ricreare la vita degli uomini e delle donne che ha incontrato, dei peccatori che ha avvicinato, dei giusti che ha condotto ad interrogarsi sull’autenticità del loro rapporto con Dio. Egli, come un corso d’acqua tranquillo, ha ricreato la loro vita.

Il pastore è colui che ti mantiene sul retto cammino (v. 3). Il pastore non lascia vagare il gregge per strade sconosciute e pericolose, ma lo guida sulla strada giusta. Il pastore è colui che con il suo vincastro ti dà sicurezza (v. 4), anche quando cammini nel buio della notte. Gesù nel Vangelo di Giovanni si è presentato come la via (Gv 14,6) e di se stesso ha detto: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». (Gv 8,12). In Luca e in Matteo Gesù si è mostrato anche come quel pastore che, se ha anche una sola pecora che si perde, non si tira indietro dall’andarla a cercare per riportarla con gioia al pascolo insieme alle altre e fare festa per averla ritrovata. Ma Gesù è anche colui che guida il cammino dei suoi discepoli nella sua via verso Gerusalemme, che per loro era una strada “tenebrosa” e incomprensibile. La via di Gesù, per i suoi discepoli, era coperta dall’ombra della morte. Gesù è per loro il pastore che li guida su quella strada che essi non sanno comprendere e che percorrono passo dopo passo pieni di timore e impauriti (Mc 10,32). Gesù è per i suoi discepoli e per noi colui che tiene la rotta anche quando noi non comprendiamo dove stiamo andando. Anche a noi, come a Pietro, Gesù ripete: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

In secondo luogo, nel Salmo, Dio si presenta come ospite: come colui che accoglie nella propria casa. Un’immagine molto forte per la cultura del Vicino Oriente Antico per la quale l’ospitalità è sacra più della propria vita e degli stessi legami familiari. Ci sono episodi, come nella storia di Lot, nei quali è più importante la vita dell’ospite che viene accolto sotto il proprio tetto, che quella dei famigliari più stretti. I doveri dell’ospitalità sono sacri: dare il cibo per il corpo, il ristoro per le fatiche, l’onore dovuto. Gesù ha sperimentato su di sé l’accoglienza nella casa altrui. Pensiamo all’accoglienza che ha ricevuto nella casa di Marta e Maria. Egli ha sperimentato su di sé l’onore dovuto agli ospiti per mano di una peccatrice che ha cosparso il suo capo di olio prezioso e ha lavato con le lacrime i suoi piedi (Mc 14,3). Ma Gesù è stato anche accogliente. Non aveva una casa di pietra dove abitare, ma accoglieva tutti alla sua mensa e sapeva ungere con l’olio della dignità filiale il capo di coloro che incontrava. Gesù stesso si è presentato come ospite accogliente per i suoi discepoli, dicendo: «io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,29-30).

Per questo, conclude il Salmo, perché Dio è mio pastore e ospite, bontà e amore mi accompagneranno per tutti i giorni della mia vita (v. 6). La bontà e l’amore sperimentata su di me, può ricreare la mia vita e farvi risplendere la stessa bellezza, per diventare anche noi pastori e ospiti.

Sant’Atanasio afferma che il Salterio «è come un giardino, tutto ciò che viene annunciato negli altri libri lo trasforma in canto» (Ad Marcellinum, 3). Il libro del Salterio, per il vescovo di Alessandria, ci parla di Cristo (Ibid. 6-9), ma anche, come uno specchio, ci parla di noi stessi: «mi sembra che i salmi diventino per chi li canta come uno specchio perché possa osservare se stesso e i moti della propria anima» (Ibid. 12). Il breve percorso che abbiamo fatto attraverso il Salmo 23 (22) ci ha fatto toccare come sia possibile leggere come in uno specchio la vita stessa di Gesù, come pastore e ospite. Ma questa contemplazione della sua vita può diventare specchio anche per noi che impariamo a leggere la nostra vita ad immagine della sua. Continua Atanasio: «ogni salmo viene detto e ordinato dallo Spirito in modo (…) farci dire ogni salmo come riferito a noi, come parole nostre per rammentarci i nostri sentimenti e correggere il nostro modo di vivere» (Ibid. 12).

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

Lunedì 18 marzo 2013 – V settimana di Quaresima

www.camaldoli.it

venerdì 15 marzo 2013

BENVENUTO!

Abbiamo un nuovo Papa: Francesco.


“PER AMORE DI GERUSALEMME”, partecipa alla gioia comune per l’elezione a vescovo di Roma di papa Francesco e chiede al Signore di benedire abbondantemente il suo ministero di pastore della Chiesa universale.

CITTA' DEL VATICANO, 14 Marzo 2013 -  Papa Francesco scrive al Rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Rav Riccardo Di Segni e lo invita all'inaugurazione del suo pontificato.

Il giorno stesso della sua elezione a Sommo Pontefice, papa Francesco ha inviato una lettera al Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, inviandogli il proprio “cordiale saluto” e invitandolo all’inaugurazione del suo pontificato che avverrà martedì prossimo, 19 marzo.

“Confidando nella protezione dell’altissimo – scrive il Santo Padre – spero vivamente di poter contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II in uno spirito che possa essere sempre più in armonia con la volontà del creatore”.

A sua volta il Rabbino Di Segni ha fatto pervenire al neoeletto Vescovo di Roma, i propri auguri di buon pontificato, con l’auspicio che Francesco “possa guidare con forza e saggezza la Chiesa cattolica per i prossimi anni”.

Il Rabbino ha poi sottolineato che i rapporti tra Chiesa Cattolica ed ebraismo – in particolare con la comunità ebraica di Roma – “hanno compiuto dei passi importanti”.

Di Segni ha infine manifestato la speranza che “si possa proseguire il cammino nel segno della continuità e delle buone relazioni”.

Fonte: Zenit.org

ISRAELE, FELICITAZIONI DAL RABBINATO DI GERUSALEMME

Un messaggio di felicitazioni è stato inviato a papa Francesco dal rabbinato di Gerusalemme, ossia dai rabbini Shlomo Amar (sefardita) e Yona Metzger (ashkenazita).
 

''Negli ultimi 12 anni - rileva il Rabbinato - viene condotto un dialogo ricco e fruttuoso fra il Rabbinato di Israele e il Vaticano su questioni di massimo significato - come il divieto di invocare il nome del Signore per la giustificazione di azioni terroristiche; la santità della vita; la santità della cellula familiare, e via dicendo. In questo dialogo abbiamo raggiunto successi significativi''.

Il Rabbinato rileva che questo dialogo è stato portato avanti grazie anche all'incoraggiamento e al coinvolgimento dei due Papi precedenti. ''Il Rabbinato - si legge in un comunicato - è sicuro che papa Francesco, le cui buone relazioni con gli ebrei sono ben note, andrà avanti nello stesso spirito, curerà e rafforzerà le relazioni con Israele e con il popolo ebraico''.

Fonte: Shalom7


giovedì 7 marzo 2013

ACQUE di VITA

Tevilah e battesimo 

di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri  



1. L’immersione nelle acque del miqweh avviene nell’ebraismo per la purificazione dai peccati e per l’ingresso nella Comunità dei proseliti. Così scrive Rav Elia Benamozegh: «Nell’ebraismo, il proselita è un figlio neonato; la vita non si trova che nella Torah e nella verità. Il peccatore è un malato, la teshuvah è la sua medicina» .

Le acque occupano un ruolo di grande importanza a partire dalle prime parole del Genesi, là dove si afferma che «lo spirito di D. aleggiava sulle acque». Le acque del diluvio universale segnano, attraverso il racconto delle vicende di Noè, l'avvento di una umanità nuova con la quale Ha-Shem conclude il Suo primo patto, avente valore universale. Le tappe fondamentali della storia del popolo ebraico sono segnate dalla presenza delle acque: basti pensare a quelle del Mar Rosso, morte per gli oppressori e vita per i figli d'Israele, o a quelle del Giordano, nel momento in cui, dopo essersi purificati, per la prima volta gli Israeliti al seguito di Yehoshua/Giosuè entrarono con l’Aron ha-Berit, l'Arca dell'Alleanza in Erez Israel. Ancora nei Salmi e soprattutto nei Profeti troviamo spesso citate le acque in un caleidoscopio di valenze che rimandano tanto alla morte che alla vita, alla purificazione del corpo e alla cancellazione dei peccati, oltre che all’avvento escatologico.

Secondo una bella definizione di Rav Benamozegh, «le acque furono sempre un simbolo, un'immagine veneratissima in bocca ai profeti, simbolo d'ispirazione quando alludono alla futura effusione dello spirito, simbolo di beatitudine quando D è presentato quale sorgente perenne di acqua viva». Così leggiamo in Ezechiele: «Io vi prenderò tra i popoli, vi raccoglierò da tutti i paesi e vi condurrò al vostro paese. Poi verserò sopra di voi acque pure e diventerete puri. Io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri atti d'idolatria e vi darò un cuore nuovo, metterò in voi uno spirito nuovo, toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, metterò in voi il Mio spirito e farò in modo che seguiate i miei statuti e teniate presenti ed eseguiate le mie leggi» . Più avanti abbiamo la descrizione delle acque risanatrici che escono dal Bet ha-Miqdash e fluiscono verso il deserto di Giuda e il Mar Morto: sono piene di pesci e lungo le rive crescono molti alberi, i cui frutti sono nutrimento e le cui foglie sono medicamenti . Così Zaccaria parla del giorno di Ha-Shem: «In quel giorno usciranno acque vive da Yerushalayim: metà verso il mare d’oriente e metà verso il mare d’occidente, ci saranno d’estate e d’inverno. Ha-Shem sarà Re su tutta la terra. In quel giorno Ha-Shem sarà Ehad, Uno, e il Suo Nome sarà Uno».

In tutto il periodo del Secondo Tempio le acque continuarono a mantenere un'importanza fondamentale nella spiritualità e nella liturgia d'Israele. La festa di Sukkot, ossia dei Tabernacoli, con le preghiere per avere acqua abbondante e con il rito della liberazione delle acque nel Tempio, in modo del tutto particolare metteva l'accento sulla loro valenza soterica delle acque, tanto che successivamente il Talmud, facendo riferimento al versetto di Isaia «attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salvezza» cantato in quel contesto festivo, la definiva festa della Shoavah perché in essa veniva attinto lo Spirito Santo, detto Shoavim.

L'enfasi sulla tevilah era straordinariamente accentuata a Qumran, come è possibile vedere in numerosi frammenti di testi rinvenuti nelle grotte e nel grande numero di mikwaot presenti tra le rovine del sito. Flavio Giuseppe racconta che gli esseni si immergevano quotidianamente nelle acque di purificazione: «dopo aver lavorato con impegno fino all’ora quinta, di nuovo si riuniscono insieme e, cintisi i fianchi di una fascia di lino, bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione entrano in un locale riservato dove non è consentito entrare a nessuno di diversa fede, ed essi in stato di purezza si accostano alla mensa come a un luogo sacro». Occorre inoltre tenere presente che molte fonti e sorgenti della zona avevano proprietà terapeutiche e risanatrici, e vi era un’importante produzione di farmaci, balsami, profumi a base di piante, radici e minerali. Anche ai nostri giorni vi è un’importante attività di healing intorno al Mar Morto.

Già nella Settanta il termine ebraico tevilàh viene tradotto in greco con baptìsma. Si veda ad esempio l’episodio del generale siriano Naaman che si reca presso il profeta Eliseo per ottenere la guarigione. Il profeta lo esorta a immergersi nelle acque del Giordano. Il termine yitbòl, si immerse, viene tradotto in greco con ebaptìsato. La conseguenza di tale immersione non è solo la guarigione del corpo, ma una vera e propria conversione al D. d’Israele: «Allora scese al Giordano, vi si immerse sette volte secondo la parola dell’uomo di D., e il suo corpo diventò come il corpo di un piccolo fanciullo ed egli divenne puro. Tornato poi all’uomo di D. con tutto il suo seguito, si fermò davanti a lui e disse: “Ora io so che in nessun paese vi è un D. se non in Israele”».

2. Le acque sono molto presenti anche negli scritti del Nuovo Testamento, tutti profondamente immersi nella cultura e nella spiritualità dell'ebraismo. Lo stesso paesaggio evangelico è spesso caratterizzato dalla presenza delle acque: in particolare quelle del Giordano e del lago di Tiberiade, ove Yeshua/Gesù, amava insegnare.

Quando nel Nuovo Testamento per la prima volta leggiamo del battesimo è a proposito di Yohannan/Giovanni, cugino di Yeshua, il quale praticava un battesimo di teshuvàh per la remissione dei peccati e le folle si accalcavano sulle rive del Giordano, sentendo imminente l’arrivo della Malkhùt ha-Shammàyim, ossia del Regno dei Cieli.

Nel Vangelo di Matteo il capitolo 3 presenta Yeshua che si reca da Yohannan per farsi battezzare: «Appena fu battezzato, Gesù usci dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di D. scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto"» (Mt 3,16-17). Soprattutto nel Vangelo di Giovanni troviamo un'attenzione particolare per le acque. Alla domanda di Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» Yeshua rispose: «In verità, in verità ti dico: se uno non è nato dall'acqua e dallo Spirito, non può entrare nel Regno di D.» (Gv 3,4-5). Nel capitolo 4 dello stesso Vangelo viene descritto l'incontro di Yeshua con la Samaritana, nel capitolo 5 la guarigione del paralitico presso la piscina di Betesda. Nel capitolo 7, ambientato nell'ultimo giorno della festa di Sukkot, Yeshua proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Colui che crede in me, come dice la Scrittura, “dal suo ventre sgorgheranno fiumi di acque vive”» (Gv 7,37-38).

Il fiume di acque vive che sgorga dal Trono di Ha-Shem e dell’Agnello compare anche nell’ultimo capitolo del Giluy/Apocalisse: «Mi mostrò poi un fiume di acque vive, limpido come il cristallo, che scaturiva dal Trono di Ha-Shem e dell’Agnello. Fra la piazza e il fiume, di qua e di là, vi sono alberi di vita, che portano frutti dodici volte, una volta al mese, con foglie che hanno virtù medicinali per la guarigione dei popoli» .

Shaùl/Paolo, al quale si devono i testi più antichi del Nuovo Testamento, introduce una nozione di battesimo diversa da quella di Yohannan. Secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, egli a Corinto, incontrati alcuni discepoli, chiese loro: «“Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?”. Gli risposero: “Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo”. Ed egli disse: “Quale battesimo avete ricevuto?”. “Il battesimo di Yohannan” risposero. Disse allora Shaul: “Yohannan battezzò con un battesimo di teshuvah, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Yeshua”. Udito questo, si fecero battezzare nel nome dell’Adòn Yeshua e non appena Shaul ebbe imposto loro le mani, discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue e a profetare”» (At 19,1-6).

Varie volte nelle sue lettere Shaul scrive del battesimo. In particolare nella Lettera ai Romani egli si esprime in questi termini: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Yeshua siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché come il Messia fu resuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4).

Tale connessione tra battesimo e morte/resurrezione del Messia è una novità introdotta da Shaul che non si riscontra più nei testi antichi della Patristica fino al IV secolo, quando riappare nelle Catechesi di Cirillo di Gerusalemme . Infatti i più antichi testi cristiani, a partire dalla Didachè, non operano tale collegamento ma insistono piuttosto sul valore del battesimo in relazione all’ingresso nella Comunità ecclesiale dei catecumeni, a quel tempo in gran parte adulti, e alla remissione dei peccati.

Nella Didachè, composta verso la fine del I secolo, a proposito del battesimo leggiamo: «Riguardo alla Tevilah, battezzate così: dopo aver esposto tutti questi precetti, battezzate in acqua viva nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 2. Se non hai acqua viva, battezza in altra acqua: se non puoi in fredda, in calda. 3. Se non ne hai né dell’una né dell’altra, versa sul capo tre volte acqua nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 4. Prima del battesimo il battezzante e il battezzando digiunino e, se può, lo faccia anche qualcun altro. Ordinerai che il battezzando digiuni per un giorno o due».

Originariamente si veniva immersi nel Nome (Ha-Shem), in un secondo momento, passando alla lingua greca e allontanandosi dalle origini, si è sentito il bisogno di aggiungere: “nel nome di Gesù” o nel “nome della Trinità”. Si tenga tuttavia presente che secondo l’interpretazione cabbalistica della Dogmatica cristiana proposta da Benamozegh, Abba (Padre) è la Sefirah Hokhmah, Ben (Figlio) è Tiferet, Ruah (Spirito, che in ebraico è femminile) è o Binah o (come in questo caso sembra più probabile) Malkhut.

A partire dal II secolo, dopo le catastrofi della Prima e Seconda Guerra Giudaica, il cristianesimo tende sempre di più a rendersi indipendente dalle sue radici ebraiche, si rivolge quasi esclusivamente ai Gentili e accentua le sue polemiche antigiudaiche, elaborando gradualmente una vera e propria teologia della sostituzione alla quale si accompagna una liturgia della sostituzione.

Così si legge ne La tradizione apostolica di Ippolito di Roma, un’opera, composta intorno al 215, importantissima nella storia della liturgia perché, dopo la Didachè, è la più antica delle Costituzioni della Chiesa giunte fino a noi: «Al canto del gallo per prima cosa si preghi sull'acqua. Sia acqua che scorra in una fonte o che fluisca dall'alto. Avvenga così, a meno che non ci sia qualche necessità. Se c'è una necessità permanente ed urgente, si usi l'acqua che si trova. [Coloro che devono ricevere il battesimo] si spoglino. Battezzate per primi i bambini. Tutti quelli che sono in grado di rispondere da sé, rispondano; per quelli che non sono in grado, rispondano i genitori o qualcuno della famiglia. Battezzate poi gli uomini ed infine le donne, le quali avranno disciolto i capelli e deposto i loro gioielli d'oro e d'argento: nessuno discenda nell'acqua con indosso qualcosa di estraneo».

Il De Baptismo di Tertulliano, una delle più antiche opere che affrontano in modo sistematico il problema della prassi battesimale della Chiesa, è stato scritto all'inizio del III sec. in Africa: «Non c'è nulla che lasci così perplessa la mente umana come la semplicità delle opere di Dio; esse paiono effettivamente semplici ma contengono in realtà delle promesse ed una efficacia strepitose. Così accade nel battesimo. Nella semplicità più completa, senza scene spettacolari, senza montature fuori dell'ordinario e a volte addirittura senza alcuna spesa particolare ci si trova immersi nell'acqua e si viene battezzati mentre si sono pronunciate ben poche parole; dall'acqua infine si risorge forse un po' più puliti o anche solo puliti come prima; ecco il motivo per cui pare incredibile che si possa in questo modo ottenere l'eternità».

Cirillo di Gerusalemme, nato verso il 315 e morto probabilmente nel 387, è stato vescovo di Gerusalemme e ha lasciato nelle sue Catechesi una preziosa testimonianza sull'iniziazione cristiana nel corso del IV secolo. Nella III Catechesi prebattesimale troviamo un elogio dell'acqua: «Se qualcuno desidera sapere per quale motivo attraverso l'acqua e non attraverso un altro elemento è data la grazia, lo troverà prendendo le divine Scritture. L'acqua infatti è qualcosa di grande e il più bello dei quattro elementi visibili del mondo. Dimora degli angeli è il cielo, ma i cieli derivano dalle acque. La terra è sede degli uomini, ma la terra deriva dalle acque. E prima che fossero formate tutte le creature durante sei giorni, "lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque". Principio del mondo è l'acqua e principio del Vangelo è il Giordano. La liberazione dal Faraone avvenne per Israele attraverso il mare e la liberazione dai peccati avviene per il mondo attraverso il lavacro dell'acqua, nella parola di Dio. Ovunque c'è un'alleanza con qualcuno, là c'è anche l'acqua. Dopo il diluvio fu concluso un patto con Noè. L'alleanza con Israele ha avuto origine dal monte Sinai, ma attraverso acqua, lana scarlatta ed issopo. Elia viene rapito in cielo, ma non senza acqua: prima infatti attraversa il Giordano, poi è trascinato dai cavalli verso il cielo. Prima il sommo sacerdote si purifica, poi brucia profumi: prima infatti Aronne si purificò, poi divenne sommo sacerdote. Come avrebbe potuto pregare infatti per gli altri, se non fosse prima stato purificato attraverso l'acqua? E simbolo del battesimo era la vasca che si trovava all'interno del Tabernacolo».

Nei Sermoni Liturgici di Cromazio di Aquileia, importante vescovo della città, vissuto nella seconda metà del IV sec. e morto nel 407, leggiamo: «L'acqua della piscina di Betsaida curava una volta sola all'anno, mentre la grazia del battesimo della chiesa scorre ogni giorno, ogni giorno cresce, ogni giorno straripa, attraverso i regni e le nazioni, e attraverso i numerosi popoli che godono del suo dono» (14,3).

In quest’altro brano, tratto dal Sermone 34 sull'Epifania, si nota chiaramente una liturgia di sostituzione: «Il nostro Signore, essendo venuto per dare un nuovo battesimo per la salvezza del genere umano e per la remissione di tutti i peccati, prima si è degnato di sottoporsi al battesimo, non tanto per liberare sé stesso dai peccati, poiché non aveva commesso alcun peccato, bensì per santificare le acque del battesimo, affinché cancellasse i peccati di tutti i credenti che erano nati di nuovo mediante il battesimo di rigenerazione [...] Ascolta quanto dice l'apostolo: "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo". E aggiunge: "Per mezzo del battesimo siete stati sepolti in lui nella morte, affinché come Cristo è stato risuscitato da morte, così anche voi camminiate in novità di vita". Mediante il battesimo moriamo al peccato, però viviamo con Cristo; veniamo sepolti alla vita antica, però risorgiamo a vita nuova; ci spogliamo dell'uomo vecchio, però indossiamo l'abito dell'uomo nuovo [...] Giovanni ha battezzato il nostro Signore e Salvatore, però è stato battezzato anche lui da Cristo, perché questi ha santificato le acque, e da queste acque quello è stato santificato [...] Un tempo la grazia del battesimo è stata enunciata misticamente: appunto quando il popolo, guadando il Giordano, è stato introdotto nella terra promessa».

La riflessione di Agostino sul peccato originale si rifletté profondamente sul suo modo di concepire il battesimo. Tale sacramento venne sempre più ritenuto l’unico mezzo per cancellare la colpa derivante dal peccato di Adamo ed Eva e per introdurre alla salvezza. L’idea dell’extra Ecclesiam nulla salus sempre più caratterizzò la speculazione teologica dei secoli successivi, per cui coloro che non erano battezzati venivano ritenuti drasticamente esclusi dalla redenzione. La pratica sempre più diffusa di amministrare il battesimo ai bambini anziché agli adulti fece alquanto sbiadire l’antica idea della cancellazione dei peccati e dell’ingresso nella Comunità ecclesiale, insistendo piuttosto sulle drammatiche conseguenze del peccato originale, senza la cui cancellazione persino i neonati erano esclusi dal Paradiso e confinati nel Limbo.

3. La concezione che abbiamo appena delineato è rimasta fondamentalmente invariata fino alla seconda metà del XX secolo, quando i nuovi fermenti teologici derivati dal Concilio Vaticano II hanno aperto nuovi orizzonti di riflessione. L’ecumenismo, il dialogo ebraico-cristiano e il dialogo interreligioso hanno portato all’abbandono o all’emarginazione della teoria dell’extra Ecclesiam nulla salus.

E’ emersa nelle Chiese la consapevolezza che la “Prima Alleanza” non è stata revocata e che Israele è il «popolo, in virtù dell’elezione, carissimo per ragione di suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili» . Così commenta Padre Adolfo Lippi: «C’è oggi, in tutta la teologia cristiana, un notevole sforzo per accogliere questa verità. Non si tratta, come è evidente, di correggere qualche paragrafo secondario dell’ecclesiologia: si richiede una vera rifondazione della teologia, compito non semplice né facile, anche perché suppone una trasformazione mentale molto profonda».

Una trasformazione mentale molto profonda è richiesta anche da parte ebraica per confrontarsi con i mutamenti che stanno avvenendo nella Cristianità. Milioni e miliardi di goyim sono entrati nel mondo della Torah e sono rinati a nuova vita grazie alle acque della tevilah. La teshuvah e il tiqqun permettono forse di riconoscere che le acque vive che per venti secoli hanno attraversato i regni e le nazioni hanno la loro fonte in Ha-Shem, e sta per compiersi la parola del profeta Geremia: «a Te verranno le nazioni dall’estremità della terra» .

venerdì 1 marzo 2013

ANNIE CAGIATI

18 aprile 1993: Stelle gialle in Piazza San Pietro - Annie Cagiati

Un ricordo indelebile nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano

A quattordici anni dalla sua scomparsa, "Per amore di Gerusalemme" ricorda con grande affetto e riconoscenza Annie Cagiati, una donna eccezionale che ha dedicato tutte le sue energie, fisiche e spirituali, alla causa della verità. Convinta sostenitrice del dialogo ebraico-cristiano, Annie ha avuto un ruolo decisivo nella nascita dell’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma, trent’anni fa.

Nel 1990, nell’intento di ristabilire la verità storico-religiosa sull’Ebraismo, in linea con quanto insegnato - a partire dal Concilio Vaticano II - dalla Chiesa Cattolica e dalle altre Chiese Cristiane, Annie fonda il Comitato italiano “Cristiani contro l’antisemitismo” e ne assume la presidenza. Il Comitato è formato da sacerdoti, religiosi e laici, tutti coscienti del fatto che due millenni di pregiudizi antiebraici hanno inquinato a tal punto le fonti della nostra cultura, sia cristiana che laica, da rendere lunga e difficile l’opera di riaffermazione della verità.

Di salute cagionevole, Annie Cagiati ha affrontato con spirito combattivo molte opposizioni, chiusure e ostilità - anche in ambito religioso e politico - senza mai perdere di vista lo scopo principale della sua vita di credente: ristabilire la verità su Israele e sull’ebraismo; combattere e denunciare ogni forma di antisemitismo e antisionismo. “Sempre più cosciente – scrive - delle enormi colpe “cristiane” e della necessità di ristabilire la verità in un campo in cui era stata troppo a lungo travisata e taciuta, con gravissimo danno di un intero popolo. Il popolo di Gesù”.

Scrittrice prolifica, pubblica numerosi libri, articoli e fogli informativi riguardanti il popolo ebraico, la sua storia e la sua unicità.
Nel 1992, dieci anni dopo l’attentato alla Sinagoga di Roma e la morte del piccolo Stefano Tachè, si registrò un’improvvisa esplosione di antisemitismo che Annie così commenta: “Non succede nulla di cui ci si debba meravigliare. Respiriamo continuamente antisemitismo a pieni polmoni senza reagire. Come potremmo non esserne contaminati? Si comincia a scuola, con libri di testo pieni di madornali errori sull’ebraismo e sullo Stato d’Israele. Si continua in parrocchia con una catechesi spesso poco conciliare e raramente rispettosa della realtà ebraica e del vero insegnamento della Chiesa. Poi viene l’età dei più disgustosi e triti slogan antisemiti, di cui si riempie la bocca chi è incapace di ragionare con la propria testa, suscitando ilarità e persino consenso. A questo punto il terreno, arato e concimato, è pronto a ricevere i semi di odio di un’abile quanto faziosa propaganda estremista. E’ solo la realtà di ieri e dell’altro ieri che viene un po’ più a galla. E sarà di domani se qualcosa non cambierà radicalmente nella nostra cultura e nel nostro cuore”.

Il 18 aprile 1993, a 50 anni dall'inizio della deportazione degli ebrei italiani, mentre l'ebraismo mondiale faceva memoria della Shoah (Yom-ha-Shoah), in numerose città italiane si sono svolte manifestazioni in cui tutti i partecipanti portavano sul petto una stella di David gialla, con scritto: "Io non dimentico". A Roma, l' incontro è stato promosso dal Comitato Italiano Cristiani contro l' antisemitismo (Presidente: Annie Cagiati), dalla Tavola Valdese e dalle Religioni per la pace.

Un gran numero di cristiani ed ebrei - tra cui molti rabbini - preti e suore, si sono riuniti in Piazza San Pietro dove il Santo Padre, Giovanni Paolo II, ha espresso tutto il suo affetto e la sua solidarietà verso i figli d'Israele, con queste toccanti parole: "I giorni della Shoah hanno segnato una vera notte nella storia, registrando crimini inauditi contro Dio e contro l'uomo. Giorni di disprezzo per la persona umana, manifestati nell'orrore delle sofferenze sopportate da tanti dei nostri fratelli e sorelle ebrei. Eventi terribili, ormai lontani nel tempo, ma scolpiti nella mente di molti tra noi. Come non essere accanto a voi, amati fratelli ebrei, per ricordare nella preghiera e nella meditazione un così doloroso anniversario? Siatene certi, non sostenete da soli la pena di questo ricordo, noi preghiamo e vegliamo con voi, sotto lo sguardo di Dio, santo e giusto, ricco di misericordia e di perdono". Il Papa ha concluso dicendo: "Quel mare di sofferenze terribili e di torti sopportati devono, oggi, unirci per poter affrontare i nuovi mali che oggi minacciano l'umanità: l'indifferenza, il pregiudizio e le manifestazioni di antisemitismo".

Alla sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1999, l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, dott. LOPEZ, scrive: ”Persona di cultura e di forti principi, Annie Cagiati ha saputo levare la voce con forza contro l’ingiustizia e la menzogna. Personalità dal coraggio singolare e dai più alti valori spirituali”.

Dandole l’estremo saluto cristiano, padre Innocenzo Gargano, della Comunità Monastica di Camaldoli, ha definito Annie: una figura preminente del dialogo ebraico – cristiano.

A quanti, come noi, l’hanno conosciuta, amata e stimata per il suo impegno morale e la totale dedizione alla causa della verità, resta il compito di non dimenticarla. 


                La sua memoria sarà sempre in benedizione! 

Vittoria Scanu - Per Amore di Gerusalemme