venerdì 30 settembre 2016

Rosh HaShana, l’ago della bilancia

Alberto Moshe Somekh


Ciascun mese dell’anno ebraico è associato a una delle dodici costellazioni dello zodiaco che appare in cielo. Al primo mese dell’anno, Tishri, è assegnato il segno della bilancia o, come è chiamata in ebraico, mozenayim. Il Midrash (Tanchumah, Shelàch) spiega l’associazione fra bilancia e Tishri in base al concetto che Maimonide avrebbe così illustrato: “Ogni uomo ha sia trasgressioni che meriti. Se i suoi meriti superano le trasgressioni, è considerato uno tzaddiq, completamente giusto. Se le trasgressioni sono superiori è considerato un rashah, completamente malvagio. Se le trasgressioni e i meriti si equivalgono, viene definito benonì, una persona che si trova nel mezzo… Tuttavia, non si tratta di un giudizio quantitativo, bensì qualitativo. Vi sono atti di merito individuali che vengono considerati più influenti di molte trasgressioni. Analogamente, vi sono trasgressioni che possono avere peso maggiore di molte fonti di merito. La determinazione del peso dipende soltanto dal giudizio di D., la cui conoscenza comprende tutto, poiché soltanto Egli può valutare il merito e la trasgressione. Ognuno dovrebbe perciò considerare se stesso, nel corso di tutto l’anno, come se fosse per metà meritevole e per metà colpevole. Così, se commette un’unica trasgressione, è in grado di inclinare l’ago della bilancia dalla parte delle trasgressioni per se stesso e per tutto il mondo, causando la distruzione di entrambi. Allo stesso modo, se compie una Mitzvah, può inclinare l’ago della bilancia dalla parte dei meriti per sé e per tutto il mondo, portando salvezza e liberazione ad entrambi” (Hil. Teshuvah 3, 1-3).
Commenta il Sefer haToda’ah: “A Rosh haShanah vengono pesate le azioni dell’uomo ed egli viene iscritto favorevolmente o sfavorevolmente in base ai meriti delle sue azioni… Anche se una persona pecca per tutto l’anno, non dovrebbe perdere fiducia nella sua capacità di fare Teshuvah. Al contrario, dovrebbe ritornare sulla via della rettitudine prima che sopraggiunga il giudizio. Dovrebbe sempre credere di aver la capacità di far pendere l’ago della bilancia propria e di quella di tutto il mondo dalla parte del merito. Per questo motivo è consuetudine di tutto il popolo d’Israel essere particolarmente generosi nella Tzedaqah, nelle buone azioni e nel compiere mitzvot nel periodo fra Rosh haShanah e Yom Kippur. L’uomo viene infatti giudicato soltanto secondo le sue azioni presenti (ba-asher hu sham; TB Rosh haShanah 16a). Perciò se si pente in prossimità del giorno del giudizio, compiendo la volontà di D., viene giudicato per come è e non per come era”.
La metafora della bilancia riferita al S.B. è già nei Profeti. Nel descrivere la potenza creatrice Divina Yesha’yahu scrive che il S.B. “pesa i monti con la stadera e le colline con la bilancia” (40,12). La bilancia simboleggia la giustizia assoluta, l’equità, l’onestà, l’etica. La Torah stessa ci prescrive di non adoperare mai due pesi e due misure, “affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che H. tuo D. ti dà” (Devarim 25, 16). Si contrappone mozeney tzedeq, la “bilancia di giustizia” (Wayqrà 19,36), il peso esatto e corretto, a mozeney mirmah, la “bilancia d’imbroglio” che è “abominio di H.” (Mishlè 11,1). Il Ben Ish Chay di Baghdad vede nella struttura della bilancia la Scrittura del Nome tetragrammato di H. I due piatti formano con le rispettive catene due lettere he; l’asta verticale rammenta la waw e il gancio simboleggia la yod. Chi adopera la bilancia in modo disonesto, insomma, profana il Nome di D. “La Torah non proibisce la disonestà nei pesi e nelle misure solo quando viene messa in pratica, cosa che rientrerebbe molto più semplicemente nel furto, ma considera la misurazione in se stessa un atto di giustizia, il simbolo del rispetto ebraico per il diritto, qualcosa di sacro da non violare. Essa vuole che il senso del diritto, il rispetto e la considerazione per l’onestà diventino un tratto fondamentale del carattere ebraico” (S.R. Hirsch).
Ma la bilancia richiama anche e soprattutto l’idea di equilibrio. La società odierna sembra raccomandare l’opposto a questo proposito. L’estremizzazione è spesso preferita da molti, che vedono nel perseguimento della via mediana un atteggiamento perdente: o tutto, o niente. Non ci si rende conto invece che chi troppo vuole nulla stringe, tafasta merubbeh lo tafasta. E occorre dare tempo al tempo, senza voler ottenere tutto subito. Ciò che richiede ponderazione è generalmente messo in disparte, perché non offre soddisfazione immediata, ma richiede piuttosto sforzo. È ancora Maimonide a darci le necessarie indicazioni. “I due estremi di ciascun tratto non riflettono la via ideale e pertanto non si raccomanda alla persona di adottarli, né di apprenderli. Se anzi si rende conto che la sua natura tende verso l’uno o l’altro degli estremi ed è così predisposta, o che ha imparato ad agire di conseguenza e vi si è abituato, deve ritornare a ciò che è raccomandabile e procedere nella via degli uomini virtuosi, che è la via retta. La via retta è la posizione intermedia fra i due estremi in ciascun tratto dell’umano comportamento, equidistante da ciascuno degli estremi, senza accostarsi a nessuno dei due. Perciò i Chakhamim più antichi ci hanno istruito a valutare i tratti del nostro carattere, a giudicarlo e a dirigerlo lungo la via mediana, in modo di essere sani… Non si deve essere troppo parsimonioso, né sperperare il proprio denaro, bensì dare Tzedaqah secondo le proprie possibilità” (Hil. De’ot 1, 3-4). “In effetti, la Torah non ha proibito quello che ha proibito, né comandato quello che ha comandato, se non al fine che noi ci tenessimo maggiormente lontani da uno degli estremi, attraverso una disciplina precauzionale… Se tu considererai da questo punto di vista la maggior parte dei precetti, troverai che essi non mirano che a equilibrare le facoltà dell’anima” (Shemonah Peraqim, cap. 4).
Una introspezione costante è elemento necessario in ogni programma di avanzamento personale e spirituale. Anche se una persona possiede gli ideali più elevati, se non provvede sovente a farsi un esame di coscienza e non sorveglia la propria condotta, può commettere gravi errori. Vi è tuttavia un altro significato ancora legato alla bilancia. La parola ebraica mozenayim, infatti, deriva dalla stessa radice di òzen, “orecchio”. R. David Qimchi, nel Sefer haShorashim, spiega l’associazione con il fatto che i due piatti della bilancia assomigliano alle due orecchie ai lati del viso. O non saranno già stati consapevoli gli antichi del fatto che proprio l’orecchio è sede dell’equilibrio fisico dell’individuo? Sembrerebbe avvalorare questa ipotesi affascinante il fatto che una volta, nel Qohelet (12,9), appare il verbo izzèn parallelo a chiqqèr (“valutare, investigare”) nel senso di “ponderare”! Se così è, la bilancia ci richiama alla capacità di adoperare l’orecchio, l’attitudine all’ascolto.
Anche la Parashah che leggeremo in occasione di Shabbat Shuvah, fra Rosh haShanah e Yom Kippur, comincia con un invito dalla stessa radice: Haazinu, “porgete orecchio” (Devarim 32,1)! Senso dell’equilibrio e disponibilità all’ascolto costituiscono due spunti di riflessione importanti per fare Teshuvah al giorno d’oggi. I modelli che i mass media forniscono invitano lo spettatore a essere boneh bamah le-‘atzmò, “costruirsi una tribuna tutta per sé”. L’essenziale è poter parlare, senza curarsi del senso di ciò che si dice. Per questo motivo, ascoltare suscita assai meno interesse. Dal momento che chi parla non è altrettanto disponibile all’ascolto degli altri, finirà prima o poi con l’assuefarsi a non avere degli ascoltatori a sua volta. E le sue parole avranno sempre meno significato, in un giro vizioso inarrestabile. Shim’ù u-tchì nafshekhem. “Prestate ascolto e la vostra anima vivrà”, invita il Profeta Yesha’yahu (55,3). Commenta R. I. Lampronti che il S.B. si comporta diversamente dall’uomo. Se un individuo si fa male dappertutto a seguito di un violento incidente, il medico riempie tutto il suo corpo di fasce. Ma quando l’uomo è pieno di trasgressioni il S.B. gli dice: “È sufficiente che ti curi l’orecchio e vedrai che tutto il resto guarirà” (s.v. hattù). L’ascolto del Maestro porta ad agire correttamente ancor più dello studio individuale dei libri. Il cattivo istinto lo sa e di proposito ci induce a sottovalutare i richiami che ci vengono rivolti e a comportarci di testa nostra, facendoci credere di non aver bisogno di consigli (Pele Yo’etz s.v. shemi’ah). Shanah Tovah. Ketivah wa-Chatimah Tovah a tutti.


Tratto da Kolot, (Pagine Ebraiche, settembre 2016)

mercoledì 28 settembre 2016

L'antisemitismo nei "Pensieri vaganti di un Cardinale"

Ugo Card. Poletti

In una scuola di Roma si sono verificati tristi episodi di antisemitismo. Leggendo queste notizie, il cuore si stringe. Anche in altre città europee si sono verificati episodi del genere. Se si potesse tornare indietro nel tempo; rivedere le pagine della storia, correggerle, come vorremmo poter rimuovere le cause che hanno originato l’antisemitismo, demolire i cancelli dei ghetti, strappare la stella gialla contrassegno di disprezzo, dai vestiti degli ebrei, perseguitati da inique e tetre leggende. Quanto dolore rappreso, quante lacrime amare nel livore vendicativo dello Sylok di Shakespeare, l’immortale personaggio del Mercante di Venezia. 

Ma questa nostra società, malgrado tutto, secondo la definizione di Benedetto Croce non può non dirsi cristiana. Sbandata, ultra-consumistica, indifferente, la civiltà occidentale non può cancellare le stigmate del cristianesimo che l'ha generata.

Allora come si può essere antisemiti? Scriveva Léon Bloy: «Ogni mattina, durante la Messa, io mangio un ebreo e quell'ebreo diventa parte di me, cuore del mio cuore.  Gesù infatti è israelita. Saluto con le parole dell'Angelo, al mattino e alla sera, una fanciulla ebrea che è la Madre di Dio e che è anche mia madre››. Belle, stupende parole di Léon Bloy.

Il fenomeno turpe dell'antisemitismo nasce dalla grettezza dell’ignoranza, miasma venefico di un passato che dovremmo cancellare con tutto l'amore possibile. Chi perseguita per motivi razziali un altro essere umano, non sa di perseguitare quella parte di se stesso che costituisce la sua ombra, che lo condiziona al punto di spingerlo a compiere azioni di cui si deve vergognare.

Inconsciamente chi perseguita un ebreo, perseguita una parte di ebreo che è pure in lui: perché perseguita un uomo. Noi non possiamo raccomandarli, questi antisemiti, che al Signore.


Cardinal Ugo Poletti
  
Vicario Generale di Sua Santità 
per Roma

(Pensieri vaganti di un cardinale - editrice AVE– Roma 1981)



Nota: Gli episodi di antisemitismo denunciati dal Cardinal Poletti nel 1981 (trentacinque anni fa!) si ripetono ancor oggi, con crescente virulenza. Siamo entrati nel tecnologico terzo millennio, ma l'odio e la grettezza d'animo, alimentati da una becera ignoranza, persistono!

venerdì 23 settembre 2016

La poesia è libertà

Il Volto dell’amore

Antonio Tirri
La poesia deve servire a migliorare l’uomo, a liberare le volontà e le intelligenze dai ceppi di una società sempre più individualistica e indifferente, dai legacci di un mondo dove regnano l’egoismo e l’ingiustizia, dove il ritmo frenetico della vita mortifica la parte poetica che è in ciascuno di noi.
Proviamo a pensare a quante volte ci siamo soffermati ad osservare il volo di una rondine o di una coccinella: se non siamo riusciti, vuol dire che abbiamo perso un momento poetico e un’occasione di essere liberi.
Se dovessi definire la poesia con una sola parola, direi che la poesia è libertà.
Libertà di abbattere gli steccati imposti dalla società, libertà di annullare le differenze di razza e di religione, libertà di sognare un mondo più giusto e più umano come ho sognato in questa poesia:
Mostrami il colore della tua pelle
mostrami il profumo della tua bellezza
mostrami  lo scintillìo dei tuoi occhi
perché lo stupore possa stordirmi
perché io possa avvicinarmi a te
libero dal male che affligge il mio tempo
e mostrarti il volto dell’amore.

A che serve odiare?
A che serve uccidere?

I figli dei morti
sono la speranza dei vivi
ma anche la paura dei vili
e il mondo è pieno di morti.
Come siamo poveri
o uomini della terra
accecati nell’abisso dell’odio di razza
ibernati nel gelo dell’intolleranza.
Ma l’uomo libero sa ancora sognare
e lo insegnerà a una moltitudine di uomini
che non sa ancora di essere libera.
Allora non si guarderà più
al colore della pelle
ma alla forza delle idee
e alla grandezza dei sogni.



Antonio Tirri - “Il tuo viso cantava”, Giuntina, Firenze 2004)

domenica 18 settembre 2016

Antonio Tirri "Cerca nel cuore"

“Cerca nel cuore” è una preghiera, un inno, un’esortazione, una denuncia, un presagio, un sogno. È un libro dove il senso religioso della vita è domanda prima che certezza, emozione prima che ragione, amore prima che angoscia.
Come il sole illumina ogni parte della terra, così lo spirito di D-o raggiunge ogni cosa: saper cogliere questo soffio, quest’anima delle cose permette all’esperienza religiosa di farsi poesia, di andare nel mondo, tra ebrei e non ebrei, ovunque ci sia un cuore in ascolto, portando il messaggio di pace e speranza di un popolo che, a dispetto della crudeltà della Storia, attende e sogna miracoli come la giustizia, la pace, l’amore, la fratellanza tra i popoli.   Antonio Tirri