venerdì 14 febbraio 2014

Giornata del Dialogo Gennaio 2014

“LO TIGNOV - NON RUBARE” (Es 20,15)
L'Ottava Parola

Rav Alberto Abraham Sermoneta  
  • Dialogo ebraico-cristiano 

Il concetto di dialogo, fra due tradizioni diverse è quello di trovare un punto in comune, da dove iniziare un determinato discorso, che possa poi svilupparsi per un confronto, sano e onesto.
Le diversità, quando vengono affrontate con rispetto verso il prossimo, servono ad arricchire le esperienze di vita e soprattutto a far maturare gli esseri umani, che vogliono combattere rancori e discriminazioni.
Si racconta nel midrash, che quando furono pronunciati i Dieci Discorsi, le Dieci Parole o meglio conosciuti come Dieci Comandamenti, essi furono pronunciati in settanta lingue diverse, tanti si pensava che fossero i popoli dell’epoca, affinché nessun popolo, potesse rivendicarne la proprietà.
E’ per questo che gli esegeti, nel commentare il testo, hanno sentenziato dicendo: settanta volti ha la Torà; ossia essa è interpretabile in settanta modi diversi. Il termine davar: parola, cosa o discorso, singolare di devarim (nel caso specifico) indica anche il luogo dove essi sono stati dati: termine che indica anche il deserto midbar. In realtà con questo termine, noi esseri umani, vogliamo indicare il luogo della solitudine per eccellenza; il luogo dove non si sente alcuna voce, se non il sibilo del vento o il verso degli animali che lo abitano. Eppure di lì è uscita la Torà che è il simbolo per eccellenza, dello studio e dell’insegnamento; quindi del parlare la lingua degli uomini.
Le Dieci Parole contengono tutto il significato della Torà e la base del rapporto fra l’uomo e D-o, fra l’uomo e il suo prossimo.

  • Riflessione sull’Ottava Parola: “LO TIGNOV - NON RUBARE” (Es 20,15)

Moltissimi sono i casi in cui, in modo assai superficiale, si disquisisce su questo 8° Comandamento "Lo tignov - Non Rubare".  Apparentemente, visto il contesto degli altri Comandamenti, emanati sul Sinai direttamente dalla voce divina, questo ottavo comandamento sembra essere meno in sintonia, meno rigoroso, rispetto agli altri che regolano il rapporto fra l’uomo ed il suo prossimo - ben adam le chaverò. Invece, analizzando attentamente il testo ed il contesto, possiamo asserire che esso racchiude i concetti fondamentali di tutti gli altri Comandamenti.
Infatti "Lo Tignov - Non Rubare" non è relegato esclusivamente al semplice e volgare furto di cose materiali seppur importanti, come possono essere danaro, beni preziosi o valori economici; in esso si concentra tutta la Giustizia sociale, in esso si  trova il "problema” della giustizia fra esseri umani e i rapporti civili che vigono all'interno della Società.

Nel libro della Genesi, al capitolo 31, si racconta della fuga di Giacobbe con le sue mogli, i figli e le concubine, da Labano, dopo 20 anni circa di vita vissuta nella sua casa.
Nei versetti 19 e 20 troviamo scritte due cose che non vanno sottovalutate; Labano è   stato visto dai commentatori come un impostore nei confronti di Giacobbe, uno  sfruttatore del lavoro altrui.
Leggendo questi due versetti, invece dobbiamo soffermarci a riflettere su alcuni elementi:
V.19   “Labano era andato a tosare il suo gregge e Rachele deruba i Terafim di suo  padre".
V.20  “E Giacobbe ruba il cuore di Labano l' arameo, per il motivo che non dice a lui che stava fuggendo”.
Mentre Rachele commette un furto, sebbene di una cosa assai cara a suo padre, ma pur sempre materiale, Giacobbe, fuggendo deruba suo suocero delle "cose" a cui tiene di più: figli e nipoti.
Mentre riguardo il furto di Rachele, non ci sarà alcuna conseguenza, con Giacobbe si determinerà una grossa spaccatura nei rapporti famigliari fra i due.

Si parla di “ghenevà - furto” anche per una cosa "astratta" - l'affetto; che però provoca un effetto assai più devastante del semplice furto di beni materiali.

Nel trattato talmudico di Sanhedrin (86a) troviamo un'obiezione, riguardo  il Comandamento in questione: "...begonev nefashot ha catuv medaber, aval bignevat mamon harè hu omer lo tignovu - il testo parla di chi rapisce persone, perché per chi ruba danaro è detto  (Levitico 17) non ruberete".
Questa obiezione talmudica vuole insegnare che il furto è inteso dalla maggior parte degli uomini, come il sottrarre a qualcuno qualcosa di materiale; viceversa è assai raro che si verifichi un furto di persone e questo è ben più grave dell'altro.
Più avanti nel testo, nel libro dell'Esodo cap. 21 v. 16, troviamo specificato dalla Torà, il comandamento in questione; è detto infatti: "ve gonev ish u mekharò ve nimzà be jadò mot jumat - colui che ruba (rapisce) un uomo e si trovino a suo carico le prove di ciò, dovrà morire".
E' tanto grave, secondo la Torà, il furto di un uomo che è prevista per esso, addirittura la pena di morte, trattamento riservato ad eventi di una gravita assoluta.
Il furto, infatti, equivale al confondere tutte le regole della società, a capovolgere ogni  regola della natura; non si possono confondere le regole che organizzano la vita su  questo mondo, ma soprattutto quelle che regolano il rapporto fra esseri umani.
In ogni caso, il furto, priva qualcuno di ciò che gli appartiene, dalla cosa più futile fino a ciò che più gli è caro, come la vita di un famigliare o addirittura, la propria vita.
Tutto ciò procurerà in colui che lo subisce una reazione che sconvolgerà per sempre la propria vita; quindi chi si macchia di questo grave reato è colpevole allo stesso modo di chi uccide.
A proposito di ciò, Dante Lattes scrive: “Qualunque attentato alla proprietà è furto: ma è mia proprietà, non solo la mia casa ed il mio campo, i miei gioielli e il mio denaro, ma anche la mia libertà finché non offende o tange la libertà degli altri, nei limiti universali ed eterni imposti dall'economia della vita e delle supreme leggi della vita; è mio il mio lavoro e i diritti del mio lavoro; è mio il sole e la poesia del cielo e della terra; è mio il frutto delle mie fatiche e il travaglio del mio pensiero e il sogno del mio spirito; è mio il mio popolo...”. ( fin qui D. Lattes) 

Tutto ciò che appartiene ad ogni essere umano è di sua proprietà; quindi, la negazione del diritto alla vita, al lavoro, allo studio, alla propria religione ed alle proprie tradizioni è FURTO! Esso è degno della peggior punizione.

Nel corso dei millenni della nostra storia, quante volte il popolo ebraico è stato derubato!
Dall'Egitto, inizio della nostra storia:  in cui fu derubato del più alto dei valori dell'essere umano - la libertà - fino all'ultima delle barbarie perpetrate nei nostri confronti, quando ogni famiglia del nostro popolo fu derubata dagli affetti più cari: padri, madri, fratelli, sorelle, mogli, mariti, figli, strappati barbaramente dalle proprie case e deportati ai confini della Terra, dove fu attuato il più grande oltraggio all'Uomo e ad un altro Comandamento - Non Uccidere, attraversando il Comandamento che vi è fra i due che suona con le parole - Non Commettere Adulterio.
Poiché non poche fra donne e bambine, prima di essere trucidate, passarono carnalmente per le luride mani di quegli atroci aguzzini.

Chi ruba profana in tutto e per tutto il Sacro nome di D-o, trasgredendo tutti gli altri Comandamenti.

Se il furto è la negazione della giustizia, la nostra tradizione ha come punto di riferimento, come simbolo della nostra società, questo Comandamento; esso è alla base di tutta la nostra vita, sociale e religiosa. Quante lotte sono state sostenute e combattute, nel corso dei secoli dal nostro popolo, contro l'ingiustizia verso ogni essere umano; lotte contro ogni tipo di frode, materiale o morale.
La Torà non una sola volta ammonisce di non commettere frodi nei confronti del prossimo; nel libro del Levitico c'è un infinito elenco di casi in cui la Torà aborrisce coloro che si comportano con frode nei confronti di un altro essere umano: dal famigliare allo straniero; dall'orfano alla vedova.
Ogni volta viene ribadito il ricordo della schiavitù egizia: “ve zakhartà ki eved haita be Mizraim - ricordati che fosti schiavo in Egitto” la stessa condizione che hai passato tu, non dovrai farla conoscere a chi potrebbe dipendere da te. “Quando uno straniero abitasse presso di te, nella tua terra, non ingannarlo; come uno dei vostri abitanti dovrà essere considerato; tu lo amerai come te stesso, poiché straniero fosti nella Terra d'Egitto”.

La maggior parte dei Profeti di Israele, si scaglia contro il popolo ebraico, non per la trasgressione alle mizvot, bensì contro la frode commessa verso il prossimo; Isaia nel suo primo capitolo, ammonendo Israele per il suo comportamento, si scaglia contro i propri capi chiamandoli “sorerim, ve chevrè gannavim - traviati e compagnia di ladri” poiché non tengono conto in primo luogo della amministrazione della giustizia verso le classi più deboli di esso.

Ma la Giustizia, sarà l'elemento che farà in modo di riportare la salvezza al popolo e all'umanità intera: da Isaia fino all'ultimo dei profeti, oltre ad ammonire Israele, annunciano la sua redenzione attraverso la messa in pratica delle opere di giustizia.
Il giusto - lo zaddik - è colui che paga il conto del malvagio, è colui che non controbatte per pagare la sua parte; sin dalla notte dei tempi, lo zaddik è colui che parla poco e fa molto, mentre il malvagio è colui che attraverso i suoi lunghi e sentimentali discorsi, cerca di trovare il modo per defraudare chi gli sta davanti in quel momento.      

“Sion verrà riscattata con la giustizia e i suoi abitanti con la zedakà”.
                                       
II popolo di Israele, ha il dovere di comportarsi da zaddik agli occhi dei popoli e far sì che la giustizia prevalga sempre, affinché chi si trova in una condizione di sottomissione o di bisogno possa trovare nel suo amico un appoggio morale e materiale, degno del più alto livello di giustizia e di convivenza fra Uomini.
Rav Alberto Abraham Sermoneta 
Rabbino Capo di Bologna   

AMICIZIA EBRAICO - CRISTIANA
GIORNATA DEL DIALOGO - 12 GENNAIO 2014
Roma - Monastero delle Monache Camaldolesi

lunedì 3 febbraio 2014

Antisionismo...

...fragile maschera dell'antisemitismo

di Rav Riccardo Di Segni

La Shoà è stata l'epilogo violento di una storia di millenni di ostilità, nella quale sono confluite contro il popolo ebraico motivazioni religiose, psicologiche, economiche, nazionalistiche, razziali. Siamo tutti testimoni del fatto che l'ostilità antiebraica non si è esaurita certo con la Shoà. Continua in questo Paese oggi e si esprime in tante forme: dagli stadi alle scritte sui muri, che sono fenomeni miseri e incivili, dalla battuta quotidiana di cattivo gusto, espressione del pregiudizio, alle forme politiche organizzate e non solo nei covi neonazisti, nelle cattedre dove si insegna nega-zionismo, nelle manifestazioni di becero antisionismo, fragile maschera dell'antisemitismo, alle forme religiose - l'insegnamento del disprezzo, il popolo deicida e il dio vendicativo - ormai deplorate dalla Chiesa cattolica ma conservate e trasmesse in sede "laica" anche da personaggi autorevoli.


Davanti a tutti questi fenomeni che potrebbero portare a chissà cosa è necessario che la società vigili e ricordi, che denunci, che non ceda, che non minimizzi, che non assolva e che non si autoassolva. Ma non c'è bisogno di essere ebreo per essere oggetto di ostilità e di odio. Basta essere in qualche modo solo un po' diverso. Le cause dell'odio per il diverso sono tante e si intrecciano in continuazione: il desiderio di mantenere privilegi, la paura di confrontarsi, il senso della minaccia, la difesa del gruppo, una situazione esistenziale difficile e a rischio. La società più civile può scoprirsi all'improvviso crudele, inospitale, aggressiva, può avere leggi democraticissime e protettive ma allo stesso tempo negare i benefici a chi è considerato diverso. Sono perfettamente convinto della unicità della Shoà, ma l'insegnamento che ne deriva non riguarda gli ebrei come vittime e una società scomparsa 70 anni fa, è un discorso attuale in una società che cambia e che si fa fatica e seguire nelle sue evoluzioni tumultuose e nei germi anche micidiali che può covare al suo interno.
 

Fonte: Il Tempo del 27 Gennaio 2014