La parashà di Shelàkh si conclude
con la mitzvà del Tzitzìt, come è scritto:
“Parla ai figli d’Israele e dirai loro di farsi delle frange agli angoli delle
loro vesti per le loro generazioni e mettano sulla frangia dell’angolo un filo
di lana di color tekhèlet(azzurro).
Queste saranno le vostre frange e quando le vedrete, ricorderete tutte le mitzvòt dell’Eterno
per osservarle . E non andrete errando dietro al vostro cuore e ai vostri occhi,
che vi hanno condotto a immoralità (Bemidbàr,
15:38-39).
Rashi (Troyes,
10149-1105) nel suo commento scrive che la Torà menziona il cuore e gli occhi
perché gli occhi vedono, il cuore brama e il corpo commette le
trasgressioni.
Il Maimonide (Cordova,
1138-1204, Il Cairo) nella Guida dei Perplessi (I:39) per spiegare il
significato della parola “cuore” nella Torà, scrive: “Lev” (cuore) è un termine
equivoco. Denota il cuore, cioè quell’organo del corpo nel quale si trova la
vitalità di ogni essere che ha un cuore […]. Il termine è usato in modo
figurativo per designare il centro di ogni cosa […]. È anche un termine che
denota il pensiero […]. E in questo senso è detto “E non andrete errando dietro
il vostro cuore” che significa “non seguirete i vostri
pensieri”.
Il Nachmanide (Gerona,
1194-1270, Acco) nel suo commento scrive che le parole “Non andrete errando
dietro ai vostri occhi e ai vostri cuori” vengono per avvertire di non uscire
dalla retta via. Egli cita il Midràsh
Sifrì (15:70) nel quale i Maestri insegnano che l’espressione
“il vostro cuore” denota l’eresia e le parole “che vi hanno condotto a
immoralità” denotano ‘avodà
zarà (culto estraneo, idolatria). E “dietro ai vostri occhi” è
la fornicazione.
R.
Chayim Volozhin (Belarus, 1749-1821), che fu il principale
discepolo del Gaon di Vilna, nel commento ai Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 3: 1)
afferma che i colori bianco e azzurro dei tziztiòt hanno un significato
allegorico (rèmez).
Il colore bianco è un rèmez delle mitzvòt proscrittive,
di quelle che ci proibiscono di fare qualcosa, e prende spunto dal versetto
di Kohèlet che
dice: “I tuoi vestiti siano sempre bianchi” (Ecclesiaste, 9:8), cioè puliti,
senza peccato. Il colore azzurro si riferisce alla mitzvòt prescrittive,
a quelle che ci obbligano a fare qualcosa. Da quando i bizantini distrussero le
fabbriche di tekhèlet sulla
costa di Eretz Israel e il colore tekhèlet non
è disponibile, il segno che ci ricorda le mitzvòt prescrittive
sono i tefillìn che
si posano sulla testa.
R. Joseph
Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston),
discendente di R. Chayim Volozhin, nel volume appena pubblicato di Mesoràs Harav su
questa parashà,
afferma che i colori bianco e blu rappresentano l’approccio dell’uomo nei
propri confronti e nei confronti del mondo che lo circonda. In modo simbolico
il colore bianco rappresenta chiarezza e razionalità. Il profeta Yesha’yà
riferendosi alla forza dellaTeshuvà e
al perdono divino, parla del colore bianco come simbolo di purezza: “Anche se i
vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi come la neve;
anche se fossero rossi come la porpora, diventeranno come la lana (Isaia,
1:18). Nel linguaggio talmudico la parola aramaica per “bianco” è “chavar” o “mechuvar” che significa
“chiaro” o “dimostrato”.
Il
colore tekhèlet è
tutto il contrario. I maestri nel Talmud babilonese (Sotà, 17a) insegnano che
“Il tekhèlet assomiglia
al mare, il mare assomiglia al cielo e il cielo assomiglia al trono
celeste”. Il colore tekhèlet rappresenta
la distanza e l’irraggiungibilità. Il cielo blu è molto distante. Il mare blu è
vasto e senza fine e il trono divino è di là dell’universo. I Maestri denotano
con tekhèlet tutto
quello che non possiamo raggiungere, che è al di là del nostro controllo e che
per noi è misterioso. Mentre il colore bianco rivela quello che è
chiaramente percettibile, il tekhèlet si
riferisce a una sfera che può essere compresa solo vagamente.
Nella
nostra vita privata abbiamo tutti dei periodi in cui tutto è razionale, ben
pianificato e prevedibile, nei quali abbiamo l’impressione di controllare gli
eventi. Vi sono invece altri periodi nei quali quello che accade è misterioso e
ci lascia perplessi. La dura realtà ci appare talvolta bizzarra e irrazionale.
Ci lascia stupefatti, scioccati e senza spiegazioni. Questo è il tekhèlet dell’esperienza
umana. Se la storia ebraica fosse controllata dal colore bianco, non avremmo
bisogno di combattere per la terra d’Israele. Dal punto di vista della ragione
e della geografia i nostri sforzi contro probabilità imprevedibili sono roba da
pazzi. Costruire una patria in mezzo a un mare di gente che ci odia non è una
cosa razionale. Con tutto ciò noi combattiamo perché questa terra ci è stata
promessa quattromila anni fa. Solo un popolo sostenuto dal tekhèlet può essere
motivato a ricostruire uno stato dopo duemila anni di esilio.
Shelàkh: Il
tekhèlet e il ritorno dall’esilio
della
Comunità Ebraica di Roma