venerdì 30 giugno 2017

Shelàkh: Il tekhèlet e il ritorno dall’esilio // di Micol Mieli



La parashà di Shelàkh si conclude con la mitzvà del Tzitzìt, come è scritto: “Parla ai figli d’Israele e dirai loro di farsi delle frange agli angoli delle loro vesti per le loro generazioni e mettano sulla frangia dell’angolo un filo di lana di color tekhèlet(azzurro). Queste saranno le vostre frange e quando le vedrete, ricorderete tutte le mitzvòt dell’Eterno per osservarle . E non andrete errando dietro al vostro cuore e ai vostri occhi, che vi hanno condotto a immoralità (Bemidbàr, 15:38-39).

Rashi (Troyes, 10149-1105) nel suo commento scrive che la Torà menziona il cuore e gli occhi perché gli occhi vedono, il cuore brama e il corpo commette le trasgressioni. 

Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nella Guida dei Perplessi (I:39) per spiegare il significato della parola “cuore” nella Torà, scrive: “Lev” (cuore) è un termine equivoco. Denota il cuore, cioè quell’organo del corpo nel quale si trova la vitalità di ogni essere che ha un cuore […]. Il termine è usato in modo figurativo per designare il centro di ogni cosa […]. È anche un termine che denota il pensiero […]. E in questo senso è detto “E non andrete errando dietro il vostro cuore” che significa “non seguirete i vostri pensieri”.   

Il Nachmanide (Gerona, 1194-1270, Acco) nel suo commento scrive che le parole “Non andrete errando dietro ai vostri occhi e ai vostri cuori” vengono per avvertire di non uscire dalla retta via. Egli cita il Midràsh Sifrì (15:70) nel quale i Maestri insegnano che l’espressione “il vostro cuore” denota l’eresia e le parole “che vi hanno condotto a immoralità” denotano ‘avodà zarà (culto estraneo, idolatria). E “dietro ai vostri occhi” è la fornicazione.

R. Chayim Volozhin (Belarus, 1749-1821), che fu il principale discepolo del Gaon di Vilna, nel commento ai Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 3: 1) afferma che i colori bianco e azzurro dei tziztiòt hanno un significato allegorico (rèmez). Il colore bianco è un rèmez delle mitzvòt proscrittive, di quelle che ci proibiscono di fare qualcosa, e prende spunto dal versetto di Kohèlet che dice: “I tuoi vestiti siano sempre bianchi” (Ecclesiaste, 9:8), cioè puliti, senza peccato. Il colore azzurro si riferisce alla mitzvòt prescrittive, a quelle che ci obbligano a fare qualcosa. Da quando i bizantini distrussero le fabbriche di tekhèlet sulla costa di Eretz Israel e il colore tekhèlet non è disponibile, il segno che ci ricorda le mitzvòt prescrittive sono i tefillìn che si posano sulla testa.

R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston), discendente di R. Chayim Volozhin, nel volume appena pubblicato di Mesoràs Harav su questa parashà, afferma che i colori bianco e blu rappresentano l’approccio dell’uomo nei propri confronti e nei confronti del mondo che lo circonda. In modo simbolico il colore bianco rappresenta chiarezza e razionalità. Il profeta Yesha’yà riferendosi alla forza dellaTeshuvà e al perdono divino, parla del colore bianco come simbolo di purezza: “Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come la porpora, diventeranno come la lana (Isaia, 1:18). Nel linguaggio talmudico la parola aramaica per “bianco” è “chavar” o “mechuvar” che significa “chiaro” o “dimostrato”.
Il colore tekhèlet è tutto il contrario.  I maestri nel Talmud babilonese (Sotà, 17a) insegnano che “Il tekhèlet assomiglia al mare,  il mare assomiglia al cielo e il cielo assomiglia al trono celeste”. Il colore tekhèlet rappresenta la distanza e l’irraggiungibilità. Il cielo blu è molto distante. Il mare blu è vasto e senza fine e il trono divino è di là dell’universo. I Maestri denotano con tekhèlet tutto quello che non possiamo raggiungere, che è al di là del nostro controllo e che per noi è  misterioso. Mentre il colore bianco rivela quello che è chiaramente percettibile, il tekhèlet si riferisce a una sfera che può essere compresa solo vagamente.
Nella nostra vita privata abbiamo tutti dei periodi in cui tutto è razionale, ben pianificato e prevedibile, nei quali abbiamo l’impressione di controllare gli eventi. Vi sono invece altri periodi nei quali quello che accade è misterioso e ci lascia perplessi. La dura realtà ci appare talvolta bizzarra e irrazionale. Ci lascia stupefatti, scioccati  e senza spiegazioni. Questo è il tekhèlet dell’esperienza umana. Se la storia ebraica fosse controllata dal colore bianco, non avremmo bisogno di combattere per la terra d’Israele. Dal punto di vista della ragione e della geografia i nostri sforzi contro probabilità imprevedibili sono roba da pazzi. Costruire una patria in mezzo a un mare di gente che ci odia non è una cosa razionale. Con tutto ciò noi combattiamo perché questa terra ci è stata promessa quattromila anni fa. Solo un popolo sostenuto dal tekhèlet può essere motivato a ricostruire uno stato dopo duemila anni di esilio.




Shelàkh: Il tekhèlet e il ritorno dall’esilio
in: Blog/News | Pubblicato da: Micol Mieli

della Comunità Ebraica di Roma

mercoledì 28 giugno 2017

Il Credo ebraico - Confessione di fede di Mosè Maimonide

Ciò che gli ebrei credono


1. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, ha creato e guida tutte le creature; e lui solo ha fatto, fa e farà ogni cosa.
2. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è unico e che in nessun modo esiste unità come la sua e che lui solo fu, è e sarà il nostro Dio.
3. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è incorporeo e che non ha determinazioni corporee e non ha alcuna figura.
4. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è il primo e I’ultimo.
5. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, è il solo a cui rivolgere la preghiera e che non si deve pregare nessuno al di fuori di lui.
6. Io credo con fede piena che  tutte le parole dei profeti sono verità.
7. Io credo con fede piena che la profezia di Mosè, nostro maestro, su di lui sia la pace, è stata veritiera e che egli è stato il più grande dei profeti, sia quelli prima di lui sia quelli dopo di lui.
8. Io credo con fede piena che tutta la Torà, ora in nostro possesso, è quella data a Mosè, nostro maestro, su di lui sia la pace.
9. Io credo con fede piena che questa Torà non sarà mutata e che non ci sarà un’altra Torà data dal Creatore, sia benedetto il suo nome.
10. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, conosce ogni azione degli uomini e ogni loro pensiero, come è detto: “Lui solo ha plasmato il loro cuore e conosce tutte le loro opere”.
11. Io credo con fede piena che il Creatore, sia benedetto il suo nome, compensa coloro che osservano i suoi precetti e punisce coloro che trasgrediscono i suoi precetti.
12. Io credo con fede piena nella venuta del messia, e anche se egli tarda, con tutto ciò lo attenderò ogni giorno finché verrà.
13. Io credo con fede piena che i morti torneranno a vivere, quando lo deciderà il Creatore, sia benedetto il suo nome.

Sia benedetto il suo nome e sia esaltata la sua menzione per tutti i secoli dei secoli. 

Confessione di fede di Mosè Maimonide



domenica 25 giugno 2017

il "Sacro" nell'ebraismo/ di Rav Elio Toaff

Per poter comprendere la posizione dell'ebraismo riguardante la concezione del sacro in generale e della sacralità dello spazio in particolare è necessario rifarsi soprattutto alla Bibbia. 
E' qui infatti che si ritrova il concetto di sacro riferito ad ambiti diversi.

Nel libro dell'Esodo troviamo esempi assai illuminanti a proposito del significato che ha il luogo dello spazio sacro. E' noto come nel secondo capitolo di quel libro viene riferito il famoso episodio relativo alla rivelazione della Divinità a Mosè attraverso il "roveto ardente". Ebbene ad un certo punto si dice: "Togliti le scarpe dai tuoi piedi perché il luogo dove tu stai è uno spazio sacro". Secondo l'esegesi più ricorrente, questo luogo sarebbe da identificare con il monte Sinai, il luogo ove successivamente sarebbe avvenuta la teofania e la promulgazione della Torà, la Legge morale. Appare assai indicativo come la coscienza della sacralità del luogo, non sia sfociata in un particolare rapporto con quello stesso spazio. Si direbbe che il luogo, assolto il suo ruolo di ospitare la rivelazione divina, sia ritornato alla sua naturale normalità. Da qui e da altri esempi, si può dedurre come l'ebraismo, a differenza di altre religioni non concepisca la sacralità dello spazio, ovvero qualcosa dotato di particolari influenze oppure ritenuto medium di particolari rapporti soprannaturali.

Invece il luogo mantiene una certa "specialità" tutto ii tempo che quello è chiamato a
svolgere un determinato ruolo oppure partecipa ad un evento straordinario carico di valenza spirituale e religiosa. I luoghi sono tuttavia meritevoli di rispetto, dignità ed onore per quello che essi rappresentano e non hanno quindi un valore intrinseco e totemico.

Al contrario, l'ebraismo sente molto forte la sacralità legata al tempo, ovvero la dimensione particolare che hanno certi momenti riguardanti la celebrazione delle festività e delle solennità del calendario ebraico.

Insegnano i Maestri ebrei che tre persone riunite insieme e che ragionano intorno a cose sacre, la divinità si trova in mezzo a loro; così pure dieci persone che si riuniscono costituiscono tutti insieme una "sacra comunità"nucleo iniziale e fondamentale della società.

Racconta un apologo ebraico che dal momento in cui è stato distrutto il Santuario di 
Gerusalemme, che agli occhi di ogni individuo simboleggiava la presenza del divino in mezzo agli uomini, la stessa divinità si ritrova attualmente in ogni casa di studio e di preghiera, come a dire che la sacralità dello spazio avviene grazie all'approfondimento e alla meditazione intorno agli argomenti di per sé sacri. 

Rav Elio Toaff

lunedì 5 giugno 2017

AccaddeOggi:Roma/Tempio Maggiore-5 giugno 1944/5 giugno 2017


Il 5 giugno del 1944, all'indomani della Liberazione di Roma, il soldato americano Aron Colub ruppe i sigilli che erano stati posti al Tempio Maggiore dai nazisti. Quattro giorni dopo, ripresero le funzioni religiose nella commozione di una Comunità dilaniata dalle persecuzioni e dalle deportazioni nazifasciste. 

Oggi la Comunità ebraica di Roma è la più numerosa e florida d'Italia, attaccata alle tradizioni, alla cultura e alla religione anche più di prima. Oggi la Comunità ebraica di Roma ha quintuplicato il numero di sinagoghe presenti nella Capitale, luoghi dove le preghiere predicano la pace e la cultura è protagonista.



A cura di Vittoria Scanu