giovedì 29 novembre 2012

Colloqui Ebraico-Cristiani di Camaldoli

33° Incontro Nazionale

5 - 9 Dicembre 2012

M. Chagall, Levi, vetrata (Gerusalemme)

Sacre Scritture e “popolo di Dio” nell’orizzonte della Berit (Patto - Alleanza)

Nelle Sacre Scritture, il popolo d’Israele che si colloca nell’orizzonte dell’alleanza è definito «regno di sacerdoti» (mamlekhet kohanim) e «popolo santo» (goj qadosh). Questo rende Israele la proprietà preziosa» (segullah) del Signore, il “popolo eletto”, ossia quel popolo che – pur non dissimile dagli altri popoli – ha accettato di essere stato scelto per svolgere una funzione di testimonianza e annuncio sacerdotali tra le genti.

Quando i cristiani, attraverso le parole di Paolo, riconoscono l’irrevocabilità della chiamata di Israele, testimoniano altresì che gli ebrei hanno «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse» (Rm 9,4). Affermare che Israele è il popolo scelto da Dio, implica dunque l’impossibilità di definire la Chiesa come “nuovo popolo di Dio” in senso sostitutivo: tale uso della categoria di “popolo di Dio” non ha infatti fondamenti biblici. Da qui emergono alcuni interrogativi, quali ad esempio l’uso cristiano della categoria di “popolo di Dio” riferito alla Chiesa e l’ingresso delle genti nel “popolo di Dio”.

Il XXXIII Colloquio Ebraico-Cristiano affronterà il tema del “popolo di Dio” a partire dal suo

significato biblico, dal ruolo che il popolo ha nella tradizione rabbinica e dalle sue multiformi espressioni nell’ebraismo contemporaneo. Si rifletterà poi sul modo in cui la teologia della sostituzione ha indebitamente interpretato il concetto di “popolo di Dio” e di come essa sia stata superata nelle Chiese della Riforma e nella Chiesa cattolica.

Alle relazioni magistrali si accompagneranno gruppi di studio, incontri tra giovani ebrei e cristiani di diverse confessioni, momenti artistici e la comune riflessione sul testo sacro, volti a rafforzare la conoscenza reciproca e a rinsaldare lo spirito di condivisione e amicizia che da decenni caratterizza i Colloqui Ebraico-Cristiani di Camaldoli.


"Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,6)

«Proprio in quanto un popolo è un singolo popolo è un popolo tra i popoli. Il suo isolarsi significa al tempo stesso un suo unirsi. Non così quando il popolo si rifiuta di essere un singolo popolo e vuole essere “l’unico popolo”. Allora non gli è concesso rinchiudersi dentro confini, bensì deve includere in sé i confini che con la loro doppia valenza ne farebbero un popolo singolo tra altri popoli».
Franz Rosenzweig, La stella della redenzione

«L’Ebraismo è non solo nella sua storia, non solo nella vita attuale del popolo; esso è anche, esso è soprattutto in noi stessi. Finché noi sentiamo in noi l’antico Ebraismo, finché troviamo in noi il primitivo dualismo e l’aspirazione verso l’unità, non possiamo credere che l’originale processo sia chiuso e che l’Ebraismo abbia esaurito il suo senso. Finché gli elementi sono dati, è dato un indefinito compito. Ed esso diviene in ognuno di noi il compito personale, l’ethos del singolo, che deve effettuarsi nella quiete e nella purezza. Collaborano al grande processo dell’Ebraismo tutti coloro che conquistano l’unità della propria anima, che si determinano in sé per il puro contro l’impuro, per il libero contro il non libero, per il produttivo contro l’improduttivo, tutti coloro che cacciano i mercanti dal loro tempio».

Martin Buber, Discorsi sull’Ebraismo

«Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6). Su questa santità, il Sifrà a Lv 19, 2 scrive: «Israele è al seguito del re e il suo dovere è di imitare il re», cosa che si realizza eseguendo la sua volontà. La sua volontà è che Israele sia un popolo sacerdotale, e poiché il sacerdozio è sempre «per», «a servizio di», in questa qualifica è già presente la vocazione universalistica di Israele. Una vocazione che ripropone però con più forza il problema della scelta: un problema nato circa il perché Dio abbia dato la Torà a un popolo così trascurabile, come si è letto nel Deuteronomio, perché Dio abbia amato un popolo così secondario. Una spiegazione la offre la parabola rabbinica, notissima, che si trova con poche varianti in Sifré Dt 343, in Mekilta de-Rabbi Jishma’el su Es 20, e altrove, in cui si racconta che Dio aveva offerto la sua Torà successivamente a diversi popoli, e ciascuno, avendo chiesto che cosa vi era scritto e avendo appreso che vi si vietava questo o quel peccato che lo caratterizzava, l’aveva rifiutata, mentre Israele rispose soltanto con le parole di Es 24,7: «Tutto ciò che il Signore ha detto, lo eseguiremo e lo ascolteremo», accettando cioè la Torà, se così si può dire, a scatola chiusa.

P. De Bendetti, Introduzione al Giudaismo

Camaldoli - Monastero

PROGRAMMA

Mercoledì 5 dicembre

Pomeriggio: Arrivi dalle 14.30 in poi
 

21.00 - Saluti
Matteo Ferrari, Monaco di Camaldoli
D. Alessandro Barban, Priore generale

Introduzione

Gianantonio Borgonovo, Dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano

Giovedì 6 dicembre


9.15 -  La relazione del Signore con Israele - concezioni bibliche
          Alexander Rofè, Università Ebraica di Gerusalemme

      - I diversi volti del Popolo di Dio nelle origini cristiane

        Massimo Grilli, Pontificia Università Gregoriana di Roma

15.00 - Un viaggio tra le pagine della poetessa Else Lasker-Schüler

           Miriam Camerini


16.00  - Incontro con i giovani

21.00 -  L’insegnamento dell’odio oggi
            Lisa Palmieri Billig, giornalista


Venerdì 7 dicembre

9.15 - Il concetto di popolo di Dio nella tradizione rabbinica
         Rav Alberto Sermoneta, Rabbino capo di Bologna

      - La pluralità dell’ebraismo contemporaneo
        Bruno Segre, scrittore e saggista
 

15.45 - Shabbat
16.15 - Gruppi
18.30 - Preghiera ebraica

Serata insieme

Sabato 8 dicembre


9.15 -  La teologia della sostituzione e il suo superamento – Chiesa cattolica
          Piero Stefani, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano

       -   La teologia della sostituzione e il suo superamento – Chiese della Riforma
           Fulvio Ferrario, Pastore Valdese

15.00  - Gruppi

17.30 - Avdalah e accensione primo lume di Chanukkah

18.15 - Lectio biblica a due voci: Bar 5,1-9
           Carmine Di Sante - Amos Luzzatto
 

21.00 - Un viaggio attraverso le molte anime della musica ebraica
           NefEsh Trio

Domenica 9 dicembre


9.15 - Conclusioni
         Amos Luzzatto - Matteo Ferrari – Marco Cassuto Morselli - Claudia Milani

 

Seminari e gruppi


1 -  Lettura a due voci di testi biblici
      Vittorio Robiati Bendaud - Luigi Nason

2 - Il tema del popolo di Dio in alcuni autori contemporanei

    Claudia Milani - Amos Luzzatto

3 - La lettera agli Ebrei

     Marco Cassuto Morselli - Gabriella Maestri

4 - Popolo, terra, Torah. Per un’introduzione all’ebraismo

    Carmine Di Sante - Laura Voghera

5 - Canto Ebraico

     Franca Landi - NefEsh Trio

mercoledì 21 novembre 2012

RITROVARE IL PRIMITIVO EBRAISMO MESSIANICO

di Adolfo Lippi cp

Partendo da due pubblicazioni di Marco Cassuto Morselli e di Gabriella Maestri, l’autore, che ha già pubblicato molti articoli sull’ebraismo e i suoi rapporti con la cristianità, offre alcune sue riflessioni sull’argomento e sullo stato di questi studi negli ultimi anni, come propria personale ricerca e invito alla ricerca di altri.


INDICE DEI CONTENUTI:
  1. La Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese
  2. Dal mondo come è al mondo che viene
  3. Cultura ebraico-biblica e cultura greca
  4. La varietà dei punti di vista sulla fede e i loro sviluppi  
  5. Che cosa significa parlare di Antica e Nuova Alleanza se la primitiva Alleanza non è stata mai revocata?
  6. La battaglia per la Torah
  7. Il senso della parola conversione
  8. L’albero porta in se stesso e restituisce  il seme da cui è nato
  9. Conclusione: una liturgia adeguata alla concezione dell’Alleanza mai revocata

  1. La Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese
Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri stanno portando avanti una ricerca per ricostruire la fisionomia autentica della primitiva comunità cristiana, quella chiesa di Gerusalemme, tutta quanta ex circumcisione (non esisteva ancora la ecclesia ex gentibus), dalla quale hanno avuto origine tutte le altre chiese. Osservo io a questo proposito che, più o meno inconsciamente, si è portati a proiettare su quella comunità caratteristiche e categorie mentali che si sono sviluppate più tardi nel cristianesimo, più tardi ed anche in ambienti culturali assai diversi, soprattutto ambienti non ebraici, ellenistici, romani e bizantini. Morselli e Maestri si esercitano a riportare documenti antichissimi del cristianesimo all’ambiente culturale nel quale sono sorti ed al quale si rivolgevano. Hanno fatto questo, finora, per la Didachè e per la Lettera di Giacomo. Stanno lavorando alla Lettera agli Ebrei, un documento indubbiamente più impegnativo sul quale, però, ha già lavorato, con un intento simile, lo studioso svedese Jesper Svartvik. Scrivono i due studiosi:
“I primi discepoli di Yeshua, che i testi canonici della Chiesa definiscono ‘cristiani’ erano ebrei messianici che molto si sarebbero stupiti se avessero potuto conoscere quali cambiamenti si sarebbero prodotti nel corso di pochi decenni in seno a quella Comunità a cui appartenevano e che ben presto li avrebbe emarginati e ripudiati”.
Sembra proprio che questa storia sia stata deformata leggendola secondo teorie preconcette o anche concezioni dogmatiche che si sono sviluppate in seguito. Bisogna ripartire dai fatti, che naturalmente  precedono ogni riflessione. La nostra storia di cristiani è quella che è stata e così la storia degli ebrei. E’ necessario oggi, per il compito che si ha davanti, ripercorrere i processi storici, allo scopo di disinnescarne i fattori di incomprensioni e conflitti e aprire la strada del dialogo, del reciproco interesse e  della reciproca cura, gli uni per gli altri. Nel corso di pochi decenni si passò dalla concezione del rapporto degli ebrei messianici con la radice di Israele espressa nella Didachè  e nella Lettera di Giacomo a quella espressa nella Lettera di Barnaba. Nel corso di qualche secolo, poi, esauritasi per le vicende che vedremo la ecclesia ex circumcisione, la Chiesa oramai composta di soli gentili svilupperà la ben nota teologia della sostituzione, ma svilupperà anche una teologia conseguente all’inculturazione della fede nelle categorie proprie dell’ellenismo, una vera ontoteologia, che risulterà diversa e lontana per coloro che erano voluti rimanere fedeli al linguaggio e alle tradizioni bibliche, limitandosi a commentarle.
La Lettera di Barnaba contiene già una vera e propria teologia della revoca dell’Alleanza e un certo insegnamento del disprezzo, ma possiamo osservare che essa parte dal rilevare che gli ebrei non passati alla fede cristiana intendevano delegittimare i cristiani nel loro richiamarsi alle scritture ebraiche, dicendo: l’alleanza è nostra. E’ come se avessero detto: è nostra proprietà, voi siete degli intrusi. L’autore della Lettera di Barnaba è molto preoccupato della fede di coloro ai quali scrive, conosce molto bene l’Antico Testamento che cita moltissimo, ma lo fa dandone un’interpretazione funzionale alla finalità di incoraggiare i cristiani nella loro fede. Non c’è più posto per la coesistenza. Ben presto si svilupperanno teorie gnostiche che, con Marcione, arriveranno alla demonizzazione dell’Antico Testamento. C’è da meravigliarsi ed anche certamente da rallegrarsi che l’ortodossia cristiana non abbia mai accolto l’invito a sradicarsi totalmente dalla storia ebraica e dalle sue Scritture, anzi abbia continuato a cercare e trovare in esse l’ispirazione fondamentale per la propria teologia e spiritualità.
I due commentatori mettono in rilievo alcuni elementi fondamentali per comprendere la condizione degli  ebrei messianici della primitiva chiesa di Gerusalemme. Essi sono:
  1. la fortissima tensione escatologica che caratterizzava le comunità cristiane primitive, attesa condivisa anche da Paolo e dalle sue comunità, attesa che comportava anche problemi pastorali. L’attenzione delle comunità non era tanto volta al messia venuto quanto al messia venturo. Gli ebrei messianici cristiani erano tesi verso il ritorno del messia-Gesù morto e risorto, mentre tutta la società ebraica era suggestionata da attese apocalittiche.
  2. La grande autorevolezza di cui godeva “Giacomo, fratello dell’Adon-Signore” tanto nella comunità ebraico-messianica, quanto, al di fuori di essa, tra i giudei di Gerusalemme. Non c’è motivo, infatti, di dubitare di quanto racconta Giuseppe Flavio, contemporaneo di Giacomo e protagonista in prima persona della guerra giudaica, intorno al martirio di Giacomo nell’anno 62 d. C. Il sommo sacerdote Anano fece condannare Giacomo alla lapidazione. “Ma le persone più equanimi della città, considerate le più strette osservanti della Legge, si sentirono offese da questo fatto”. Ci furono ricorsi al procuratore Albino e al re Agrippa, il quale depose Anano. Molti ritengono che a protestare contro il sadduceo Anano fossero i farisei.
  3. La discreta integrazione degli ebrei messianici all’interno della società giudaica dell’epoca, che era assai più variegata e tollerante di quello che sarà dopo la distruzione del secondo tempio.
  4. L’enorme devastazione prodotta dalle due guerre giudaiche del 66-70 e del 132-153, che produssero una vera Shoah, riducendo l’ebraismo a un decimo di quello che era precedentemente. Questa situazione può far comprendere il rigore con cui si procedé nella ricerca di una sopravvivenza e di una più rigida identificazione dell’ebraismo. Questa si sviluppò nella corrente talmudica e rabbinica: come affermava Lévinas senza il Talmud non ci sarebbero stati più ebrei, ma è anche vero che non poté più esserci la tolleranza precedente.
  5. La notevole integrazione fra ecclesia ex circumcisione ed ecclesia ex gentibus che esisteva precedentemente: gli ebrei messianici continuavano a frequentare il tempio, a circoncidersi e ad osservare le mitzvot, ma non pretendevano che questo fosse fatto anche dai fratelli provenienti dalla gentilità. D’altra parte i fratelli gentili raccoglievano e inviavano elemosine che erano ben accette alle chiese della Palestina.

  1. Dal mondo come è al mondo che viene
La proiezione all’indietro degli sviluppi posteriori della fede cristiana fa pensare alla tensione escatologica della Comunità gerosolimitana come attesa di una prossima fine del mondo. Invece ciò che la Comunità degli ebrei messianici anzitutto aspettava era il passaggio da questo mondo – Olam ha-zeh – al mondo che viene – Olam ha-ba -, pieno della conoscenza del Dio vivente (cf Ger 31, 11). Ciò che accade nella storia reale determina la trasformazione delle Weltanschauung teologiche assai più di quanto queste influiscano sui fatti. Alla  fine dei sacrifici del tempio di Gerusalemme, gli Israeliti sopravvissuti e desiderosi di mantenere viva la fede nel Dio che ha scelto Israele reagiscono con la creazione del Talmud, con la halakah, col sospetto verso il messianismo. Anche tra i cristiani, il mancato ritorno del messia durante la prima generazione cristiana porta a sviluppare una diversa visione del mondo e della sua consumazione. Già nella prima Lettera di Pietro si ricorre ad un salmo per dire che davanti a Dio un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno: quindi, anche se sembra che il Signore ritardi a venire, di fatto non ritarda (cf 1Pt, 3, 8). Questa nuova teologia porta a leggere certe frasi del Nuovo Testamento in un senso diverso da come venivano lette dai destinatari di quegli scritti. Ad esempio l’espressione passa la scena (o la figura) di questo mondo (1Cor, 7, 31)  significava per loro che sta per venire un mondo diverso da questo, che cioè stiamo per passare dall’ olam-ha-zeh all’ olam-ha-bah. Noi la leggiamo spontaneamente nel senso della fragilità umana: passa la scena di questo mondo in quanto da un momento all’altro possiamo morire e questo stesso mondo è destinato a finire per dar luogo alla vita eterna dopo la morte.
  1. Cultura ebraico-biblica e cultura greca
La Weltanschauung greca è tendenzialmente statica. Può essere ben rappresentata con l’idea del mondo eterno e sempre uguale a se stesso di Aristotele o con la teoria dell’eterno ritorno del nostalgico Nietzsche. La Weltanschauung ebraico-biblica è tendenzialmente dinamica. Il messianismo, l’attesa di una nuova creazione, dei cieli nuovi e della terra nuova pervade tutta quella cultura. E’ una cultura dell’attesa e della speranza. Di conseguenza il profetismo tende alla trasformazione della società, così come le religioni antropologiche tendono essenzialmente alla stabilizzazione degli equilibri sociali esistenti mediante la loro sacralizzazione.
Non dimentichiamo mai, peraltro, che noi tutti, ebrei o cristiani che accettiamo di far discorsi accademici sulla fede e la storia della salvezza, utilizziamo categorie e procedimenti logici di tipo greco e occidentale, non ebraico o orientale, e che dal movimento e dal confronto delle idee è sempre facile scadere nelle ideologie. Soltanto la disponibilità al dialogo ci salva da questo pericolo. Lévinas riconosceva di adoperarsi per esprimere i contenuti della Bibbia ebraica in categorie greche. La disponibilità a che ebrei e cristiani si confrontino su testi dell’Antico e del Nuovo Testamento ben conosciuti da entrambi, come attesta ad esempio il volume Christ Jesus and the Jewis People Today già citato, è da considerarsi una grazia di Dio per il nostro tempo. 
Non fa meraviglia, quindi, che la cultura ebraica, della quale stiamo trattando, sia stata in perenne movimento, né che si siano verificati  sviluppi diversi di uno stesso evento, quale può essere stato la vita di Cristo, la sua morte voluta e la sua risurrezione proclamata nella predicazione. Questo non significa relativismo. Infatti, di fronte ad alcuni di quegli sviluppi i responsabili delle comunità cristiane reagiscono rifiutandoli come pericolose deviazioni. L’esempio più evidente, forse, è l’orgoglio dei nuovi cristiani provenienti dal paganesimo di fronte al popolo dell’Alleanza, contro cui reagisce duramente proprio l’Apostolo dei gentili nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani. Questa reazione, purtroppo, fu poco ascoltata.
Un vero gioiello di cultura ebraico-biblica sono  i vangeli dell’infanzia di Luca e di Matteo. Tutta la terminologia ivi usata è tipicamente ebraica, così come i concetti e le proposizioni.  Scelgo alcune di tali espressioni: a Gesù Dio darà il trono di Davide suo padre per regnare per sempre sulla casa di Giacobbe (Lc 1, 32-33); Iddio soccorre Israele suo servo ricordandosi della sua misericordia (Lc 1, 54); Il Dio di Israele visita e redime il suo popolo (Lc 1, 68); concede misericordia ai nostri padri (Lc 1, 72). Gesù salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1, 21) ed  è chiamato fin dall’inizio “re dei giudei” (Mt 2, 2), viene per pascere il popolo di Dio Israele (Mt 2, 6). Otto giorni dopo la sua nascita Gesù fu regolarmente circonciso come ogni altro israelita e quaranta giorni dopo fu portato al tempio per la purificazione secondo la legge di Mosè. Ivi il santo vecchio Simeone apre una prospettiva universale (del resto presente, come è ormai pacifico,  in tutta la bibbia ebraica) dicendo che Gesù è salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli, non senza però rilevare che mentre per i popoli è salvezza, per Israele è gloria (Lc 1, 32). Questa affermazione fa pensare alla celebre teoria di Rosenzweig secondo la quale Israele non ha bisogno di venire al Padre perché è già presso il Padre, teoria che è certamente in contrasto con altre affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù è salvezza per tutti, ebrei prima e poi gentili. 
Resta da spiegare come siano arrivati a essere inseriti nei vangeli questi testi così tipicamente ebraici, addirittura poetici, oltretutto perché Luca, secondo una verosimile tradizione, non era nemmeno ebreo. La spiegazione tradizionale offre certamente minori difficoltà delle varie teorie storico-critiche. Il greco Luca, infatti, si presenta come un uomo colto, di mentalità greca, che ha fatto ricerche accurate presso i testimoni (cf Lc 1, 1-4). Di una di loro, Maria, Luca rileva che conservava nel cuore la memoria di quanto accadeva, meditandovi sopra (cf Lc 2, 19; 2, 51). L’ebrea Maria, o altri testimoni, avrebbero riferito pari pari eventi e cantici, così come erano accaduti ed erano stati pronunciati, senza quelle interferenze antigiudaiche  che si notano nei vangeli e, ancor più, senza aggiunte provenienti da teologie sviluppatesi sul semplice kerigma primitivo. 
4. La varietà dei punti di vista sulla fede e i loro sviluppi  
B. D. Ehrman parla di vari cristianesimi primitivi. L’espressione può fare un’impressione negativa o scandalizzare. L’importante è comprendere quella realtà. C’erano vari modi di percepire e vivere il Cristianesimo come c’erano vari modi di percepire e vivere l’ebraismo. D’altra parte nel mondo ebraico in genere non c’era quella preoccupazione per l’ortodossia che caratterizzerà la Chiesa nel mondo greco, portando a lotte interne, ad aggressioni e reciproche persecuzioni. Si suole dire che nell’ebraismo non ci si occupa tanto di conoscere come è Dio, ma di sapere ciò che Lui vuole da noi. All’ebreo della Bibbia interessa più l’ortoprassi che l’ortodossia. L’espressione biblica faremo ed ascolteremo può far capire la differenza fra la mentalità ebraico-biblica  e quella occidentale, tendenzialmente scientifica, dove prima si comprende e si programma e poi si agisce. Ma nel cristianesimo primitivo ed anche nel cammino mistico dei santi avviene proprio così: prima si è spinti ad operare, poi si riflette e si esplicita ciò che si era intuito nell’agire. 
I manuali di teologia ci avevano insegnato a proiettare indietro la dogmatica affermatasi successivamente nella vita della Chiesa, cercando appoggi e prove nei testi primitivi e portandoci così a leggere quei testi alla luce degli sviluppi posteriori. Ma non c’è niente di strano nel pensare che ciò che oggi si recepisce della Rivelazione cristiana (che non è affatto tutto quello che si comprenderà in futuro) sia stato compreso progressivamente. E non c’è niente di strano nel pensare che ci siano stati adattamenti alle culture che oggi possono aver perso la loro utilità. Stando ai testi del Nuovo Testamento, all’inizio si comprese (non senza fatica) il kerigma della risurrezione. Gesù di Nazareth, che era stato crocifisso, è vivo ed effonde lo Spirito Santo con i suoi carismi. E’ passato per prove e tormenti per arrivare alla sua gloria. Non c’è niente di dirompente in questo annuncio: il passare per la prova è un  chiaro insegnamento delle Scritture ebraiche. C’è certamente di nuovo l’annuncio di un fatto: la risurrezione di Gesù. Poi Paolo, l’autore della Lettera agli ebrei e Giovanni riflettono e sviluppano ciascuno per proprio conto, ma non senza reciproche influenze, una profonda teologia di questi eventi. Sarà una teologia sempre confrontata con la vita pratica delle comunità delle quali si occupano, una teologia che non si sviluppa, quindi, a tavolino o sulle cattedre universitarie, ma nella pastorale.  
La frettolosa unificazione delle teologie di Paolo, della Lettera Ebrei e di Giovanni dentro l’unica categoria della riflessione teologica opposta alla categoria delle narrazioni che sarebbe propria dei Sinottici o dell’etica propria di Giacomo e così via,   non fa giustizia alla storia. Si suppone che Gesù fosse anzitutto il Verbo preesistente e poi incarnato, diventato uomo nella pienezza dei tempi, Uomo-Dio che sa tutto, anche ‘i nostri pensieri’. Stridono con questa concezione vari passi del Nuovo Testamento, quali ad esempio: Rom 1, 4, secondo cui Gesù fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti”; Eb 5, 8, secondo cui “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”; Lc 2, 52, secondo cui il fanciullo Gesù, sottomesso ai suoi genitori, “cresceva in sapienza età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini”.
Giacomo e la Chiesa di Gerusalemme continuarono a fare quello che aveva fatto Gesù, che si riconosceva mandato alle pecore perdute della casa di Israele e rifiutava almeno in linea di principio di occuparsi del gentili (cf Mt 15, 24). Il ricondurre Israele alla Torah, l’accogliere la Torah nel cuore, il circoncidere il cuore era un compito assai impegnativo e avrebbe sviluppato una forza di vita capace di trasformare l’intera umanità. Shaùl-Paolo sentì di andare ai gentili, sentì che questo era un grande mistero implicito in tante espressioni della Bibbia ebraica ma solo allora attuato e svelato (cf Ef 3, 1-13). Poi rifletté e solo lui, fra tutti, percepì un pericolo collegato a questa sua missione: il pericolo dell’orgoglioso sradicamento dei gentili dalla radice ebraica. 
Non c’è motivo di riprovare la posizione di Giacomo o quella di Paolo. La loro coesistenza però poteva produrre dei conflitti. Questi vennero contenuti finché non accadde quell’evento terribile che i curatori dei nostri testi descrivono come una vera e propria Shoah, la distruzione del tempio di Gerusalemme, la dispersione del popolo ebraico e la strategia usata dai superstiti per conservarne l’identità di fede e di azione mediante la halakah, probabilmente l’unica strategia in grado di impedire la totale assimilazione dell’ebraismo nelle culture mondanamente vincenti.
E’ molto verosimile che Gesù abbia detto frasi come quelle contenute nei vangeli: vi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare (cf Mt 21, 43). Ma non è detto che l’interpretazione corretta di questo e di altri brani simili sia quella data dalla teologia della sostituzione. Anche i profeti di Israele, ammonendo, avevano detto cose terribili contro il popolo a cui appartenevano. A questo proposito fa impressione leggere i primi capitoli di Ezechiele: ti mando a un popolo di ribelli, testardi dal cuore indurito, genia di ribelli… (cf Ez 2). Alcuni  antisemiti che si dicevano cristiani trovavano in essi più che nel Nuovo Testamento argomenti per disprezzare il popolo ebraico. Checché i critici pensino della divinità di Gesù Cristo, si deduce dai vangeli che lui aveva una percezione chiara delle forze che operavano nell’ambiente ebraico in cui viveva: sapete leggere i segni del tempo atmosferico, possibile che non capite questo tempo? (cf Mt 16, 1-4); “Non piangete su di me, ma piangete su di voi e sui vostri figli (Lc 23, 28). Quando, però, lui faceva quelle ammonizioni e proferiva quelle minacce, lo faceva soffrendo, come dimostra il suo amaro pianto sulla città di Gerusalemme (cf Lc 19, 41 e anche 23, 28). Nulla in lui della rivalsa sopra i suoi avversari che caratterizzerà l’atteggiamento di tanti cristiani verso gli ebrei e che Shaùl-Paolo, in sintonia col Maestro, percepisce come un enorme pericolo in Rom 9-11.
5.Che cosa significa parlare di Antica e Nuova Alleanza se la primitiva Alleanza non è stata mai revocata?
Il testo fondamentale che parla di una nuova alleanza è Ger 31, 31-33:
“Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda  concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia Torah nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”.
Non c’è traccia qui della riprovazione di Israele come popolo e della sua sostituzione con altri popoli. Anzi c’è l’affermazione che Israele sarà confermato per l’eternità, superando tutte le sue resistenze. E’ vero che c’è una variazione nella traduzione di questo passo riportata dalla Lettera agli Ebrei, presa, sembra, dalla traduzione dei LXX, che direbbe “poiché essi non sono stati fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro”. Anche così, però, resta vero che Dio stipula la nuova alleanza col suo popolo e che questo sarà per sempre tale. 
La promessa della Nuova Alleanza inscindibile e della Torah nel cuore è la più grande promessa mai fatta da Dio all’uomo. Israele si caratterizza per il rapporto fra il Dio vivente e il popolo che sceglie per dargli vita, si caratterizza per una relazione viva fra Dio e il popolo, ma si caratterizza anche per una proiezione verso il futuro che è speranza e messianismo, attesa del Dio che viene, l’Emanuele. La promessa di una liberazione dall’oppressione di popoli stranieri, la promessa della Terra, la promessa di una felicità comprensibile per un popolo oppresso ed affamato, si amplia con i profeti nella promessa di un’intimità fra Dio e il suo popolo. L’insegnamento paolino sull’alleanza mai revocata poggia su questa manifestazione di Dio tramite i profeti: l’iniziativa di salvezza dell’Onnipotente non può essere vanificata dalla resistenza dei cuori duri. Dio è più potente dei cuori duri, il Creatore vince gli spiriti della morte. Questo non implica l’abolizione della libertà dell’uomo, perché la Torah viene infusa nell’interiorità, nel cuore, cioè nella parte più intima e propria della coscienza intelligente e libera. Facendo un grande salto, possiamo collegare questa profezia al modo con cui il teologo cattolico Balthasar interpreta l’affermazione neotestamentaria: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla coscienza della verità (1Tim, 2, 4) e tante altre affermazioni analoghe, col pensiero che, mediante il desiderio e la preghiera di tutti, l’inferno possa essere svuotato. La forza della Vita proveniente da Dio vincerà così i poteri di morte scatenati dalle deviazioni della libertà.
Si tratta di credere che il Dio Vivente c’è – quaggiù sulla terra, cioè nella storia dell’uomo - e non soltanto è lassù nel cielo, lontano dalla vita, come pensavano i deisti. Si tratta di attuare il comando primo: ama il Dio Vivente. L’uomo ama Dio quando lo disseppellisce dal suo nascondimento, lo ingrandisce, per usare un termine veterotestamentario che entra nel cantico di Maria, forse un po’ velato nella liturgia dal conservarne l’etimo latino: Magnifica. Dio fa crescere l’uomo nella misura in cui questi ingrandisce Dio. C’è una reciprocità dinamica fra il Dio vivente e l’Israele (l’uomo) vivente.
Paolo vede un mistero in Israele che opera persino attraverso il velo e il rifiuto. La sua esclamazione sulla profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio riguarda proprio il mistero di Israele  col quale l’alleanza non viene mai revocata (cf Rom 11, 33). Come per Isaia, anche per lui il Regnare di Dio va ben al di là delle nostre vedute miopi (cf Is 55, 8-9; 40, 13-28).  Per vari anni, tenendo presente soprattutto l’ebraismo strettamente rabbinico, ho pensato l’Alleanza mai revocata alla maniera di Rosenzweig. Questo uomo di Dio, vero profeta nel senso che annunciava la verità di Dio e anticipava il futuro, ha mostrato nei suoi scritti come ebrei e cristiani possono vivere e operare concordemente per il Regno di Dio sulla terra. Scriveva all’amico Ehrenberg, commentando il passo di Gv 14, 6: “Nessuno viene al Padre – è però diverso se uno non ha più bisogno di venire al Padre, perché è già presso di lui. E questo è il caso del popolo d’Israele”. Sulla base di questa intuizione,  Rosenzweig svilupperà la sua teologia della coesistenza fra ebraismo e cristianesimo e della reciproca implicazione che esporrà specialmente ne La Stella della Redenzione. Senza dover riprodurre necessariamente il sistema di pensiero di Rosenzweig, il suo Neues Denken, pensavo che esso rappresentasse un ottimo tentativo di proporre una visione teologica nella quale ebrei e cristiani trovino un loro posto importante e onorevole. 
Poi un giorno lessi una frase, che è addirittura il titolo di una sezione di un’opera di David H. Stern, che mi fece l’effetto di un pugno nello stomaco: Rifiutare o trascurare di portare il vangelo agli Ebrei è antisemita. Approfondendo lo studio dell’ebraismo attuale rimasi impressionato dal numero di ebrei messianici che ci sono anche oggi. Ho pensato allora che l’ebraismo è una realtà assai più complessa di quella che viene presentata dal rabbinato e che essa va tenuta presente tutta. E’, inoltre, una realtà misteriosa, dove tutto parte dall’iniziativa di Dio e ad essa ritorna.
6.La battaglia per la Torah
Nella profezia di Geremia, come abbiamo visto, non c’è traccia dell’opposizione fra un popolo e un altro popolo, di una delimitazione che potremmo chiamare verticale. C’è, invece, la separazione fra chi viene preso dal Dio vivente e riceve l’ ‘infusione della Torah nel cuore’ e chi non la riceve, una delimitazione orizzontale, che può verificarsi dovunque. C’è la passione per la Torah, che caratterizza il profetismo di Israele, la battaglia per la Torah. Dentro questa battaglia per la Torah operano chiaramente la Didaché – traduzione esatta, come fanno osservare i due commentatori, del termine Torah, ben più di quanto lo sia la parola Nomos, preferita dai LXX – e la Lettera di Giacomo. 
I profeti lottano contro l’indifferenza verso Dio e la sua giustizia, l’idolatria che continuamente tenta Israele, ma anche l’ipocrisia per cui si crede di soddisfare la Divinità con le pratiche cultuali, trascurando la giustizia verso i fratelli più deboli, l’amore. In questo linea Gesù lotta contro le ipocrisie, smascherandole. Non è la battaglia a favore di un gruppo di credenti contro un altro, dove i gruppi sarebbero definiti con criteri cultuali, dottrinali o addirittura etnici, ma una battaglia a favore del Regno di Dio e del suo insegnamento. Possiamo oggi sperimentare, di fatto, che molte volte ci si ritrova con persone lontane dal proprio gruppo di appartenenza a lottare per la giustizia e la verità e si converge su persuasioni condivise, alle quali non sono sensibili, invece, altri membri del proprio gruppo di appartenenza.
La battaglia per la Torah è la battaglia dei senza-potere contro i potenti della terra. I profeti del Dio vivente lottano con la sola arma della parola contro re, sacerdoti e falsi profeti. Prima di essere teologia della Croce, la forza della debolezza è teologia dei profeti di Israele, teologia della Torah. Le potenze della terra si appoggiano sugli idoli delle genti, sono idolatriche. La fede poggia su Dio, sulla sua Paola, sulla sua promessa.
I due documenti finora pubblicati da Cassuto Morselli e Maestri – La Didachè e la Lettera di Giacomo - sono due testimonianze straordinarie della battaglia per la Torah. Dall’inizio alla fine lottano per la giustizia davanti a Dio, per la via della vita che si oppone alla via della morte, per una rettitudine del cuore – la Torah nel cuore – che si tiene lontana da qualsiasi forma di ipocrisia. Non si contentano delle apparenze. Vogliono veramente sradicare dai singoli e dalle comunità ogni astuzia demoniaca, ogni violenza, ogni approfittamento della propria superiorità. Nel nome dell’Adon obbediente fino alla morte si propone ascolto, obbedienza ed anche autentica gioia.
Nel senso qui indicato, Paolo, più che essere, come viene descritto, un apostolo che ha sciolto i cristiani dalla Torah, è un apostolo che – d’accordo con Pietro e Giacomo, le colonne -, ha introdotto i gentili nella Torah, senza farne, per questo, degli ebrei. Ha offerto il dono supremo della Torah, che ha strutturato la stessa vita e morte di Gesù, a coloro che non la conoscevano e non potevano goderne. Oggi la Torah è là dove regna il Dio vivente, il Dio d’Israele, dove Dio non è dimenticato, ma disseppellito, come diceva Etty Hillesum, e dove di conseguenza regna l’amore, la giustizia, l’accoglienza, la cura dell’orfano, della vedova, dello straniero. Gesù è Colui che si è reso conto che per la battaglia per la Torah non bastava insegnare, ma bisognava sacrificarsi, cioè inverare tutti i sacrifici del tempio, l’alleanza nel sangue, attraverso la propria immolazione, come l’Israele santo è sempre chiamato a fare. 
Questa partecipazione della Torah ai gentili diventa evidente se si riflette a come si sono dileguate di fronte all’annuncio ebraico-cristiano le religioni del Mediterraneo e del Nord Europa. Esse hanno perso stima in una maniera tale che a nulla sono valse le nostalgie di uomini come Rutilio Namanziano o i tentativi di rivitalizzazione di uomini come Giuliano l’Apostata. Per comprendere la portata di questa vittoria, però, bisogna decostruirla,  riprendendo coscienza di ciò che significava quella religione per la cultura e la società del tempo. La religione politeista e idolatrica era il fondamento di quella cultura e di quella società. Non era del tutto stupido considerare ebrei e cristiani empi in quanto proponevano di abbattere quella pietas verso gli dèi che era il fondamento dell’etica sociale. I miti culturali sono miti fondanti. Con la vittoria del cristianesimo, di fatto, la fondazione mitologica pagana è stata sostituita da una fondazione mitologica proveniente dalla cultura  ebraica. Figure come quelle di Adamo ed Eva, Caino e Abele, Noè e i suoi figli, Abramo, Isacco, Giacobbe, i profeti e certamente Gesù, Maria, gli apostoli, i martiri, hanno sostituito le mitologie pagane privandole del loro ruolo di fondazione della coesione sociale.
Certamente gli ebrei rabbinici possono trovare dei difetti in questa accoglienza della Torah da parte delle genti. Ma loro stessi dovranno riconoscere che la tesi fondamentale della Torah viene accolta: il rifiuto delle idolatrie, intese anche in senso profondo, oltre il semplice rifiuto delle immagini, l’adorazione del Dio unico che non è, come spesso si dice, la semplice sostituzione del politeismo col monoteismo (questi  termini appartengono ancora all’ambito della ontoteologia), ma l’accoglienza del Dio vivente e, più esattamente ancora, del Dio di Israele, quel Dio al quale il rabbino Emil Fackenheim fa dire rivolto a Israele: “se voi non siete il mio popolo,  io, per così dire, in quanto possibile, non sono più Dio”.
La passione per il Regno di Dio e la Torah è espressa da Gesù di Nazareth nella prima parte della sua preghiera del Padre nostro: la santificazione del Nome, il Regno di Dio, la volontà del Padre, questo era tutto nella mente e nella vita di Gesù di Nazareth e questo desiderava che fosse nei suoi discepoli, tutti. Per questo sacrificava se stesso, totalmente perduto nel Dio vivente, Padre di Israele, Padre suo che per mezzo di Lui sarebbe diventato Padre per tutti gli uomini.
7.Il senso della parola conversione
Morselli e Maestri, perciò, come molti altri, trovano inadatta la parola conversione per parlare della trasformazione che fece di Shaul un credente nel messia Gesù. Paolo non ha lasciato niente della sua fede nel Dio vivente di Israele. Non ha diminuito, ma aumentato la sua devozione e dedizione. Diversi altri ebrei, tra i quali Edith Stein e il cardinal Lustiger hanno affermato che la fede nel messia Gesù non implicava l’abbandono della propria fede ebraica. Purtroppo, con la teologia della sostituzione si arrivava a pensare la fede ebraica come empietà e si esigevano atti di ripudio, a volte anche banali e veramente offensivi. Veniva a mancare anche il rispetto della buona coscienza che tuttavia poi, nella Morale, si definiva l’ultimo giudizio pratico per l’azione da compiere. Ricordo qui il grande insegnamento dato da Newman sulla coscienza. Se si riflettesse sul valore che ha la coscienza come la più autentica partecipazione a ciò che Dio stesso è, non sarebbe difficile la pace fra le religioni, che è condizione della pace fra i popoli. La mancanza del rispetto della coscienza manifesta un’ignoranza non sempre innocente perché frutto della pigrizia mentale che rifiuta lo studio ed è certamente una contro-testimonianza, che allontana tante persone dal culto a Dio e dalle pratiche della propria religione.
Newman è anche un testimone della difficoltà di quella che era chiamata conversione, termine che anche nel suo caso sarebbe stato meglio non usare, trattandosi del passaggio da una chiesa cristiana ad un’altra. La esprime particolarmente nel romanzo autobiografico Loss and Gain. Ogni religione o appartenenza è anzitutto fedeltà alla paternità, esercizio di figliolanza, la passività della quale parlava Lévinas, che fonda l’efficacia di ogni attività. Shaùl-Paolo non rinnegò affatto la paternità della Rivelazione ebraico-biblica.
8.L’albero porta in se stesso e restituisce  il seme da cui è nato
L’universalismo  cristiano sradicato dalla dottrina e dall’esperienza dell’elezione di Israele e professato come una dottrina teoretica, insieme con l’inculturazione della Rivelazione ebraica nell’Ellenismo, hanno condotto al vicolo cieco della cultura illuminista e deista, che pervade tutto l’Occidente e influisce su tutti noi, non escluso lo scrivente. E’ necessario riscoprire le radici ebraiche della fede, riflettendo sopra una storia nella quale si esprime, non senza immani sacrifici, l’Alleanza mai revocata né revocabile.
C’è un Israele santo all’interno della cristianità, l’Israele di Dio di cui parla Paolo (Gal 6, 16), che non permette che il cristianesimo si riduca a gnosticismo (Buber) o anche a istituzione  e dottrina. E’ l’Israele spesso non compreso non soltanto all’esterno ma a volte anche all’interno della Chiesa, spesso perseguitato. La cristianità istituzionalizzata e dottrinalmente definita, beneficia di questo Israele santo ed è per questo che la sua vitalità sempre si rinnova, non si esaurisce, non diventa vecchia così che stia per morire. E’ l’Israele che non prega per sé, non desidera qualcosa per sé (Leibovitz), ma prega per Dio, come nella prima parte del Padre nostro, desidera per Dio e basta. L’Israele della fede, del rapporto mistico con Dio e del sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech, senza padre né madre, senza interessi da custodire.
Sarà ancora Rosenzweig a esprimere bene il contenuto di questo pensiero, avendo la precauzione di liberarlo dalle rigidità legate all’epoca dei nazionalismi esacerbati ed anche alla polemica tra lui e l’ebreo convertito Rosenstock:
“Così il cristianesimo come potenza che riempie il mondo (secondo le parole di uno dei due esponenti della Scolastica, Yehudah ha-Levy: l’albero che cresce dal seme dell’ebraismo e fa ombra su tutta la terra, ma il suo frutto conterrà di nuovo il seme di cui nessuno però, vedendo l’albero, seppe accorgersi) è un dogma ebraico tanto quanto l’ebraismo come ostinata origine ed ultimo dei convertiti, è un dogma cristiano”.
9.Conclusione: una liturgia adeguata alla concezione dell’Alleanza mai revocata
Si lamenta a volte che nella liturgia ci siano ancora vestigia della teologia della sostituzione. Sarà bene toglierle quando è possibile. Ma perché non pensare a inserire testi che esprimano in positivo la concezione dell’Alleanza mai revocata, che sfaterebbero automaticamente le paure? Se, ad esempio, si prega per la Chiesa sacramento di salvezza per l’umanità, non si potrebbe fare qualcosa di simile per Israele? L’abolizione della festa della Circoncisione, celebrata dalla più remota antichità,  a parte il fatto che non è stata gradita, ovviamente, dai fratelli ebrei, non sembra di valore positivo neanche per noi cristiani. L’approfondimento del significato del berit-milah per l’Alleanza stipulata da Dio con  Abramo, radice di ogni altra Rivelazione ed Alleanza, rompe veramente la tirannia del piatto egualitarismo illuminista. Da parte ebraica, auspicava qualcosa del genere, cioè la reciprocità dell’autentica preghiera che sale al Dio vivente, quell’altro uomo di Dio che fu Abraham Joshua Heschel, scrivendo: “Nessuna religione è un’isola. Siamo coinvolti l’uno con l’altro. Il tradimento da parte di uno di noi si ripercuote sulla fede di noi tutti. Non dovremmo  pregare ognuno per la salute dell’altro e aiutarci reciprocamente a preservare la rispettiva eredità, preservando un’eredità comune?”. 
In una concezione della fede per cui non ci si limita a rispettare l’altro, ma si vuole andare oltre, arrivando ad avere cura dell’altro in quanto altro, concezione che è al fondo di tutta la tradizione ebraico-cristiana, ci si preoccupa della fedeltà dell’altro alla propria vocazione come ci si preoccupa della nostra.
Quale è il posto della teologia della Croce – oggetto di ricerca di questa rivista - in questo discorso? C’è anzitutto il problema sollevato dalla stessa parola croce-Stauròs. Lévinas fa osservare, quasi con rammarico, che purtroppo il segno della Croce era legato ai peggiori fra i ricordi dell’ebreo. Lui stesso, però, parla - lì come altrove - dell’esperienza della carità cristiana durante la Shoah e della vicinanza fra il concetto cristiano della kenosi e la sensibilità ebraica. Chi sa leggere in profondità trova che l’immagine kenotica di Dio e la teologia della Croce sono presenti dappertutto nel discorso che ho fatto. Basta ricordare che la battaglia per la Torah è la battaglia dei senza-potere contro i potenti della terra. Ma l’insieme del discorso evidenzia che la Croce viene svuotata quando si sceglie la strada della contrapposizioni dei gruppi e dei poteri, radice di ogni specie di violenza. Alla base di tutto questo c’è la paura, la preoccupazione di sé, la paura della morte che è potere di Satana, l’oppressore. Noi crediamo che una morte ha distrutto da dentro questo potere della paura ed è questo il tema di tutta la Lettera agli Ebrei. I sacrifici del tempio non appartengono a uno stadio ormai superato della vita di Israele. Restano come Eucaristia, ma questo è un tema che spero di trattare quando Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri avranno concluso il loro studio sulla Lettera agli Ebrei. 
Ancora Lévinas scriveva di aver pensato che la vera Eucaristia sta nell’incontro con altri – gli ultimi - piuttosto che nel pane e nel vino (e cita Mt 25). Ma, anche qui, nel fondo, non c’è differenza, purché si tenga presente quanto insegna Benedetto XVI: che l’Eucaristia si riceve degnamente quando si diventa a nostra volta Eucaristia - pane che viene mangiato - per gli altri. Non c’è Eucaristia senza croce. L’Eucaristia non è fede in una trasformazione metafisica e quasi magica o in una presenza di Dio in certi oggetti corporei, ma è fede in un Dio che essendo, nel suo mistero profondo, agàpe cioè dono, si dà in cibo. Questo è il senso sociale dell’Eucaristia, non un corollario, ma un senso intrinseco. “L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti  nella dinamica della sua donazione”.
Concludo questo discorso tornando a come Cassuto Morseli e Maestri traducono – o ritraducono - l’intervento di Giacomo al cosiddetto Concilio di Gerusalemme, narrato dagli Atti degli Apostoli. Queste parole possono offrirci il senso primordiale, sorgivo e vitale, dell’espandersi della Torah verso i gentili:
“Fratelli, ascoltatemi. Shimon ha narrato come all’inizio D. ha avuto cura di scegliersi fra i goyim un popolo consacrato al suo Nome. Con ciò concordano le parole dei Neviim, come sta scritto: ‘Dopo di ciò ritornerò e ricostruirò la capanna di David che è caduta, ricostruirò le sue rovine e la rialzerò, affinché gli altri uomini cerchino Ha-Shem e tutti i goyim che portano (sui quali è stato invocato) il mio Nome’. Così dice Ha-Shem che fa queste cose conosciute dai tempi antichi” (At 15, 13-18).

giovedì 15 novembre 2012

30° AEC di Roma: Messaggio del Cardinal Koch

Messaggio di auguri del Cardinale Kurt Koch

in occasione dei 30 anni dell’Amicizia ebraico-cristiana di Roma

                                                            
Cardinale Kurt Koch

“Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme”, così leggiamo nel primo versetto del Salmo 133. Anche se nella stesura originaria del Salmo, per “fratelli” sono esclusivamente intesi gli appartenenti al popolo d’Israele, oggi, dopo che Papa Giovanni Paolo II ha chiamato gli ebrei i fratelli maggiori dei cristiani e Papa Benedetto XVI i nostri padri nella fede, si può parlare di una comunità di fratelli e di sorelle tra ebrei e cristiani. Siamo inscindibilmente legati gli uni agli altri per quanto riguarda i fondamenti essenziali della fede nel Dio d’Israele e siamo uniti da un ricco patrimonio spirituale comune, perché possiamo guardare ad un lungo passato comune. Il cristianesimo ha le sue radici nell’ebraismo; quest’ultimo costituisce il nucleo della sua identità. Gesù è e rimane un figlio del popolo d’Israele, è segnato da quella tradizione e, per questo, può essere esattamente compreso soltanto a partire da tale orizzonte culturale e religioso.

L’Amicizia ebraico-cristiana ha fatto propria questa visione spirituale e porta avanti il dialogo tra cristiani ed ebrei nella fratellanza e nell’amicizia. Sono grato che, a livello della concreta convivenza quotidiana, si siano formati gruppi che costruiscono ponti tra ebrei e cristiani nello spirito di Nostra aetate (n. 4). In ultima analisi si tratta di conoscerci più da vicino nelle nostre rispettive tradizioni religiose e di imparare ad apprezzarci vicendevolmente. Cristiani ed ebrei dovrebbero familiarizzarsi sempre di più gli uni con gli altri. Nel campo dell’educazione e della formazione, questo aspetto non dovrebbe mai essere tralasciato. Pregiudizi e malintesi nascono infatti quando l’altro rimane estraneo e inaccessibile.

Sono lieto, in particolare, che l’Amicizia ebraico-cristiana di Roma possa oggi festeggiare il trentesimo anniversario della sua fondazione. La comunità ebraica in questa città è più antica della nostra Chiesa. Possiamo guardare ad una convivenza tra ebrei e cristiani di quasi duemila anni, che sicuramente non è stata priva di tensioni, ma che in vari momenti è stata anche segnata da una proficua collaborazione. E proprio qui a Roma, dove le radici della comunità ebraica risalgono già al tempo dei Maccabei e dove gli inizi della nostra Chiesa si riallacciano agli Apostoli Pietro e Paolo, l’amicizia e la collaborazione tra ebrei e cristiani sono particolarmente importanti. Sono profondamente riconoscente per il prezioso contributo apportato dall’ Amicizia ebraico-cristiana di Roma in favore della promozione di una relazione sempre migliore tra ebrei e cristiani nella nostra città. E tengo ad esprimere all’Amicizia ebraico-cristiana, in questa lieta ricorrenza che oggi viene celebrata, i miei migliori auguri, invocando la benedizione del nostro Dio che sempre ci assicura la sua presenza e il suo aiuto.


Kurt Cardinale Koch

Presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede




Viaggio in Israele del Patriarca ortodosso di Mosca

Una visita di rilevanza storica

Il Patriarca Kirill  e  Shimon Peres

 

Dal 9 al 14 novembre ha avuto luogo la visita in Israele del Patriarca ortodosso di Mosca, Kirill. “A livello religioso, è la visita più importante che un capo di una Chiesa effettua in Israele, dopo la visita di Benedetto XVI nel 2009” - ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Ygal Palmor. In Israele vive un numero rilevante di cittadini  provenienti dall'ex Unione sovietica. 



 

Allo Yad Vashem sono state ricordate le vittime della Seconda Guerra Mondiale

 

Visitando il Museo della Memoria, il Patriarca Kirill ha invitato i popoli della Russia e di Israele a “ricordare la tragedia della Seconda guerra mondiale, pregare per le vittime della guerra e non dimenticare mai le lezioni della storia”. Il Patriarca ortodosso ha poi aggiunto: “Sono felice di sapere che qui vengono ricordati anche i nomi di quelli che si sacrificarono per salvare il popolo ebraico. Proprio in questo luogo vorrei ricordare i soldati dell’Armata Rossa che salvarono il mondo dalla peste nazista. Insieme ai sei milioni di ebrei vorrei ricordare anche 27 milioni di cittadini sovietici, tra cui anche degli ebrei, che a prezzo della loro vita difesero il mondo e l’Europa dal potere nazista”.


Il presidente di Israele, Shimon Peres, rivolgendosi al Patriarca ha detto che ricordando la Shoah gli israeliani ricordano con gratitudine anche il ruolo che la Russia ha svolto durante la Seconda guerra mondiale:“Insieme ai paesi alleati la Russia ha vinto la Seconda guerra mondiale, pagando il prezzo più alto: quasi 30 milioni di vite umane. E’ stata la Russia a sferrare il colpo decisivo alla Germania di Hitler, salvando il mondo dalla tragedia senza precedenti, e all’Armata Rossa noi porgiamo tutto il nostro rispetto”. 

 

 

Gerusalemme - Yad Vashem
Il Patriarca di Mosca Kirill e  il Patriarca ortodosso di Gerusalemme Teofilo III
rendono omaggio alle vittime della Seconda Guerra Mondiale







lunedì 12 novembre 2012

Il VANGELO EBRAICO

Le vere origini del cristianesimo

Daniel Boyarin

Nel luglio del 2008 il “New York Times” riferiva in prima pagina di uno sconvolgente ritrovamento: un’antica tavola, un grosso e pesante pezzo di pietra con 87 righe incise in ebraico. Risaliva a prima della nascita di Cristo e conteneva una profezia, l’annuncio di un Messia che sarebbe risorto tre giorni dopo la morte.

È solo uno dei tasselli con cui Daniel Boyarin, fra i più noti talmudisti viventi, ci spiega che la storia del Nazareno non rappresenta affatto, come da secoli si ritiene, un momento di rottura con il senso religioso ebraico. La percezione convenzionale di una netta divisione tra cristiani ed ebrei, diffusa tanto da una parte quanto dall’altra, non tiene conto di una natura comune profondamente e radicalmente unitaria. Gesù era un ebreo osservante, un ebreo che mangiava kosher. Si era presentato nel modo in cui molti ebrei si aspettavano che facesse il Messia: un essere divino incarnato in un uomo. All’epoca dei fatti, del resto, la questione non era: “Giungerà il Messia?”, ma solo “Questo falegname di Nazareth è Colui che aspettavamo?”. Alcuni credettero di sì, altri di no. E oggi noi chiamiamo il primo gruppo cristiani e il secondo ebrei, anche se, in principio le cose non stavano così. Con una sorprendente rilettura del Nuovo Testamento e l’aiuto delle più recenti scoperte e delle Antiche Scritture, Il Vangelo ebraico risale alle origini di una divisione millenaria che oggi, secondo Boyarin, dobbiamo avere il coraggio di capire e superare, andando oltre le convenzionali semplificazioni.

Hanno scritto:

  • “La visione di Boyarin è rivoluzionaria. Eppure, quelli che racconta sono solo fatti storici” The Washington Post
  •  “Quest’affascinante ricostruzione della storia di Gesù cambierà l’idea delle persone sulle origini del cristianesimo e sul suo complicato rapporto con l’ebraismo” Elliot Wolfson, professore di Lingua e Storia ebraica all’Università di New York

Chi è l'Autore:
  • DANIEL BOYARIN - Professore di Cultura talmudica e di Retorica all’Università della California, è riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori studiosi di Talmud e come grande divulgatore della cultura ebraica. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo A radical Jew (University of California Press, 1997), Border Lines (University of Pennsylvania Press, 2006), Socrates and the Fat Rabbis (University of Chicago Press, 2009) e, in Italia, Morire per Dio (Il Nuovo Melangolo, 2008). Vive a Berkeley, in California. 
Prefazione di:
  • JACK MILES - Professore di Letteratura inglese e di Studi Religiosi all’Università della California, è l’autore di Dio: una biografia (Garzanti, 1996) per il quale ha vinto il Premio Pulitzer. Collabora con il “New York Times”, il “Washington Post”, il “Los Angeles Times” e il “Boston Globe”. Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo anche Gesù: una crisi nella vita di Dio (Garzanti, 2003).

Jack Miles
"Non molto tempo fa, un importante rabbino conservatore mi ha confidato: «Daniel Boyarin è uno dei due o tre massimi luminari rabbinici al mondo». Poi, abbassando un po' la voce, ha aggiunto: «Forse addirittura il più grande». Questa osservazione mi è stata fatta in confidenza perché era evidente il turbamento del rabbino all'idea che qualcuno con le tesi di Boyarin potesse averle davvero fondate su base talmudica. Da cristiano, lasciatemi dire in tutta franchezza che queste idee possono turbare anche quei cristiani che hanno apprezzato l'originalità — altrettanto fondata — della sua lettura del Nuovo Testamento.
Le brillanti idee di Boyarin ci turbano poiché complicano i rapporti tra due identità reciprocamente stabilite, e ne sfumano i contorni. Il suo maggior merito è di aver assunto un fermo controllo concettuale su tale reciprocità e di averla illustrata in una coraggiosa rilettura tanto dei testi rabbinici quanto dei Vangeli, una rilettura i cui risultati sono così allarmanti che, una volta compreso dove va a parare, a noi — ebrei, o cristiani — non resta che interpretare anche i passaggi più familiari delle sacre scritture in una luce del tutto nuova.

Credo che il modo migliore per spiegare questo punto sia offrire un esempio piuttosto recente. Nel nostro vicinato c'è una famiglia con due gemelli, Benjamin e Joshua. Visto che sono eterozigoti, non hanno il medesimo aspetto e sono diversi anche da altri punti di vista. Ben è un atleta, un ambizioso senza scrupoli che guadagna a colpi di spintoni quel che non riesce a raggiungere con l'abilità. Josh invece è un cantautore in erba dagli occhioni romantici, il cui secondo amore, dopo la sua fidanzata, è la chitarra. La madre, che viene da una famiglia di atleti, ama dire di Ben: «È tutto maschio, quello lì». Il padre, che discende da una famiglia di musicisti e di romantici, predilige Josh.
Dal momento che sono gemelli e che condividono la stessa stanza da quando erano bambini, Ben e Josh si conoscono molto bene. Ben sa perfettamente che Josh lo può battere in un match di baseball uno contro uno. E Josh sa che Ben è in grado di eseguire una melodia in due parti con una dolce voce tenorile che nessun altro, a parte loro due, ha mai sentito. Ma ciò che sanno l'uno dell'altro ha finito per contare sempre meno nel corso del tempo, mentre la versione «percepita» delle loro identità ha preso il sopravvento nella cerchia estesa di amicizie e conoscenze. (...)

Daniel Boyarin vede l'ebraismo e il cristianesimo come Josh e Ben, anche se in ballo non ci sono lo sport e la musica. In ballo, piuttosto, c'è la questione — sempre cruciale ma forse non più di quanto lo fosse nel 70 d.C., dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme — di come gli ebrei dovrebbero relazionarsi col loro Dio e con la maggioranza gentile dell'umanità. Prima della distruzione del Tempio vi erano numerose scuole di pensiero in lizza su questo punto dirimente. E dopo la catastrofe, le uniche due a restare in piedi furono quella rabbinica e quella cristiana. Teologicamente parlando avevano le loro differenze, ma erano entrambe di stampo ebraico, così come Ben e Josh sono fratelli all'interno della medesima famiglia. Le differenze, come nell'esempio che ho portato, erano tutte all'interno della famiglia, e lì sono rimaste non solo per qualche decennio ma, come afferma Boyarin chiaro e tondo, per i primi secoli dell'era volgare.
Ci è voluto così tanto per far sì che un'escalation di polemiche reciproche finisse per sopravanzare un senso profondo di fratellanza e creare due identità reciprocamente stabilite laddove, in origine, ve n'era solo una, per quanto non sedimentata.

Ciò che Boyarin denigra è la semplificazione polemica di queste due identità, un involgarimento che ha spinto entrambe le fazioni a ripudiare, quasi fossero spinte da principi inestirpabili, pratiche e credenze che in origine ciascuna delle due avrebbe tranquillamente riconosciuto come proprie. È come se i pronipoti di Ben crescessero con questo dogma: «Noi non tocchiamo mai la chitarra, sono loro che suonano la chitarra, perché son fatti così». Mentre i discendenti di Josh, analogamente, dovessero giurare e spergiurare: «Noi non tocchiamo mai un pallone, sono loro che giocano a pallone, perché son fatti così».

Gesù mangiava kosher? Se sì, sarebbe stato così poco cristiano da parte sua? Nel terzo capitolo del libro che vi accingete a leggere, Boyarin scrive: «Molte (se non tutte) delle idee e delle pratiche del movimento cristiano del I secolo, dell'inizio del II secolo d.C. e anche dei periodi successivi possono essere interpretate con certezza come parte integrante delle idee e delle pratiche dell'ebraismo di quei tempi. Le idee della Trinità e dell'incarnazione, o almeno gli embrioni di tali idee, erano già presenti tra i seguaci del credo ebraico molto prima che Gesù arrivasse sulla scena per incarnare tali nozioni teologiche e rispondere alla chiamata messianica».

La Trinità... un'idea ebraica? L'incarnazione un'idea ebraica? Oh sì! E se pensieri come questi vi sembrano inconcepibili, posso solo insistere: continuate a leggere. Potrebbero sembrarvi tutt'altro che inconcepibili dopo aver letto l'analisi ben fondata di Boyarin del background ebraico relativo allo strano titolo di cui Gesù si fregia, Figlio dell'Uomo, una designazione che in teoria dovrebbe significare solo «essere umano», ma in realtà denuncia, tanto chiaramente quanto paradossalmente, un'identità divina molto più di quanto non faccia la più prevedibile, regale o messianica designazione di Figlio di Dio".

Dalla Prefazione di Jack Miles,  
“Corriere della Sera” del 23 settembre 2012

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