COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO
"PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI"
(Rm 11,29)
RIFLESSIONI SU QUESTIONI TEOLOGICHE ATTINENTI
ALLE RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE IN OCCASIONE
DEL 50º ANNIVERSARIO DI NOSTRA AETATE (N. 4)
INDICE
1. Breve
storia dell’impatto di "Nostra aetate" (n. 4) nel corso degli ultimi
50 anni
2. Lo
statuto teologico speciale del dialogo ebraico-cattolico
3. La
rivelazione nella storia come "Parola di Dio" nell’ebraismo e nel
cristianesimo
4. La
relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza
5. L’universalità
della salvezza in Gesù Cristo e l’alleanza mai revocata di Dio con Israele
6. Il
mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione all’ebraismo
7. Gli
obiettivi del dialogo con l’ebraismo
PREFAZIONE
Cinquant’anni fa, fu
promulgata la dichiarazione "Nostra
aetate" del Concilio Vaticano Secondo. Il suo quarto articolo presenta
la relazione tra la Chiesa
cattolica ed il popolo ebraico all’interno di un nuovo quadro teologico. Le
riflessioni qui di seguito proposte vogliono rendere atto, con gratitudine, di
tutto ciò che è stato possibile realizzare nelle relazioni ebraico-cattoliche
nel corso degli ultimi decenni ed al contempo fornire un rinnovato impulso per
il futuro. Nel ribadire lo statuto speciale delle relazioni ebraico-cattoliche
nel più ampio contesto del dialogo interreligioso, vengono affrontate questioni
teologiche quali l’importanza della rivelazione, il rapporto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, la
relazione tra l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e la convinzione che
l’alleanza di Dio con Israele non è mai stata revocata, ed il compito
evangelizzatore della Chiesa in riferimento all’ebraismo. Il presente documento
offre una riflessione cattolica sui temi sopramenzionati, inserendoli in un
contesto teologico, affinché il loro significato possa essere approfondito a
vantaggio di entrambe le tradizioni di fede. Il testo non è un documento
magisteriale o un insegnamento dottrinale della Chiesa cattolica, ma una
riflessione preparata dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo
su questioni teologiche attuali, sviluppatesi a partire dal Concilio Vaticano
Secondo. Esso vuole essere un punto di partenza per un ulteriore
approfondimento teologico, teso ad arricchire e ad intensificare la dimensione
teologica del dialogo ebraico-cattolico.
1. Breve storia dell’impatto di Nostra
aetate (n. 4) nel corso degli ultimi 50 anni
1. "Nostra
aetate" (n. 4) è giustamente
annoverata tra quei documenti del Concilio Vaticano Secondo che, con
particolare efficacia, sono riusciti a dare un nuovo orientamento alla Chiesa
cattolica. Questo cambiamento nelle relazioni della Chiesa con il popolo
ebraico e con l’ebraismo è percepibile con chiarezza solo se teniamo conto del
fatto che, precedentemente, esistevano grandi riserve da entrambe le parti,
anche perché la storia del cristianesimo è stata vista come segnata da
discriminazioni nei confronti dell’ebraismo e persino da tentativi di
conversione coatta (cfr. "
Evangelii
gaudium", n. 248). Sullo sfondo di questa complessa relazione vi è,
tra l’altro, un rapporto asimmetrico: gli ebrei hanno dovuto spesso
confrontarsi, quale minoranza, con una maggioranza cristiana, dalla quale sono
stati non di rado dipendenti. L’ombra oscura e terribile della Shoah
sull’Europa durante il periodo nazista ha spinto
la Chiesa a riflettere
nuovamente sul suo legame con il popolo ebraico.
2. L’apprezzamento di fondo espresso nei confronti
dell’ebraismo in "
Nostra
aetate" (n. 4) ha contribuito a far sì che comunità nel passato
scettiche le une di fronte alle altre si trasformassero col tempo, passo dopo
passo, in partner affidabili e addirittura in buoni amici, in grado di far
fronte insieme alle crisi e di gestire i conflitti in modo positivo. Il quarto
articolo di "
Nostra
aetate" è dunque considerato come un solido fondamento per gli sforzi
tesi a migliorare le relazioni tra cattolici ed ebrei.
3. Ai fini di un’implementazione concreta di
"
Nostra
aetate" (n. 4), il 22 ottobre 1974 fu istituita dal Beato Papa Paolo
VI la
Commissione
per i rapporti religiosi con l’ebraismo, che, sebbene collegata dal punto
di vista organizzativo al
Pontificio
Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, è indipendente a
livello operativo; essa è incaricata di seguire e promuovere il dialogo
religioso con l’ebraismo. Anche da una prospettiva teologica, il legame tra
la Commissione ed il
Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha un senso,
poiché la separazione tra Sinagoga e Chiesa va considerata come la prima
frattura, quella più densa di conseguenze, all’interno del popolo eletto.
4. L’anno stesso della sua fondazione,
la Commissione della
Santa Sede pubblicò, il 1° dicembre 1974, il suo primo documento ufficiale,
intitolato "Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della
Dichiarazione conciliare
Nostra
aetate (n. 4)". L’obiettivo principale ed innovatore di questo documento è
quello di avvicinarsi all’ebraismo per conoscerlo nel modo in cui esso si
auto-concepisce, esprimere il profondo apprezzamento del cristianesimo nei suoi
confronti e sottolineare l’importanza attribuita dalla Chiesa cattolica al
dialogo con gli ebrei, come si legge nel documento: "Praticamente è dunque
necessario, in particolare, che i cristiani cerchino di capire meglio le
componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche
essenziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro
attuale realtà religiosa" (Preambolo). Sulla base della testimonianza di
fede della Chiesa in Gesù Cristo, il documento riflette sulla natura specifica
del dialogo della Chiesa con l’ebraismo. Il testo fa riferimento alle radici
della liturgia cristiana nella sua matrice ebraica, menziona nuove possibilità
di avvicinamento nel campo dell’insegnamento, dell’istruzione e della
formazione e infine propone attività comuni nell’ambito sociale.
5.
A distanza di undici
anni, il 24 giugno 1985,
la
Commissione della Santa Sede ha pubblicato un secondo
documento intitolato "Circa una corretta presentazione degli ebrei e
dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica".
Questo documento ha un più forte orientamento teologico-esegetico nella misura
in cui riflette sulla relazione tra Antico e Nuovo Testamento, delinea le
radici ebraiche della fede cristiana, illustra il modo in cui gli ebrei sono
presentati nel Nuovo Testamento, menziona ciò che le rispettive liturgie hanno
in comune, soprattutto nelle grandi Feste dell’anno liturgico, e si sofferma
brevemente sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo nella storia. Riguardo
alla "terra dei padri", il documento afferma: "I cristiani sono
invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le sue radici
nella tradizione biblica, senza tuttavia far propria un’interpretazione
religiosa particolare di questa relazione… Per quanto concerne l’esistenza dello
Stato d’Israele e le sue opzioni politiche, essi vanno visti in un’ottica che
non sia di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto
internazionale" (VI, I).
6. Un terzo documento della Commissione per i
rapporti religiosi con l’ebraismo è stato presentato al pubblico il 16 marzo
1998. Esso si occupa della Shoah ed è intitolato "
Noi
ricordiamo: una riflessione sulla Shoah". Il testo, esprimendo un
giudizio severo ma accurato, evidenzia che il bilancio dei 2000 anni di
relazioni tra ebrei e cristiani è purtroppo negativo. Esso richiama alla
memoria l’atteggiamento dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo dei
nazionalsocialisti e si concentra sul dovere dei cristiani di ricordare la
tragedia umana della Shoah. In una
lettera
all’inizio di questa dichiarazione, il Santo Papa Giovanni Paolo II esprime
la sua speranza che il documento "aiuti veramente a guarire le ferite
delle incomprensioni ed ingiustizie del passato. Possa esso abilitare la
memoria a svolgere il suo necessario ruolo nel processo di costruzione di un
futuro nel quale l’indicibile iniquità della
Shoah non sia mai più possibile."
7. Tra i documenti della Santa Sede, va menzionato
il testo pubblicato dalla
Pontificia
Commissione Biblica il 24
maggio 2001, che si occupa esplicitamente del dialogo ebraico-cattolico: "
Il
popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana".
Questo è il più importante documento esegetico e teologico del dialogo
ebraico-cattolico ed è una miniera di temi comuni che si basano sulle Scritture
dell’ebraismo e del cristianesimo. Il testo considera le Sacre Scritture del
popolo ebraico come "parte fondamentale della Bibbia cristiana", ne
tratta i temi basilari, come pure la loro accoglienza all’interno della fede in
Cristo, e illustra nel dettaglio il modo in cui gli ebrei sono presentati nel
Nuovo Testamento.
8. Testi e documenti, per quanto importanti, non
possono sostituire gli incontri personali ed i dialoghi faccia a faccia. Il
dialogo ebraico-cattolico, i cui primi passi sono stati intrapresi sotto il
Beato Papa
Paolo VI, è stato
ulteriormente promosso e approfondito dal Santo Papa
Giovanni Paolo II,
attraverso i suoi eloquenti gesti nei confronti del popolo ebraico. Primo tra i
papi a recarsi nell’ex campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per
pregare per le vittime della Shoah, egli ha anche
visitato
la Sinagoga di Roma per
esprimere la sua solidarietà alla comunità ebraica. Nel contesto di un
pellegrinaggio
storico in Terra Santa, è stato ospite dello Stato di Israele, dove ha
partecipato ad incontri interreligiosi, ha reso
visita
ai due Rabbini Capo ed ha
pregato
al Muro Occidentale. Regolari sono stati i suoi incontri con gruppi di
rappresentanti ebraici sia in Vaticano che durante i suoi numerosi viaggi
apostolici. Anche il suo successore, Papa
Benedetto XVI, già
prima della sua elezione al soglio pontificio, si è impegnato nel dialogo
ebraico-cattolico offrendo, in una serie di conferenze, importanti riflessioni
teologiche sul rapporto tra Antica e Nuova Alleanza e tra Sinagoga e Chiesa. A
seguito della sua elezione, egli, sulle orme del Santo Papa Giovanni Paolo II,
ha continuato a promuovere questo dialogo nel modo a lui proprio, compiendo
gesti altrettanto pregnanti ed esprimendo il suo apprezzamento per l’ebraismo
attraverso la forza delle sue parole. Anche l’allora Cardinale Jorge Mario
Bergoglio, come Arcivescovo di Buenos Aires, ha avuto a cuore la promozione del
dialogo ebraico-cattolico, contando tra i suoi amici molti ebrei
dell’Argentina. Attualmente come Papa, continua ad intensificare, a livello
internazionale, il dialogo con l’ebraismo attraverso numerosi incontri
amichevoli. Tra questi, uno dei primi è stato quello avvenuto nel
maggio
2014 in Israele, dove il Papa
ha
incontrato i due Rabbini Capo, ha visitato il Muro Occidentale ed ha
pregato per le vittime della Shoah
allo
Yad Vashem.
9. Già prima dell’istituzione della Commissione
della Santa Sede, esistevano contatti e relazioni con varie organizzazioni
ebraiche, condotti attraverso l’allora Segretariato per la promozione
dell’unità dei cristiani. Avendo l’ebraismo molte sfaccettature e non
presentandosi in maniera unitaria dal punto di vista organizzativo,
la Chiesa cattolica si è
trovata di fronte alla sfida di determinare con chi interloquire, dato che non
era possibile intavolare dialoghi bilaterali individuali ed indipendenti con
tutti i gruppi e le organizzazioni ebraici che si dicevano disponibili al
dialogo. Per risolvere tale problema, le organizzazioni ebraiche hanno accolto
il suggerimento avanzato dalla Chiesa cattolica di costituire un singolo
organismo incaricato di condurre questo dialogo. L’International Jewish
Committee on Interreligious Consultations (IJCIC) è il rappresentante ebraico
ufficiale presso
la
Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della
Santa Sede.
10. L’IJCIC ha cominciato i suoi lavori nel 1970 e
già l’anno successivo è stata organizzata a Parigi la prima conferenza
congiunta. Le varie conferenze che hanno avuto luogo da allora rientrano nelle
competenze di quell’organismo chiamato International Catholic-Jewish Liaison
Committee (ILC) e danno forma alla collaborazione tra l’IJCIC e
la Commissione della
Santa Sede. Nel febbraio 2011, di nuovo a Parigi, l’ILC ha potuto guardare con
gratitudine a 40 anni di dialogo istituzionale. In questo arco di tempo, molto
è stato realizzato; dalla contrapposizione di una volta si è passati ad una
proficua collaborazione, dal potenziale di conflitto ad un’efficiente gestione
dei conflitti, da una coesistenza contrassegnata dalle tensioni ad una
convivenza solida e fruttuosa. I legami di amicizia sviluppatisi negli anni
hanno dimostrato la loro robustezza ed hanno permesso così di affrontare
insieme persino temi controversi senza il rischio di arrecare al dialogo un
danno permanente. Questo è stato tanto più necessario quanto, negli ultimi
decenni, il dialogo non è stato sempre privo di attriti. In generale, possiamo
comunque costatare con soddisfazione che nel dialogo ebraico-cattolico,
soprattutto a partire dal nuovo millennio, sono stati compiuti intensi sforzi
per affrontare, in modo aperto e positivo, le divergenze di opinione ed i
conflitti che si sono di volta in volta presentati, così che le mutue relazioni
hanno potuto rafforzarsi.
11. Oltre al dialogo con l’IJCIC, vanno menzionate
le conversazioni istituzionali con il Gran Rabbinato d’Israele, che possono
essere indubbiamente considerate come frutto dell’incontro che il Santo Papa
Giovanni Paolo II ha avuto
a
Gerusalemme con i due Rabbini Capo durante
la sua breve
visita
in Israele nel marzo 2000. La prima conversazione è stata organizzata a
Gerusalemme nel giugno 2002; da allora, ogni anno ha luogo un incontro, che si
tiene in alternanza a Roma e a Gerusalemme. Essendo le due delegazioni
relativamente piccole, è possibile condurre una discussione personale ed
intensa su vari temi, tra i quali la santità della vita, la condizione della
famiglia, il significato delle Sacre Scritture per la vita nella società, la
libertà religiosa, i principi etici dell’agire umano, la sfida ecologica, il
rapporto tra autorità secolare ed autorità religiosa ed i requisiti essenziali
di una leadership religiosa nella società secolare. Il fatto che i
rappresentanti cattolici che partecipano agli incontri siano vescovi e
sacerdoti e che i rappresentanti ebraici siano quasi esclusivamente rabbini
presenta il vantaggio di poter affrontare i singoli argomenti anche da una
prospettiva religiosa. In tal senso, il dialogo con il Gran Rabbinato d’Israele
ha permesso di allacciare relazioni più aperte tra l’ebraismo ortodosso e
la Chiesa cattolica a livello
mondiale. A conclusione di ogni incontro, viene pubblicata una dichiarazione
congiunta, che testimonia quanto ricco è il patrimonio comune dell’ebraismo e
del cristianesimo e quali tesori preziosi rimangono ancora da dissotterrare.
Guardando ad oltre dieci anni di dialogo, possiamo affermare con gratitudine
che si è sviluppata una forte amicizia, che costituisce una solida base su cui costruire
il futuro.
12. Il lavoro della Commissione per i rapporti
religiosi con l’ebraismo della Santa Sede non si limita naturalmente a questi
due dialoghi istituzionali.
La
Commissione, infatti, ha come intento quello di rimanere
aperta a tutte le correnti dell’ebraismo e quello di curare i contatti con
tutti i gruppi e le organizzazioni ebraici che desiderano allacciare relazioni
con
la Santa Sede.
Da parte ebraica, è stato mostrato un particolare interesse per le udienze
papali, nella cui preparazione è coinvolta
la Commissione. Oltre
ai contatti diretti con l’ebraismo,
la Commissione della Santa Sede si sforza di
fornire, all’interno della Chiesa cattolica, opportunità di dialogo con
l’ebraismo e di collaborare con singole conferenze episcopali, sostenendole
nella promozione del dialogo ebraico-cattolico a livello locale. Un buon
esempio di ciò è l’introduzione di una "Giornata dell’Ebraismo" in
alcuni paesi europei.
13. Nel corso degli ultimi decenni, sia il
"dialogo ad extra" che il "dialogo ad intra" hanno portato
con crescente chiarezza alla consapevolezza che cristiani ed ebrei sono
irreversibilmente interdipendenti gli uni dagli altri e che il loro dialogo,
dal punto di vista teologico, non è un’opzione arbitraria, ma un dovere. Ebrei
e cristiani possono arricchirsi vicendevolmente nella loro amicizia. Senza le
sue radici ebraiche,
la Chiesa
rischierebbe di perdere il suo ancoraggio nella storia della salvezza,
scivolando infine in una gnosi astorica. Papa Francesco osserva che
"sebbene alcune convinzioni cristiane siano inaccettabili per l’ebraismo,
e
la Chiesa
non possa rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia, esiste una ricca
complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia
ebraica e aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come
pure di condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la
giustizia e lo sviluppo dei popoli" (
"Evangelii
gaudium", n. 249).
2. Lo statuto teologico speciale del dialogo
ebraico-cattolico
14. Il dialogo con l’ebraismo è qualcosa di
assolutamente speciale per i cristiani, poiché il cristianesimo ha radici
ebraiche che determinano l’unicità delle relazioni tra le due tradizioni (cfr.
"Evangelii
gaudium", n. 247). Nonostante la rottura storica ed i dolorosi
conflitti che ne sono derivati,
la
Chiesa rimane consapevole della sua permanente continuità con
Israele. L’ebraismo non può essere semplicemente considerato come un’altra
religione; gli ebrei sono i nostri "fratelli maggiori" (Santo Papa
Giovanni Paolo II), i nostri "padri nella fede" (Benedetto XVI). Gesù
era un ebreo, vissuto nella tradizione ebraica del suo tempo e formato in
maniera determinante da quell’ambiente religioso (cfr. "
Ecclesia
in Medio Oriente", n. 20). I primi discepoli radunati intorno a lui
avevano lo stesso retaggio e la loro vita quotidiana era segnata dalla stessa
tradizione ebraica. Nella sua relazione unica con il Padre celeste, Gesù si
concentrò soprattutto sull’annuncio della venuta del Regno di Dio: "Il
tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al
vangelo" (Mc 1,15). All’interno dell’ebraismo esistevano all’epoca
concetti molto diversi sul modo in cui il Regno di Dio si sarebbe realizzato;
tuttavia, il messaggio centrale di Gesù sulla venuta del Regno di Dio è in
accordo con alcune delle idee ebraiche del tempo. Non si può comprendere
l’insegnamento di Gesù e dei suoi discepoli se non lo si situa all’interno
dell’orizzonte ebraico e nel contesto della tradizione vivente di Israele;
ancora meno lo si può capire se lo si percepisce come contrapposto a tale
tradizione. In Gesù, non pochi ebrei del suo tempo hanno visto l’arrivo di un
"nuovo Mosè", il Cristo promesso (il Messia). Eppure, la sua venuta
ha provocato un dramma le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi.
Pienamente e completamente uomo, ebreo del suo tempo, discendente di Abramo,
figlio di David, formato dall’intera tradizione di Israele, erede dei profeti,
Gesù si pone in continuità con il suo popolo e con la storia del suo popolo.
Dall’altro lato, alla luce della fede cristiana, egli stesso è Dio –il Figlio-
e trascende il tempo, la storia e ogni realtà terrena. La comunità di coloro
che credono in lui confessa la sua divinità (cfr. Fil 2,6-11). In questo senso,
egli è percepito in discontinuità con la storia che ha preparato la sua venuta.
Dal punto di vista della fede cristiana, egli porta pienamente a compimento la
missione e le attese di Israele, ma, al contempo, le supera e le trascende in
maniera escatologica. La differenza di fondo tra ebraismo e cristianesimo
consiste nel modo in cui si ritiene di dover valutare la figura di Gesù. Gli
ebrei possono vedere Gesù come un appartenente al loro popolo, un maestro
ebraico che ha sentito di essere chiamato in modo particolare ad annunciare il
Regno di Dio. Il fatto però che il Regno di Dio sia venuto con lui quale
rappresentante di Dio è al di fuori dell’orizzonte ebraico di attese
messianiche. Il conflitto tra Gesù e le autorità ebraiche del tempo non
dipendeva in fondo da una trasgressione individuale della legge, ma dalla
rivendicazione avanzata da Gesù di agire con autorità divina. Per questo, la
figura di Gesù è stata e rimane per gli ebrei una "pietra di
scandalo", il punto centrale e nevralgico del dialogo ebraico-cattolico.
Da una prospettiva teologica, per la propria auto-comprensione, i cristiani
devono far riferimento all’ebraismo dei tempi di Gesù ed in certa misura anche
all’ebraismo sviluppatosi da esso nel corso della storia. Date le origini
ebraiche di Gesù, è sempre indispensabile per i cristiani il confronto con
l’ebraismo. Ma la storia delle relazioni tra ebraismo e cristianesimo è stata
caratterizzata anche da una reciproca influenza.
15. Il dialogo tra ebrei e cristiani può essere
definito solo per analogia "dialogo interreligioso", ovvero dialogo
tra due religioni intrinsecamente separate e differenti. Non si tratta infatti
di due religioni aventi natura fondamentalmente diversa, che si sono sviluppate
l’una indipendentemente dall’altra senza reciproca influenza. L’humus di ebrei
e cristiani è l’ebraismo del tempo di Gesù, che ha dato origine non solo al
cristianesimo, ma anche all’ebraismo rabbinico postbiblico successivo alla
distruzione del Tempio nel 70 d.C., ebraismo che aveva dovuto fare a meno del
culto sacrificale e che si era incentrato esclusivamente, nel suo ulteriore
sviluppo, sulla preghiera e sull’interpretazione della rivelazione divina sia
scritta che orale. Ebrei e cristiani hanno dunque la stessa origine e possono
essere considerati come fratelli che hanno preso, come avviene di solito tra
fratelli, strade diverse. Le Scritture dell’antico Israele sono parte
integrante delle Scritture sia dell’ebraismo che del cristianesimo, considerate
da entrambi come Parola di Dio, Rivelazione, storia della salvezza. I primi
cristiani erano ebrei che naturalmente si riunivano, come membri della
comunità, nella sinagoga, rispettavano le prescrizioni religiose alimentari, lo
Shabbat ed il comandamento della circoncisione, ma al contempo confessavano
Gesù come il Cristo, il Messia inviato da Dio per la salvezza di Israele e di
tutta l’umanità. Con Paolo, il "movimento ebraico per Gesù" si aprì
in maniera definitiva a nuovi orizzonti, travalicando così le sue radici
ebraiche. Gradualmente, il suo pensiero si impose, ovvero l’idea che non fosse
necessario ad un non-ebreo diventare prima ebreo per confessare Cristo. Nei
primi tempi della Chiesa, vi erano dunque i cosiddetti giudeo-cristiani ed i
cristiani gentili, la "ecclesia ex circumcisione
" e la "ecclesia ex genti bus
", una Chiesa di origine giudaica,
l’altra di origine pagana, ma che, insieme, costituivano l’una ed unica Chiesa
di Gesù Cristo.
16. La separazione della Chiesa dalla Sinagoga non
avvenne però bruscamente, ma, sulla base di recenti conoscenze, sembra che si
sia protratta fino al terzo o quarto secolo. Ciò significa che molti
giudeo-cristiani dei primi tempi non percepivano come contraddittorio vivere
conformemente ad alcuni aspetti della tradizione ebraica e confessare Gesù come
il Cristo. Soltanto quando i gentili iniziarono a rappresentare la maggioranza
e, all’interno della comunità ebraica, la polemica sulla figura di Cristo
acquisì contorni più marcati, una separazione definitiva sembrò ormai
inevitabile. Col passare del tempo, i due fratelli – ebraismo e cristianesimo
– si allontanarono sempre più, crebbe
l’inimicizia tra loro e si ricorse anche alla reciproca diffamazione. I
cristiani si figuravano spesso gli ebrei come dannati da Dio e ciechi, perché
incapaci di riconoscere Gesù quale Messia e Salvatore. Gli ebrei percepivano
non di rado i cristiani come eretici che seguivano non il cammino originario
indicato da Dio, ma la loro strada. Non senza motivo, negli Atti degli
Apostoli, il cristianesimo è chiamato la "dottrina" (cfr. At 9,2;
19,9.23; 24,14.22), in contrasto con la
Halachà ebraica che regola
l’interpretazione normativa ai fini di una condotta pratica. Con il tempo,
ebraismo e cristianesimo si sono estraniati sempre più, arrivando persino ad
acerrimi conflitti ed all’accusa reciproca di aver abbandonato il cammino
prescritto da Dio.
17. Molti padri della Chiesa favorirono sempre più
la cosiddetta teoria della sostituzione (o "supersessionismo") tanto
che, nel Medioevo, essa divenne il fondamento teologico generale per le
relazioni con l’ebraismo: poiché Israele non aveva riconosciuto Gesù come il
Messia e il Figlio di Dio, le promesse e l’impegno di Dio non valevano più per
Israele, ma si rivolgevano alla Chiesa di Gesù Cristo che era ora il vero
"nuovo Israele", il nuovo popolo eletto da Dio. Nati dallo stesso
humus, ebraismo e cristianesimo erano giunti nel corso dei secoli dopo la loro
separazione ad un antagonismo teologico che soltanto con il Concilio Vaticano
Secondo si sarebbe stemperato. Con la sua Dichiarazione "
Nostra
aetate" (n. 4),
la
Chiesa professa inequivocabilmente, all’interno di un nuovo
quadro teologico, le radici ebraiche del cristianesimo. Mentre mantiene salda
l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in
Cristo, essa non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele,
suo popolo eletto. Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che
vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili ed una Sinagoga
respinta e sostituita da tale Chiesa. Da un rapporto originariamente stretto
tra ebraismo e cristianesimo si era sviluppata una lunga relazione di tensioni
che, dopo il Concilio Vaticano Secondo, è stata gradualmente trasformata in
dialogo costruttivo.
18. Si è tentato spesso di individuare il
fondamento della teoria della sostituzione nella Lettera agli Ebrei. Tuttavia,
questa epistola non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di origine ebraica,
che iniziavano a sentirsi stanchi ed insicuri. Il suo intento è di rafforzare
la loro fede e di incoraggiarli nella loro perseveranza, indicando Gesù Cristo
come il vero e definitivo sommo sacerdote, il mediatore della Nuova Alleanza. È
questo il contesto che occorre tenere a mente per comprendere il contrasto,
nella Lettera, tra una prima Alleanza, puramente terrena, ed una seconda
Alleanza, nuova (cfr. Eb 9,15; 12,24) e migliore (cfr. 8,7). La prima Alleanza
è definita antiquata, già invecchiata e prossima a sparire (cfr. 8,13), mentre
la nuova Alleanza è detta eterna (cfr. 13,20). Per giustificare questo
contrasto, l’epistola si riferisce alla promessa di una nuova alleanza nel
Libro del profeta Geremia 31,31-34 (cfr. Eb 8,8-12). Ciò mostra che
la Lettera agli Ebrei non
intende provare la falsità delle promesse dell’Antica Alleanza, ma, al
contrario, la loro fondatezza. Il riferimento alle promesse veterotestamentarie
vuole essere d’aiuto ai cristiani, rendendoli sicuri della salvezza in Cristo.
Il punto cruciale della Lettera agli Ebrei non è dunque la contrapposizione tra
Antica e Nuova Alleanza così come la intendiamo oggi, e neanche il contrasto
tra Chiesa ed ebraismo. Piuttosto, la contrapposizione è tra il sacerdozio
eterno celeste di Cristo ed il sacerdozio provvisorio terreno. Il tema centrale
nella Lettera agli Ebrei, davanti alla nuova situazione creatasi, è
l’interpretazione cristologica della Nuova Alleanza. E questo è precisamente il
motivo per cui "
Nostra
aetate" (n. 4) non ha fatto riferimento alla Lettera agli Ebrei, ma
alle riflessioni di San Paolo nella Lettera ai Romani 9-11.
19. Ad un osservatore esterno,
la Dichiarazione
conciliare "
Nostra
aetate" potrebbe dare l’impressione che il testo si occupi delle
relazioni tra
la Chiesa
cattolica e tutte le religioni mondiali in modo paritario. Ma la storia di come
è nata
la Dichiarazione
ed il testo stesso mostrano che non è così. Originariamente, il Santo Papa
Giovanni XXIII aveva suggerito che il Concilio promulgasse un
Tractatus de
Iudaeis, ma alla fine prevalse la decisione di prendere in considerazione,
in "
Nostra
aetate", tutte le religioni mondiali. Il fulcro della Dichiarazione
conciliare, che fa spazio appunto anche alla relazione tra
la Chiesa cattolica e le altre
religioni, è comunque il suo quarto articolo, che s’incentra sulla nuova
relazione teologica con l’ebraismo. In tal senso, la relazione con l’ebraismo
può essere considerata come il catalizzatore per definire il rapporto della
Chiesa cattolica con le altre religioni mondiali.
20. Tuttavia, rispetto alle altre religioni
mondiali, il dialogo con l’ebraismo, da un punto di vista teologico, ha un
carattere completamente diverso e si situa ad un altro livello. La fede degli
ebrei testimoniata nella Bibbia, fede che si ritrova nell’Antico Testamento,
non è per i cristiani un’altra religione, ma è il fondamento della loro stessa
fede, sebbene la figura di Gesù sia chiaramente l’unica chiave di
interpretazione cristiana delle Scritture dell’Antico Testamento. La pietra
d’angolo della fede cristiana è Gesù (cfr. At 4,11;
1 Pt 2,4-8). Il dialogo con
l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico; il cristianesimo, date le sue
radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra
religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano
può essere definito "dialogo interreligioso" in senso stretto; si
dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di "dialogo intra-religioso" o
"intra-familiare"
sui
generis. Nel
discorso
pronunciato presso la Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986, il Santo Papa
Giovanni Paolo II ha difatti descritto questa situazione con le seguenti
parole: "La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual
modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei
rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli
prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli
maggiori."
3. La rivelazione nella storia come "Parola di
Dio" nell’ebraismo e nel cristianesimo
21. Nell’Antico Testamento ci viene presentato il
piano salvifico di Dio per il suo popolo (cfr. "
Dei
verbum", n. 14). Questo piano salvifico è espresso chiaramente
all’inizio della storia biblica, nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12 ss). Per
rivelare se stesso e per parlare all’umanità, redimendola dal peccato e
radunandola come un unico popolo, Dio ha iniziato con lo scegliere il popolo di
Israele attraverso Abramo, separandolo dagli altri popoli. A questo popolo Dio
si è rivelato poco a poco per mezzo dei suoi inviati, dei suoi profeti, come il
vero Dio, l’unico Dio, il Dio vivente, il Dio redentore. L’elezione divina è un
aspetto costitutivo del popolo di Israele. Soltanto dopo il primo grande
intervento del Dio redentore, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Es
13,17 ss) e la stipula dell’Alleanza sul Sinai (cfr. Es 19 ss), le dodici tribù
sono diventate una vera e propria nazione ed hanno acquisito la consapevolezza
di essere il popolo di Dio, coloro ai quali erano stati trasmessi il messaggio
di Dio e le sue promesse, i testimoni della benevolenza misericordiosa di Dio
nel mezzo delle nazioni ed anche per il bene delle nazioni (cfr. Is 26,1-9; 54;
60; 62). Per istruire il suo popolo su come adempiere la sua missione e su come
trasmettere la rivelazione affidatagli, Dio ha dato ad Israele la legge che
definisce come deve vivere (cfr. Es 20; Dt 5) e che lo distingue dagli altri
popoli.
22. Come
la Chiesa stessa anche ai giorni nostri, Israele
trasporta il tesoro della sua elezione in fragili vasi. La relazione di Israele
con il suo Signore è la storia della sua fedeltà e della sua infedeltà. Per
compiere la sua opera redentrice, nonostante la piccolezza e la fragilità degli
strumenti da lui scelti, Dio ha manifestato la sua misericordia e la grazia dei
suoi doni, così come la fedeltà alle sue promesse che nessuna infedeltà umana
può annullare (cfr. Rm 3,3; 2 Tm 2,13). In ogni tappa del cammino del suo
popolo, Dio si è scelto almeno un "piccolo numero" (cfr. Dt 4,27), un
"resto" (cfr. Is 1,9; Sof 3,12; cfr. anche Is 6,13; 17,5-6),
un’esigua comunità di fedeli che "non hanno piegato le ginocchia a Baal"
(cfr. 1 Re 19,18). Attraverso questo resto, Dio ha realizzato il suo piano
salvifico. Oggetto costante della sua elezione e del suo amore è sempre rimasto
il suo popolo, perché attraverso di esso –come obiettivo finale- tutta
l’umanità viene riunita e condotta a Dio.
23.
La
Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. "
Nostra
aetate", n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha
cessato di esistere.
La Chiesa
è stata "mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e
nell’antica Alleanza" ("
Lumen
gentium", n. 2).
La
Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in
quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle
promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto
a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio:
"E se è vero che
la Chiesa
è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come
rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra
Scrittura" ("
Nostra
aetate", n. 4).
24. Dio si è rivelato nella sua Parola, così che
può essere compreso dall’umanità in situazioni storiche concrete. Questa Parola
invita tutti gli uomini a rispondere. Se la loro risposta è in accordo con
la Parola di Dio, il loro
rapporto con Dio è giusto. Per gli ebrei, questa Parola può essere imparata
attraverso
la Torah
e la tradizione basata su di essa.
La
Torah è l’insegnamento per condurre una vita riuscita nella
giusta relazione con Dio. Chi osserva
la Torah ha la vita nella sua pienezza (cfr. Pirqe
Avot II, 7). Osservando
la Torah,
l’ebreo prende parte alla comunione con Dio. Al riguardo, Papa Francesco ha
affermato: "Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo;
l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo
è
la Parola di
Dio fattasi carne nel mondo; per gli ebrei
la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah.
Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio
dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella
ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo
quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah." (
Discorso
ai membri dell’ International Council of Christians and Jews, 30 giugno 2015).
25. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono
presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far
proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano
Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla
Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può
dunque dischiudere l’accesso a Dio, sebbene spetti all’intervento divino
determinare in che modo egli intenda salvare gli uomini in ciascuna
circostanza. Il fatto che la volontà salvifica di Dio sia rivolta a tutta
l’umanità è testimoniato dalle Scritture (cfr. Gen 12,1-3; Is 2,2-5; 1 Tm 2,4).
Pertanto, non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo
il motto "Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo". La
fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si
rivolge a tutti gli uomini.
La
Parola di Dio è una realtà unica e indivisa che assume una
forma concreta nel contesto storico di ciascuno.
26.
In questo senso, i
cristiani affermano che Gesù Cristo può essere considerato come la "Torah
vivente di Dio". Torah e Cristo sono Parola di Dio, rivelazione di Dio per
noi uomini quale testimonianza del suo amore sconfinato. Per i cristiani, la
preesistenza di Cristo come Parola e come Figlio del Padre è un’affermazione
dottrinale fondamentale; secondo la tradizione rabbinica,
la Torah ed il nome del Messia
esistono già prima della creazione (cfr. Genesi Rabbah 1,1). Inoltre, nella
visione ebraica, Dio stesso interpreta
la Torah nell’Eschaton, mentre, secondo il pensiero
cristiano, tutto è ricapitolato in Cristo alla fine dei tempi (cfr. Ef 1,10;
Col 1,20). Nel Vangelo di Matteo, Cristo è presentato come il "nuovo
Mosè". Matteo 5,17-19 mostra Gesù come l’interprete autorevole ed
autentico della Torah (cfr. Lc 24,27. 45-47). Nella letteratura rabbinica
troviamo invece l’identificazione della Torah con Mosè. In questo contesto,
Cristo quale "nuovo Mosè" può essere collegato alla Torah.
La Torah e Cristo sono il luogo
della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata
nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico
dabarsignifica sia parola che
evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi
all’evento di Cristo.
4. La relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica
e Nuova Alleanza
27. L’Alleanza offerta da Dio a Israele è
irrevocabile. "Dio non è un uomo da potersi smentire" (Nm 23,19; cfr.
2 Tm 2,13). La permanente fedeltà elettiva di Dio espressa nelle alleanze precedenti
non è mai stata ripudiata (cfr. Rm 9,4; 11,1-2).
La Nuova Alleanza non
revoca le precedenti alleanze, ma le porta a compimento. Attraverso l’evento di
Cristo, i cristiani hanno compreso che tutto ciò che era avvenuto nel passato
doveva essere interpretato in maniera nuova. Per i cristiani,
la Nuova Alleanza ha
una qualità tutta sua, anche se la caratteristica di ciascuna alleanza è quella
di vivere una relazione specifica con Dio (cfr. la formula dell’alleanza in Lv
26,12, "sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo"). Per i
cristiani,
la Nuova
Alleanza in Cristo è il punto culminante delle promesse di
salvezza dell’Antica Alleanza ed, in tale misura, non è mai indipendente da
essa.
La Nuova Alleanza
ha per base e fondamento l’Antica, poiché è il Dio di Israele che stringe
l’Antica Alleanza con il popolo di Israele e rende possibile
la Nuova Alleanza in
Gesù Cristo. Gesù vive al tempo dell’Antica Alleanza, ma con la sua opera
salvifica nella Nuova Alleanza conferma e perfeziona le dimensioni dell’Antica.
Il termine Alleanza indica una relazione con Dio che si realizza in modo
diverso per ebrei e cristiani.
La Nuova Alleanza non può mai sostituire l’Antica,
ma la presuppone e le conferisce una nuova dimensione di senso, rafforzando
quella natura personale di Dio che è stata rivelata nell’Antica Alleanza e
definendo tale natura come apertura a tutti coloro che risponderanno fedelmente
tra tutte le nazioni (cfr. Zc 8,20-23; Sal 87).
28. Unità e differenze tra ebraismo e
cristianesimo sono apparse in primo piano innanzitutto con la testimonianza
della rivelazione divina. Per il fatto che l’Antico Testamento è parte
integrante dell’unica Bibbia cristiana, vi è un senso di appartenenza
profondamente radicato ed un intrinseco legame tra ebraismo e cristianesimo. Il
cristianesimo affonda le sue radici nell’Antico Testamento e da tali radici
trae continuamente nutrimento. Ma il cristianesimo si fonda sulla persona di
Gesù di Nazareth, che è riconosciuto come il Messia promesso al popolo ebraico
e come l’unigenito Figlio di Dio e che, dopo la sua morte in croce e la sua
risurrezione, ha comunicato se stesso per mezzo dello Spirito Santo. Con
l’esistenza del Nuovo Testamento, molto presto si è posta la domanda di capire
come i due Testamenti si rapportano l’uno all’altro e se ad esempio gli scritti
neotestamentari non abbiano superato tutti gli scritti più antichi,
annullandone la validità. Questa era la posizione sostenuta nel secondo secolo
da Marcione, il quale affermò che il Nuovo Testamento aveva reso obsoleto il
libro di promesse dell’Antico Testamento, destinato a svanire nello splendore
del Nuovo, proprio come la luce della luna è resa superflua dal sorgere del
sole. Questa marcata antitesi tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana non è mai
diventata dottrina ufficiale della Chiesa cristiana. Escludendo Marcione dalla
comunità cristiana nel 144,
la
Chiesa ha respinto il suo concetto di una Bibbia unicamente
"cristiana" depurata da tutti gli elementi veterotestamentari, ha
testimoniato la propria fede nell’unico Dio, autore di entrambi i Testamenti,
e, così facendo, è rimasta fedele all’unità dei due Testamenti, alla
"concordia testamentorum".
29. Questa, naturalmente, è soltanto una faccia
del rapporto tra i due Testamenti. Il patrimonio comune dell’Antico Testamento
non ha solo costituito la base fondamentale del legame spirituale tra ebrei e
cristiani, ma ha anche comportato una tensione di fondo nelle relazioni tra le
due tradizioni di fede. Questo traspare dal fatto che i cristiani leggono
l’Antico Testamento alla luce del Nuovo, nella convinzione dichiarata da
Agostino nella sua pregnante formula: "L’Antico Testamento si mostra nel
Nuovo, mentre il Nuovo è nascosto nell’Antico" (Quaestiones in
Heptateuchum 2,73). Papa Gregorio Magno si espresse in maniera analoga quando
definì l’Antico Testamento "profezia del Nuovo" ed il Nuovo "il
migliore commento all’Antico" (Homiliae in Ezechielem I, VI, 15; cfr.
"Dei verbum", n. 16).
30. Questa esegesi cristologica può facilmente
dare l’impressione che i cristiani considerino il Nuovo Testamento non solo
come compimento dell’Antico, ma anche come sua sostituzione. Per capire
l’infondatezza di tale impressione basti pensare al fatto che anche l’ebraismo,
dopo la catastrofe della distruzione del secondo Tempio nell’anno 70, si vide
costretto ad adottare una nuova lettura delle Scritture. Poiché i sadducei, che
erano legati al Tempio, non sopravvissero a tale catastrofe, i rabbini, sulla
scia dei farisei che avevano già sviluppato il loro modo particolare di leggere
ed interpretare le Scritture, portarono avanti questa attività esegetica, senza
più il Tempio quale centro del culto ebraico.
31. Di conseguenza, si profilarono due risposte a
questa situazione o, per meglio dire, due nuovi modi di leggere le Scritture,
ovvero l’esegesi cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella
forma di ebraismo che ebbe uno sviluppo storico. Poiché ciascuna modalità
comportava una nuova interpretazione delle Scritture, la questione cruciale
consiste ora nel comprendere precisamente come queste due modalità si
rapportano l’una all’altra. Tuttavia, dato che
la Chiesa cristiana e
l’ebraismo rabbinico post-biblico si svilupparono in parallelo, ma anche in una
reciproca opposizione ed ignoranza, non è possibile trovare una risposta a questa
domanda basandosi soltanto sul Nuovo Testamento. Dopo secoli di
contrapposizioni, il dovere del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far
interloquire tra loro questi due nuovi modi di leggere le Scritture bibliche,
per individuare la "ricca complementarietà" laddove esiste ed
"aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola" (
"Evangelii
gaudium", n. 249). Pertanto, il documento della Pontificia Commissione
Biblica del 2001, "
Il
popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana",
afferma che i cristiani possono e devono ammettere che "la lettura ebraica
della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre
Scritture ebraiche dall’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura
cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due
letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto
e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra"
(n. 22).
32. Poiché entrambe le letture sono al servizio di
una giusta comprensione della volontà e della Parola di Dio, è evidente quanto
sia importante essere consapevoli che la fede cristiana è radicata nella fede
di Abramo. Ciò solleva l’ulteriore questione di capire come si rapportano tra
loro Antica e Nuova Alleanza. Per la fede cristiana è inconfutabile che possa
esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza tra Dio e l’umanità. L’alleanza
con Abramo, il cui segno è la circoncisione (cfr. Gen 17), e la seconda
alleanza con Mosè ristretta ad Israele, che vincola all’obbedienza di fronte
alla Legge (cfr. Es 19,5; 24,7-8) ed in particolare all’osservanza dello
Shabbat (cfr. Es 31,16-17), sono state estese all’intera creazione (cfr. Gen 9,9
ss) nell’alleanza con Noè, il cui segno è l’arcobaleno (cfr.
"Verbum
Domini", n. 117). Attraverso i profeti poi, Dio propone una nuova ed
eterna alleanza (cfr. Is 55,3; 61,8; Ger 31,31-34; Ez 36,22-28). Ciascuna di
queste alleanze incorpora la precedente e la interpreta in maniera nuova.
Questo vale anche per
la
Nuova Alleanza, che per i cristiani è l’alleanza eterna
conclusiva e dunque l’interpretazione definitiva di ciò che era stato promesso
ai profeti dell’Antico Testamento o, come dice Paolo, il "sì" e l’
"Amen" a "tutte le promesse di Dio" (2 Cor 1,20).
La Chiesa, quale rinnovato
popolo di Dio, è stata eletta da Dio incondizionatamente.
La Chiesa è il luogo
definitivo e insuperabile dell’azione salvifica di Dio. Ciò non significa che
Israele, quale popolo di Dio, sia stato ripudiato o abbia perso la sua missione
(cfr. "
Nostra
aetate", n. 4).
La
Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né
la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza.
33. Per il dialogo ebraico-cristiano, si rivela
costitutiva soprattutto l’alleanza di Dio con Abramo, poiché egli non è solo il
padre di Israele, ma è anche il padre della fede dei cristiani. In questa
comunione di alleanza, deve essere chiaro per i cristiani che l’alleanza
stretta da Dio con Israele, in virtù dell’incrollabile fedeltà di Dio al suo
popolo, non è mai stata revocata e rimane valida; di conseguenza,
la Nuova Alleanza in
cui credono i cristiani può essere intesa solo come conferma e compimento
dell’Antica. I cristiani sono anche convinti che, attraverso
la Nuova Alleanza,
l’alleanza abramitica abbia acquisito quell’universalità rivolta a tutti i
popoli, che era originariamente sottesa nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12,1-3).
Per la fede cristiana, questo riferimento all’alleanza abramitica è un aspetto
talmente costitutivo che, senza Israele,
la Chiesa rischierebbe di perdere la sua
collocazione nella storia della salvezza. Dal canto loro, sempre per quanto
riguarda l’alleanza abramitica, gli ebrei potrebbero arrivare alla conclusione
che, senza
la Chiesa,
Israele correrebbe il rischio di rimanere troppo particolarista e di non
comprendere a sufficienza l’universalità della sua esperienza di Dio. In questo
senso fondamentale, Israele e
la
Chiesa, conformemente all’alleanza, restano strettamente
legati ed interdipendenti.
34. Che possa esserci soltanto un’unica storia
dell’alleanza di Dio con l’umanità e che, di conseguenza, Israele sia il popolo
eletto e amato da Dio, il popolo dell’alleanza, che non è mai stata sostituita
o revocata (cfr. Rm 9,4; 11,29), è la convinzione alla base dell’appassionato
sforzo dell’Apostolo Paolo di conciliare, da un lato, il fatto che l’Antica
Alleanza di Dio continua ad essere valida e, dall’altro, il fatto che Israele
non ha accolto
la
Nuova Alleanza. Per rendere giustizia a entrambi, Paolo ha
ideato l’immagine eloquente della radice di Israele nella quale sono stati
innestati i rami selvatici dei gentili (cfr. Rm 11,16-21). Si potrebbe dire che
Gesù Cristo porta in sé la radice vivente dell’ "oleastro" e che, in
un senso ancora più profondo, l’intera promessa è in lui radicata (cfr. Gv
8,58). Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la
relazione tra Israele e
la Chiesa
alla luce della fede. Con questa immagine, Paolo esprime la duplice realtà
dell’unità e della differenza tra Israele e
la Chiesa. Da un lato,
questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati
non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro
nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera
salvifica di Dio, tanto che
la
Chiesa cristiana non può essere semplicemente intesa come un
ramo o un frutto di Israele (cfr. Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine
deve essere compresa anche nel senso che
la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di
Israele ed i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero
recisi da tale radice (cfr. "
Ecclesia
in Medio Oriente", n. 21).
5. L’universalità della salvezza in Gesù Cristo e
l’alleanza mai revocata di Dio con Israele
35. Poiché Dio non ha mai revocato la sua alleanza
con il suo popolo Israele, non possono esserci vie o approcci diversi alla
salvezza di Dio. La teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche
diverse, la via ebraica senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i
cristiani ritengono essere Gesù di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio
le basi della fede cristiana. Confessare la mediazione salvifica universale e
dunque anche esclusiva di Gesù Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana
tanto quanto confessare il Dio uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi
in Gesù Cristo, si è manifestato pienamente come il Dio di tutti i popoli,
nella misura in cui in Cristo si è compiuta la promessa che tutti i popoli
pregheranno il Dio di Israele come l’unico Dio (cfr. Is 56,1-8). Nel documento
pubblicato nel 1985 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo
della Santa Sede "Circa una corretta presentazione degli ebrei e
dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica"
si afferma dunque che
la Chiesa
e l’ebraismo non possono essere presentati come "due vie parallele di
salvezza" e che
la Chiesa
deve "testimoniare il Cristo Redentore a tutti" (n. I,7). La fede
cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che
Gesù Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è "altro
nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere
salvati" (At 4,12).
36. Dalla confessione cristiana di un’unica via di
salvezza non consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio
perché non credono in Gesù Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio. Tale
affermazione non troverebbe fondamento nella visione soteriologica di San
Paolo, il quale, nella Lettera ai Romani, esprime la sua convinzione non
soltanto che non può esserci una rottura nella storia della salvezza, ma anche
che la salvezza viene dagli ebrei (cfr. anche Gv 4,22). Dio ha affidato a
Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo misterioso piano
di salvezza rivolto a tutti i popoli (cfr. 1 Tm 2,4) senza coinvolgere il suo
"figlio primogenito" (Es 4,22). Vediamo dunque chiaramente che Paolo,
nella Lettera ai Romani, risponde in maniera negativa e determinata alla domanda
che lui stesso si è posto, ovvero se Dio abbia ripudiato il suo popolo. In
maniera altrettanto decisa afferma: "perché i doni e la chiamata di Dio
sono irrevocabili!" (Rm 11,29). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla
salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia
possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero
divino insondabile. Non è dunque un caso che le riflessioni soteriologiche di
Paolo in Romani 9-11 circa la salvezza definitiva degli ebrei sullo sfondo del
mistero di Cristo culminino in una magnifica dossologia: "O profondità
della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono
imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rm 11,33).
Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice che per gli ebrei
"è stato fissato un tempo che non può essere anticipato".
37. Un altro punto focale per i cattolici deve
continuare ad essere l’assai complessa questione teologica di come conciliare
in maniera coerente la fede cristiana nel ruolo salvifico universale di Gesù
Cristo con la convinzione di fede altrettanto chiara che afferma l’esistenza di
un’alleanza mai revocata di Dio con Israele.
La Chiesa crede che Cristo è
il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché
Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili. Qui ci troviamo
davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari
volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora
in cui tutti saremo uniti, "in cui tutti i popoli acclameranno il Signore
con una sola voce e ‘lo serviranno sotto uno stesso giogo’" ("
Nostra
aetate", n. 4).
38.
La Dichiarazione sull’ebraismo del Concilio Vaticano
Secondo, ovvero il quarto articolo di "
Nostra
aetate", si situa in un quadro decisamente teologico per quanto
riguarda l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’Alleanza irrevocata
di Dio con Israele. Ciò non significa che nel testo siano state risolte tutte
le questioni teologiche sorte nelle relazioni tra cristianesimo ed ebraismo.
Tali questioni sono state inserite nella Dichiarazione, ma richiedono
un’ulteriore riflessione teologica. Naturalmente esistono testi precedenti del
Magistero sull’ebraismo, ma "
Nostra
aetate" (n. 4) presenta la prima panoramica teologica sulle relazioni
della Chiesa cattolica con gli ebrei.
39.
A motivo della grande
svolta teologica apportata, il testo conciliare non di rado è stato
sovra-interpretato e vi sono stati letti aspetti che esso in realtà non
contiene. Un esempio importante di sovra-interpretazione è la seguente
affermazione: che l’alleanza stretta da Dio con il suo popolo Israele è sempre
in vigore e non sarà mai invalidata. Per quanto vera sia tale affermazione,
questa non si trova esplicitamente espressa in "
Nostra
aetate" (n. 4). Essa è stata invece espressa per la prima volta con
assoluta chiarezza dal Santo Papa Giovanni Paolo II, quando ha osservato,
durante un
incontro
con i rappresentanti della comunità ebraica di Magonza, il 17 novembre 1980,
che l’Antica Alleanza non è mai stata revocata da Dio: "La prima
dimensione di questo dialogo, cioè l’incontro tra il popolo di Dio del Vecchio
Testamento, da Dio mai denunziato […], e quello del Nuovo Testamento, è allo
stesso tempo un dialogo all’interno della nostra Chiesa, per così dire tra la
prima e la seconda parte della sua Bibbia" (n. 3). La stessa convinzione è
affermata anche nel Catechismo della Chiesa del 1993: "l’Antica Alleanza
non è mai stata revocata" (121).
6. Il mandato evangelizzatore
della Chiesa in relazione all’ebraismo
40. È facile capire che la cosiddetta
"missione rivolta agli ebrei" è una questione molto spinosa e
sensibile per gli ebrei, poiché, ai loro occhi, riguarda l’esistenza stessa del
popolo ebraico. Anche per i cristiani è un tema delicato, poiché considerano di
fondamentale importanza il ruolo salvifico universale di Gesù Cristo e la
conseguente missione universale della Chiesa.
La Chiesa deve dunque
comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio,
in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre
religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che
la Chiesa cattolica non
conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli
ebrei. Fermo restando questo rifiuto -per principio- di una missione
istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere
testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono
farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori
della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah.
41. Il concetto di missione deve essere presentato
correttamente nel dialogo tra ebrei e cristiani. La missione cristiana trae
origine dall’invio di Gesù da parte del Padre. Gesù rende i discepoli partecipi
di tale chiamata riguardo al popolo di Dio, Israele (cfr. Mt 10,6), e poi
anche, come Signore Risorto, in relazione a tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19).
Così il popolo di Dio assume una nuova dimensione per mezzo di Gesù, che
istituisce la sua Chiesa chiamando sia ebrei che gentili (cfr. Ef 2,11-22),
sulla base della fede in lui, il Cristo, attraverso il battesimo, ovvero
attraverso l’incorporamento nel suo Corpo, che è
la Chiesa ("
Lumen
gentium", n. 14).
42. La missione cristiana e la testimonianza
cristiana, sia nella vita che nell’evangelizzazione, sono inseparabili. Il
principio che Gesù trasmette ai suoi discepoli quando li invia in missione è
subire la violenza piuttosto che infliggerla. I cristiani devono riporre la
loro fiducia in Dio, che compirà il suo piano universale di salvezza in modi
noti soltanto a lui; essi sono infatti testimoni di Cristo, ma non sono loro a
dover attuare la salvezza dell’umanità. Lo zelo per la "casa del
Signore" e la solida fiducia nel successo dell’azione divina non possono
essere scissi. La missione cristiana significa che tutti i cristiani, nella
comunione della Chiesa, confessano e proclamano il compimento, nella storia,
della volontà salvifica universale di Dio in Gesù Cristo (cfr. "
Ad
gentes", n. 7). I cristiani sperimentano la presenza sacramentale di
Cristo nella liturgia e la rendono tangibile nel servizio agli altri,
specialmente ai bisognosi.
43. È e rimane un tratto qualitativo della Chiesa
della Nuova Alleanza il fatto che essa sia composta da ebrei e gentili, anche
se il rapporto quantitativo tra giudeo-cristiani e gentili può dare a prima
vista un’altra impressione. Come dopo la morte e risurrezione di Gesù Cristo
non esistevano due Alleanze tra loro non correlate, così il "popolo
dell’Alleanza di Israele" non è scollegato dal "popolo di Dio composto
dai gentili". Piuttosto, il ruolo permanente del "popolo
dell’Alleanza di Israele" nel piano salvifico di Dio deve essere
rapportato in maniera dinamica al "popolo di Dio composto da ebrei e
gentili uniti in Cristo", in Colui che
la Chiesa confessa quale
mediatore universale della creazione e della salvezza. Nel contesto della
volontà salvifica universale di Dio, tutti coloro che non hanno ancora ricevuto
il Vangelo sono posti sullo stesso piano del popolo di Dio della Nuova
Alleanza: "In primo luogo quel popolo al quale furono dati i testamenti e
le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo
molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la
chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29)" ("
Lumen
gentium", n. 16).
7. Gli obiettivi del dialogo con
l’ebraismo
44. Il primo obiettivo del dialogo è
l’approfondimento della conoscenza reciproca tra ebrei e cristiani. Si può
amare soltanto ciò che si è imparato gradualmente a conoscere e si può
conoscere realmente e profondamente soltanto ciò che si ama. Questa conoscenza
approfondita si accompagna sempre ad un mutuo arricchimento, nel quale i
partners di dialogo diventano i destinatari dei rispettivi doni.
La Dichiarazione
conciliare "
Nostra
aetate" (n. 4) parla del ricco patrimonio spirituale che dovrebbe
essere ulteriormente scoperto passo dopo passo attraverso studi biblici e
teologici e mediante il dialogo. In tal senso, da un punto di vista cristiano,
un importante obiettivo è quello di riportare alla luce le ricchezze spirituali
custodite nell’ebraismo per i cristiani. Al riguardo, va menzionata soprattutto
l’interpretazione delle Sacre Scritture. Nella prefazione dell’allora Cardinale
Joseph Ratzinger al documento del 2001 della Pontificia Commissione Biblica,
"
Il
popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana", si
mette in evidenza il rispetto dei cristiani per l’interpretazione ebraica
dell’Antico Testamento. E si sottolinea: "i cristiani possono imparare
molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani
sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi
cristiana." Nel campo dell’esegesi, molti studiosi ebraici e cristiani
adesso collaborano e trovano la loro collaborazione fruttuosa per entrambi,
proprio perché appartengono a tradizioni religiose diverse.
45. Questa acquisizione di conoscenza reciproca
non deve limitarsi agli specialisti. È importante che gli istituti di
istruzione cattolici, in particolare nel campo della formazione dei sacerdoti,
includano nei loro curricula sia "
Nostra
aetate" che i documenti successivi della Santa Sede sull’attuazione
della Dichiarazione conciliare.
La
Chiesa è altrettanto riconoscente per gli sforzi compiuti
nella stessa direzione all’interno della comunità ebraica. I cambiamenti
fondamentali nelle relazioni tra cristiani ed ebrei introdotti da "
Nostra
aetate" (n. 4) devono essere resi noti anche alle generazioni future e
da loro accolti e divulgati.
46. Un importante obiettivo del dialogo
ebraico-cristiano consiste indubbiamente nell’impegno comune a favore della
giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in
tutto il mondo. È possibile che nel passato diverse religioni, sulla base di
una rivendicazione di verità intesa in maniera ristretta e di una intolleranza
ad essa conseguente, abbiano contribuito a fomentare conflitti e scontri. Oggi,
tuttavia, le religioni non dovrebbero essere parte del problema, ma parte della
soluzione al problema. Soltanto quando le religioni dialogano con successo le
une con le altre, contribuendo in tal modo alla pace mondiale, questa pace può
essere realizzata anche a livello sociale e politico. Prerequisito di tale
dialogo e di tale pace è la libertà di religione garantita dalle autorità
civili. Al riguardo, il banco di prova consiste nel modo in cui le minoranze
religiose sono trattate e in quali diritti vengono loro concessi. Nel dialogo
ebraico-cristiano, di grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane
nello Stato di Israele, poiché là –come in nessun altro luogo al mondo- una
minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in
Terra Santa –una pace che manca e per la quale si prega costantemente- svolge
un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cristiani.
47. Un altro importante obiettivo nel dialogo
ebraico-cattolico consiste nella lotta comune contro ogni manifestazione di
discriminazione razziale verso gli ebrei e contro ogni forma di antisemitismo,
il quale certamente non è ancora stato sradicato e riaffiora in modi diversi in
vari contesti. La storia ci insegna dove possono condurre perfino quelle forme
di antisemitismo all’inizio appena sottintese: alla tragedia umana della Shoah,
in cui due terzi degli ebrei europei sono stati annientati. Entrambe le
tradizioni di fede sono chiamate, insieme, a mantenere sempre sveglie vigilanza
e sensibilità, anche nell’ambito sociale. Per lo stretto legame di amicizia che
unisce ebrei e cattolici,
la
Chiesa cattolica si sente particolarmente in dovere di fare
quanto è in suo potere, insieme ai nostri amici ebrei, per respingere le
tendenze antisemite. Papa Francesco ha più volte sottolineato che un cristiano
non può mai essere un antisemita, soprattutto a motivo delle radici ebraiche
del cristianesimo.
48. Giustizia e pace non dovrebbero comunque
essere concetti astratti nel dialogo, ma dovrebbero concretizzarsi in modo
tangibile. La sfera sociale-umanitaria offre un ricco campo di attività, poiché
sia l’etica ebraica che l’etica cristiana comprendono l’imperativo di assistere
i poveri, i deboli e i malati. Ad esempio,
la Commissione per i
rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede ed il Jewish Committee on
Interreligious Consultations (IJCIC) hanno lavorato insieme nel
2004 in Argentina nel
periodo in cui il paese era attraversato dalla crisi finanziaria, per
organizzare mense popolari comuni per i poveri e i senzatetto e per permettere
ai bambini privi di mezzi di sussistenza di frequentare la scuola, offrendo
loro i pasti. La maggior parte delle Chiese cristiane hanno grandi
organizzazioni umanitarie, simili a quelle esistenti all’interno dell’ebraismo;
esse potrebbero dunque collaborare per alleviare la miseria umana. L’ebraismo
insegna che il comandamento di camminare in tutte le vie del Signore (cfr. Dt
11,22) richiede l’imitazione degli Attributi Divini ("imitatio Dei")
attraverso la cura rivolta alle persone vulnerabili, bisognose e sofferenti
(Talmud di Babilonia, Sotah 14a). Questo principio è in linea con
l’insegnamento di Gesù sulla necessità di assistere i bisognosi (cfr. ad es. Mt
25,35-46). Ebrei e cristiani non possono semplicemente accettare la povertà e
la sofferenza umana; devono piuttosto impegnarsi attivamente per il superamento
di tali problemi.
49. Quando ebrei e cristiani, attraverso
un’assistenza umanitaria concreta, apportano insieme il loro contributo alla
giustizia ed alla pace nel mondo, offrono testimonianza dell’amorevole premura
di Dio. Non più in discordante contrapposizione, ma cooperando a fianco gli uni
degli altri, ebrei e cristiani dovrebbero adoperarsi per un mondo migliore. Ad
una simile collaborazione ha invitato il Santo Papa Giovanni Paolo II nel
discorso pronunciato il
17
novembre 1980 davanti ai
membri del Consiglio centrale degli ebrei in Germania e della Conferenza dei
rabbini di Magonza: "Giudei e cristiani, quali figli di Abramo, sono
chiamati ad essere benedizione per il mondo […], in quanto si impegnano insieme
per la pace e la giustizia tra tutti gli uomini e i popoli, e lo fanno in
pienezza e profondità, come Dio stesso le ha pensate per noi, e con la
disponibilità ai sacrifici, che questo alto intento può esigere".
10 dicembre 2015
Cardinale
Kurt Koch
Presidente
S.E.
Mons. Brian Farrell
Vice-Presidente
P.
Norbert J. Hofmann, SDB
Segretario