sabato 30 gennaio 2016

L'Ebraismo è vita!

"La lotta all'antisemitismo come strategia della civiltà"

Rav Giuseppe Laras

Caro direttore, l’importanza del ricordo come antidoto all’antisemitismo è ribadita in ogni commemorazione del Giorno della Memoria. Molto viene fatto. Con mezzi scientifici, tecnici e didattici si cerca di mostrare ciò che di infame ed efferato fu perpetrato dal nazifascismo in Europa — e non solo — dagli anni 30 del ‘900. Si è parlato. Si sono mostrate immagini agghiaccianti dei campi di sterminio, in cui strame fu fatto dei corpi di milioni di esseri umani. Si è ricorso ai superstiti vittime di tali brutture (ai quali va commossa gratitudine per lo sforzo, specie psichico, a cui si sottopongono) per rendere testimonianza dell’annientamento dell’essere umano e dello sterminio del Popolo Ebraico.

Le scuole accompagnano scolaresche ad Auschwitz perché «vedano» e «tocchino con mano» quello che, lungi dall’essere favola triste, è verità storica profanante e contraddicente i valori etici e spirituali dell’umanità e, specialmente, delle culture da secoli promananti dalla scaturigine biblica. Presso il grande pubblico si è purtroppo ridotto l’ebraismo alla Shoah. 

L’ebraismo è ben altro: Bibbia, Talmùd, persone, volti, lingue, Israele, Oriente e Occidente insieme. In Italia, poi, si tratta di un cammino di popolo e di cultura — in primis religiosa, ma non solo — , in dinamica osmosi con la cultura italiana non ebraica, perdurato 22 secoli, nonostante sofferenze ed emarginazioni.

Gli ebrei italiani hanno, almeno in parte, la responsabilità di non aver loro stessi sufficiente cognizione e coscienza di ciò. E di non averlo spesso convenientemente saputo trasmettere ad altri, compresi persino gli ebrei non italiani. Sembrerebbe che la memoria della Shoah non sia servita a granché: l’antisemitismo, mutante anche in antisionismo, con il suo corredo di discredito, violenza e morte, è vivo e vegeto, più aggressivo che mai in Europa e in terra di Islam. I giornali riportano bollettini di opinioni e fatti antisemiti. Non accadeva nulla di simile, con tale intensità e frequenza, dalla caduta del nazismo, inclusa l’ignavia di troppa cultura e politica occidentale. Si è sconfitto il nazismo perché gli ebrei debbano abbandonare nuovamente l’Europa o per vedere accostati da alcuni, con falsità assordante e perversa immoralità, nazifascismo e sionismo? Si è sconfitto il nazismo per tacitamente accordarsi con chi vuole distruggere in vario modo Israele e inficiare così ogni costruttiva, ancorché talvolta severa, critica che tale Stato, come qualsiasi realtà statuale, necessita? Conservare e trasmettere la memoria serve allora poco o niente? Se così fosse, sarebbe disperante. Potrebbe invece essere che questa memoria, che ci sforziamo di conservare e di attualizzare, in realtà non sappiamo trasmetterla come occorrerebbe, nonostante la grande dedizione di molti.

Può essere, infine, che alcuni fatti siano stati troppo sottostimati, come, per esempio, il rapporto, tutt’altro che occasionale e trascurabile, tra nazismo e Islam jihadista, quest’ultimo nutrito ed eccitato dalla Germania guglielmina prima e dal nazifascismo poi. Un’altra risposta all’inadeguatezza della memoria per combattere l’antisemitismo potrebbe dimorare nella gravità di tale malattia dell’anima e della mente, che non sarebbe aggredibile da alcuna terapia e che si presenterebbe quindi alla stregua di male endemico e cronico. Posso testimoniare che, come molti ebrei, sono nato con l’antisemitismo e con esso sono invecchiato.

Sono considerazioni amare. Se l’arma della memoria per contrastare questa infezione dell’umanità appare spuntata, dobbiamo interrogarci sul perché tale male risulti così duro a morire o, perlomeno, a essere contenuto e, al contempo, per converso, così facilmente pronto a infettare. Ciò che rende l’antisemitismo malattia incurabile è probabilmente la sua veneranda età. Quasi 2000 anni di presenza nella storia del mondo, sia in terra di cristianità sia in terra di Islam, con l’accompagnamento devastante di predicazioni e azioni ininterrottamente rivolte contro l’ebreo, deicida per troppi secoli per i primi e kafir per molti dei secondi, meritevole dunque di discredito e punizione. Troppo tempo per non provocare catastrofi e l’assunzione dell’ebreo (specie in Europa, cristiana prima e purtroppo scristianizzata poi) a paradigma del male, come tale infido e mostruoso. So bene che, almeno in certi Paesi, qualcosa è cambiato, specie nella coscienza di molti amici cristiani che hanno riconosciuto con coraggio e onestà un nesso causale tra devastazioni hitleriane della Shoah e antiebraismo cristiano, nascente anticamente con le tentazioni marcionite ma presente e serpeggiante per secoli e ancora oggi, laicizzatosi poi nell’antisemitismo moderno di matrice illuminista, quest’ultimo mai davvero seriamente analizzato e meditato dalla storia del pensiero politico e filosofico occidentale.

So bene che il Dialogo ebraico-cristiano, nato dopo la Shoah, nonostante alti e bassi e vita relativamente breve, offre un ausilio alla lotta all’antisemitismo, agendo in parte da «farmaco sperimentale», contributo forse non imponente e risolutivo, ma significativo e prezioso per i contenuti di amicizia e passione che lo alimentano da parte sia cristiana sia ebraica. La lotta attiva e concreta all’antisemitismo (incluso l’antisionismo), nelle sue mutevoli e subdole forme, deve quindi trovare oggi accoglienza con coraggio e acribia, studio e passione, anche presso i cristiani e le Chiese. Altrimenti il Dialogo andrà erodendosi. Per rispondere all’interrogativo se il Giorno della Memoria, nonostante i limiti che presenta, possa continuare a essere proposto come momento non trascurabile di una strategia della civiltà e dell’umanizzazione, giudiziosamente dobbiamo concludere che, disattendendolo e smarrendolo, ci priveremmo di un prezioso freno inibitore.

Corriere della Sera 25.1.2016    
Fonte: 






giovedì 21 gennaio 2016

Dialogo cattolico-ebraico: La decima Parola

NON DESIDERARE  (Esodo 20,1.17)    

I° commento (voce ebraica)

Rav GIUSEPPE MOMIGLIANO
Presidente
dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia


I Dieci Comandamenti, secondo alcune interpretazioni, racchiudono in forma sintetica tutti i 613 precetti biblici, esemplificando anche in modo chiaro come essi si applichino ad ogni espressione della vita, richiedendo un impegno globale della persona, nell’azione, nella parola e nel pensiero.

Il 10° Comandamento rappresenta quindi, nell’ambito della seconda parte del Decalogo contente i precetti rivolti ai rapporti tra gli uomini, il campo del pensiero, completando in un progressivo ampliamento di orizzonte la responsabilità che abbiamo di non nuocere in alcun modo al prossimo, non solo con le azioni – divieto di omicidio, furto, rapimento e adulterio – e con la parola – proibizione di dare falsa testimonianza – ma neppure con il pensiero, con i sentimenti di invidia verso ciò che appartiene ad altri e col desiderio di entrarne in possesso.

Questo Comandamento presenta alcune varianti nelle due versioni del Decalogo, quella del Libro dell’Esodo e quella del Deuteronomio:

SHEMOT (ESODO) 20,17
«Non desiderare (lo tachmod) la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo»;
DEVARIM (DEUTERONOMIO) 5,18
«E non desiderare la moglie del tuo prossimo e non concupire (welò tittawweh) la casa del tuo prossimo né il suo campo né il suo servo né la sua serva né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
La differenza nell’ordine di presentazione dei diversi oggetti proibiti del desiderio, in particolare il fatto che nell’Esodo sia ricordata prima la casa mentre nel Deuteronomio si dia la precedenza alla donna sposata, viene spiegata da Izhak Abravanel – rabbino e importante esponente della comunità ebraica sefardita, esule dalla Spagna con la cacciata degli ebrei nel 1492 – con il fatto che il testo dell’Esodo si riferisce all’ordine dei beni che l’uomo tende a ricercare quando progetta la propria vita, dando quindi la priorità agli elementi indispensabili come la casa; secondo un’altra interpretazione il testo dell’Esodo si esprime secondo il principio «affermazione generale seguita dal particolare», cioè la casa rappresenta un termine onnicomprensivo, per indicare tutta la sfera della vita privata di una persona, che non deve essere in alcun modo oggetto di invidia e desiderio da parte di estranei, segue il dettaglio a cominciare dall’elemento più importante, la moglie. Il Deuteronomio enumera invece gli oggetti proibiti in base alla gravità dell’azione che ne consegue, per cui il desiderio della donna sposata, con la possibile conseguenza di un adulterio, è codificato come l’azione da proibire in assoluta prima istanza.

Troviamo invece diverse opinioni discordi, sia tra gli esegeti della Torah che tra i codificatori dei precetti, per quanto riguarda l’interpretazione delle due espressioni lo tachmod e lo tittawweh, che esprimono la proibizione del desiderio; alcuni, tra cui in particolare l’esegeta per eccellenza – Rashì (rabbi Shelomo ben Izhak) – sono propensi ad intendere nelle due espressioni lo tachmod e lo tittawweh un medesimo significato. Diverse altre fonti esegetiche colgono invece le differenze tra i due termini, sia rispetto al significato semantico che all’applicazione del Comandamento. Un antico testo rabbinico, la Mekhiltà di Rabbì Sim’on bar Yochay, un testo di midrash normativo e narrativo dei primi secoli dell’e.v. attribuito da alcuni allo stesso Maestro di cui porta il nome, secondo altri riferibile invece alla scuola di Rabbì Akivà, interpreta il Comandamento «lo tittawweh» come proibizione di coltivare il desiderio di cose appartenenti ad altri, mentre «lo tachmod» è interpretato come divieto di fare progetti per entrare in possesso di tali beni; un’altra raccolta di midrashim, la Mekhiltà di Rabbi Ishmael, definisce solo il divieto «lo tachmod» come relativo ad un desiderio che si traduce in azione. Maimonide nel Sefer Hamizwot (Il Libro dei Comandamenti) codifica le due proibizioni come altrettanti precetti negativi (divieti): «Precetto 265°, è la proibizione che ci è stata fatta di occupare i nostri pensieri con espedienti tesi ad acquisire beni di proprietà altrui, questo precetto è espresso dal detto dell’Eccelso “lo tachmod – Non desiderare la casa del tuo prossimo”(Esodo 20,17)... Questo divieto proibisce di mettere in atto espedienti volti ad ottenere qualcosa che desideriamo e che appartiene ad altri, anche se lo si acquista ad alto prezzo». «Precetto 266° è la proibizione che ci è stata fatta di concentrare i nostri pensieri nel desiderio di beni altrui e nel concupirli, perché questo porterebbe a mettere in atto gli espedienti per acquisirli, è questo un precetto negativo che scaturisce dall’espressione “lo tittawweh – Non concupire la casa del tuo prossimo”». Nel codice Mishneh Torah - Hilkhot ghezela waavedah (Norme sul furto e oggetti smarriti 1,11) lo stesso Maimonide specifica il legame tra i due divieti: «La concupiscenza – taawah – induce a progettare stratagemmi per appagare il desiderio – chimmud – e questo può condurre al furto, nel caso il proprietario non sia disposto a vendere il bene concupito malgrado l’offerta di denaro che riceve, se poi il proprietario cerca di difendere ciò che gli appartiene, la vicenda può giungere fino allo spargimento di sangue, considera bene l’episodio di Akhab e Navot». Il riferimento è al drammatico episodio riportato nel 1° Libro dei Re, a proposito della perversa bramosia che indusse Akhab, re d’Israele, a far condannare a morte un innocente, Navot di Izreel, con l’ausilio di falsi testimoni prezzolati, al fine di impossessarsi della vigna di proprietà del poveretto che si era rifiutato di cederla a qualsiasi prezzo.

Tra i commentatori moderni si sottolinea la differenza semantica dei due termini, in particolare il biblista Benno Jacob, sulla base di raffronti con diversi passi biblici, afferma che il desiderio espresso dal verbo lo tachmod nasce dalla vista diretta dell’oggetto della bramosia, laddove invece il desiderio richiamato dall’espressione lo tittawweh scaturisce dal pensiero o dall’immaginazione, anche senza alcun contatto visivo.

L’opinione prevalsa tra i legislatori è che si incorre in vera e propria trasgressione di concupiscenza nel momento in cui si inizia a meditare sulle manovre e sulle insistenze a cui si è disposti a ricorrere pur di conseguire il bene concupito, d’altro lato la trasgressione vera e propria del divieto di desiderio avviene quando si compiono ripetute insistenze e pressioni, sia personalmente che attraverso terzi, al fine di indurre il proprietario a privarsi, sia pure dietro equo pagamento, di un bene al quale in effetti egli non intende rinunciare e che si dispone a vendere solo per la pressione su di lui esercitata (Yosef Karo, Shulchan Aruch, Choshen Mishpat cap. 359 par. 10). Pertanto una persona che matura il desiderio di un determinato oggetto che è in possesso di altri, e si limita a rivolgersi al proprietario chiedendogli se è disposto a venderlo, senza ricorrere ad eccessive insistenze, non compie alcuna trasgressione, d’altra parte l’espressione «qualsiasi cosa appartenga al tuo prossimo» circoscrive il divieto al desiderio di beni che sono effettivamente di proprietà altrui, ma non proibisce di desiderare di possedere beni simili.

Altra limitazione riguarda il desiderio di possedere beni che possono essere lecitamente acquisiti solo attraverso un regolare acquisto, questo esclude dalla proibizione il desiderio di entrare in possesso di conoscenze e capacità che riscontriamo in altre persone, essendo riconosciuto lecito in questi casi anche insistere per essere messi a parte di scienze e competenze. È naturalmente proibito ambire e cercare di acquisire, anche attraverso leciti mezzi persuasivi, ruoli e posizioni professionali che sono già occupati da altre persone.

Per quanto la normativa riconosca una vera e propria trasgressione solo quando sussista concupiscenza di beni altrui e si progetti di entrarne in possesso, tuttavia è comunque proprio di un comportamento moralmente più elevato il non cercare in alcun modo di procurarsi un bene ambito se il desiderio scaturisce da sentimenti di invidia e cupidigia e non da reale necessità.

Da questo punto di vista questo Comandamento contiene anche un importante messaggio per una condotta di vita che trovi un giusto equilibrio tra l’aspirazione a migliorare le proprie condizioni di vita, che è propria della natura umana e rientra quindi nel compito che D.O stesso ci ha affidato, di portare a piena realizzazione le risorse del creato e le potenzialità della mente, rispetto al rischio, particolarmente diffuso ai nostri giorni, di concentrarsi con eccessiva insistenza nel desiderio e nella ricerca di beni superflui o di scarsa utilità per chi li acquista; il contenimento del desiderio nei limiti di sane aspirazioni può significare dare maggiore attenzione verso le necessità di chi ha veramente bisogno dell’essenziale e dedicare uno sguardo più responsabile al reale valore delle cose, evitando di giudicarle solo dalla loro apparenza e dal fascino con cui si presentano ai nostri occhi.

La proibizione di desiderare beni appartenenti ad altri, proprio in quanto Comandamento prevalentemente rivolto al pensiero, pone diversi interrogativi, sia sulle finalità, sia sulla stessa possibilità di stabilire confini ad ambiti, quali i sentimenti e le emozioni, che si ritiene sfuggano al controllo della nostra mente e della nostra volontà razionale.

Per quanto riguarda il significato e le finalità di questo Comandamento, oltre alla funzione di prevenzione verso i più gravi reati già ricordata, è necessario tener presenti anche altri valori in esso insiti. La proibizione del desiderio di cose altrui ci insegna che anche il solo pensiero negativo può costituire, di per sé, un modo di danneggiare il nostro prossimo, possiamo cioè recare danno non solo con azioni e parole ma anche con il pensiero; così infatti afferma Umberto Moshe David Cassuto, rabbino e profondo studioso della Bibbia: «L’uomo è soggetto non solo ai divieti di compiere adulterio con una donna sposata, e di impossessarsi di beni altrui, ma anche alla proibizione di desiderare la moglie del suo prossimo o le sue ricchezze; anche il solo desiderio costituisce una grave trasgressione dei principi formulati nella rivelazione divina. Non si tratta solo del rischio che il desiderio possa condurre ad un’azione più grave, e vada quindi proibito a titolo di prevenzione, ma che questi sentimenti negativi costituiscano di per sé una sorta di invasione dello spazio che appartiene ad altri, sia pure compiuto nel pensiero e non ancora nei fatti». Del resto, a titolo esemplificativo, sono intuitivi i danni che possono darsi nei rapporti di coppia per via di un interessamento estraneo, sia pure minimamente e persino involontariamente manifestato.

Nel midrash – la già menzionata Mechiltà di Rabbì Ishmael – che interpreta i Dieci Comandamenti attraverso la posizione speculare da essi occupata nelle due Tavole, cogliamo una diversa chiave di lettura, che mette in luce gravi aspetti della ricaduta di questo Comandamento sul soggetto stesso e addirittura sulla sua famiglia. Il midrash si sofferma sul raffronto tra il quinto Comandamento, «Onora tuo padre e tua madre», e il decimo, affermando: «Chi si lascia trasportare dal desiderio finirà per avere figli ribelli che non avranno per lui alcun rispetto»; i genitori che danno troppo spazio a desideri materiali, ambizioni, cupidigie, finiscono con il ritrovarsi figli che, educati ad un criterio di vita basato sull’egoismo e sul piacere, non avranno sviluppato sentimenti profondi neppure nei confronti degli stessi genitori e non esiteranno a far loro mancare l’onore dovuto per realizzare i propri interessi; se poi la concupiscenza del padre ha il risvolto della bramosia per una donna estranea, il monito nasce dal rischio di disfacimento che può darsi nell’educazione dei figli se viene meno il rispetto reciproco dei genitori.

Secondo altre interpretazioni, oltre a prevenire le conseguenze negative che possono nascere da desideri e concupiscenze, sia per le persone verso cui si dirige il desiderio che per i soggetti stessi, il valore e il fine di questo Comandamento consistono nell’educare la persona a sviluppare sentimenti puri e positivi, verso il prossimo e verso l’autorità divina da cui dipende la vita dell’uomo, potendo così godere di maggiore equilibrio e serenità. Il commentatore medievale spagnolo Rabbi Avraham Ibn Ezra si sofferma su questo significato nell’ambito di un più ampio discorso, nel quale sviluppa diversi esempi ed argomentazioni, sia di carattere etico e didattico che di contenuto religioso, relativamente alla possibilità per l’uomo di controllare i propri desideri e i propri sentimenti istintivi. Ibn Ezra afferma in particolare che l’uomo deve maturare anche in questo campo una forte coscienza della propria fede, basata sulla consapevolezza che ciò che possediamo è proprio quanto ci è stato assegnato dalla volontà del Signore e non possiamo cercare di procurarci quello che D.O ha disposto per altri e non per noi; la proibizione stessa deve di fatto tradursi nella consapevolezza che quanto non ci appartiene, in pratica non ci è neppure raggiungibile, è propriamente al di fuori della nostra portata; seguendo questi principi, sostiene Ibn Ezra, l’uomo potrà essere lieto e appagato per quanto dispone e potrà serenamente riporre la propria fiducia in D.O.

L’autore del testo medievale Sefer Hakhinnuch sviluppa con particolare enfasi il concetto secondo cui l’uomo è assolutamente in grado di gestire i propri desideri e i propri pensieri, accogliendo e sviluppando quelli che possono maturare in propositi e azioni positive e respingendo invece sul nascere quelli suscettibili di indurci a comportamenti negativi, a vere e proprie trasgressioni o addirittura a crimini – «(l’uomo) ha il proprio cuore nelle sue mani, egli può orientarlo verso ciò che desidera», in altre parole, il libero arbitrio si esercita non solo verso le azioni ma anche verso i sentimenti e aspirazioni, e può guidarci ogni volta che dobbiamo decidere se lasciarci influenzare o meno dalle emozioni che il nostro animo percepisce. Il fatto stesso che la Torah stabilisca veri e propri precetti relativi al pensiero ed ai sentimenti, prevedendo le conseguenze che ne possono derivare e riconoscendo all’uomo libertà e responsabilità nel modo in cui li gestisce, viene interpretato da Shimshon Refael Hirsch, grande rabbino ed esponente del pensiero ebraico nell’ottocento, come una prova dell’origine divina dei Comandamenti, dal momento che solo D.O, avendo la piena conoscenza non solo delle azioni ma anche del pensiero dell’uomo, può legiferare su un ambito che invece sfugge al controllo di qualsiasi autorità umana.

In ultima analisi sono i sentimenti più forti, dell’amore per D.O e dell’amore per il prossimo che ci permettono di rimuovere e di prevenire il radicamento di invidia, gelosia e di insano desiderio di beni altrui; rav Yaakov Zevi Mecklenburg – importante rabbino tedesco del 19° secolo, nel suo commento alla Torah «Haketav wehakkabalah» – afferma che per il rispetto di questo Comandamento è determinante l’intensità dell’amore per D.O, se esso anima e riempie il nostro cuore non vi è spazio per gli istinti e i sentimenti negativi e distruttivi, in modo analogo ad un bicchiere pieno che non permette di versare null’altro. Una diversa spiegazione ci propone invece un Maestro contemporaneo, rav Simchà Zisel Broida, nel commento alla Torah «Sam derekh», secondo il quale la radice più profonda della bramosia e della concupiscenza è la mancanza di amore per il prossimo; infatti nei confronti della persona verso cui è rivolto il nostro amore non proviamo sentimenti di invidia e non aspiriamo ad entrare in possesso di qualcosa che gli appartiene, pertanto la Torah ci insegna ad evitare il desiderio di beni altrui attraverso il Comandamento dell’amore per il prossimo; questo commento sviluppa un pensiero già espresso dal midrash – Waikrà Rabbà – che, nell’ambito di una puntuale verifica del legame tra i Dieci Comandamenti e le leggi della santità, formulate nel capitolo XIX del Levitico, individua un nesso preciso tra il divieto di desiderare beni altrui e il Comandamento dell’amore per il prossimo contenuto nel brano del Levitico.

L’elevato livello di fede e il profondo sentimento di amore per il prossimo, necessari per dare completa attuazione a questo Comandamento, ne motivano forse la sua collocazione a chiusura del Decalogo, un antico Midrash afferma che, come i Dieci Comandamenti contengono tutti i 613 precetti, così l’ultimo Comandamento del Decalogo contiene tutti gli altri e chi lo osserva pienamente può essere considerato come persona che rispetta tutte le leggi del Signore, d’altra parte, un maestro del Chassidismo – rabbi Yekhiel Mikhael di Zlotczow, noto come Magghid di Zlotczow discepolo del fondatore del movimento, il grande Baal Shem Tov, affermava che l’espressione «non desiderare» proprio per la difficoltà che racchiude e per la collocazione a conclusione del Decalogo, va inteso non solo come comandamento ma come promessa: «Chi fa attenzione ai primi nove Comandamenti e li mette in pratica, certamente arriverà a rispettare il divieto di desiderare ciò che appartiene ad altri».

Completandosi quest’anno l’analisi del Decalogo quale testo guida per la Giornata del Dialogo con la Chiesa, desidero esprimere l’auspicio che le parole della Bibbia possano essere anche per il futuro occasione di dialogo fecondo, particolarmente in un periodo così carico di eventi drammatici nel quale è dovere delle religioni portare parole di pace.

Rav GIUSEPPE MOMIGLIANO
Presidente
dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia



martedì 5 gennaio 2016

Dichiarazione di 25 rabbini ortodossi sul cristianesimo

COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO
"PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI" 
(Rm 11,29)
RIFLESSIONI SU QUESTIONI TEOLOGICHE ATTINENTI 
ALLE RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE IN OCCASIONE 
DEL 50º ANNIVERSARIO DI NOSTRA AETATE (N. 4)

INDICE

1. Breve storia dell’impatto di "Nostra aetate" (n. 4) nel corso degli ultimi 50 anni

2. Lo statuto teologico speciale del dialogo ebraico-cattolico


3. La rivelazione nella storia come "Parola di Dio" nell’ebraismo e nel cristianesimo


4. La relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza


5. L’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’alleanza mai revocata di Dio con Israele


6. Il mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione all’ebraismo


7. Gli obiettivi del dialogo con l’ebraismo

PREFAZIONE

Cinquant’anni fa, fu promulgata la dichiarazione "Nostra aetate" del Concilio Vaticano Secondo. Il suo quarto articolo presenta la relazione tra la Chiesa cattolica ed il popolo ebraico all’interno di un nuovo quadro teologico. Le riflessioni qui di seguito proposte vogliono rendere atto, con gratitudine, di tutto ciò che è stato possibile realizzare nelle relazioni ebraico-cattoliche nel corso degli ultimi decenni ed al contempo fornire un rinnovato impulso per il futuro. Nel ribadire lo statuto speciale delle relazioni ebraico-cattoliche nel più ampio contesto del dialogo interreligioso, vengono affrontate questioni teologiche quali l’importanza della rivelazione, il rapporto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, la relazione tra l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e la convinzione che l’alleanza di Dio con Israele non è mai stata revocata, ed il compito evangelizzatore della Chiesa in riferimento all’ebraismo. Il presente documento offre una riflessione cattolica sui temi sopramenzionati, inserendoli in un contesto teologico, affinché il loro significato possa essere approfondito a vantaggio di entrambe le tradizioni di fede. Il testo non è un documento magisteriale o un insegnamento dottrinale della Chiesa cattolica, ma una riflessione preparata dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo su questioni teologiche attuali, sviluppatesi a partire dal Concilio Vaticano Secondo. Esso vuole essere un punto di partenza per un ulteriore approfondimento teologico, teso ad arricchire e ad intensificare la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico.  

1. Breve storia dell’impatto di Nostra aetate (n. 4) nel corso degli ultimi 50 anni

1. "Nostra aetate" (n. 4) è giustamente annoverata tra quei documenti del Concilio Vaticano Secondo che, con particolare efficacia, sono riusciti a dare un nuovo orientamento alla Chiesa cattolica. Questo cambiamento nelle relazioni della Chiesa con il popolo ebraico e con l’ebraismo è percepibile con chiarezza solo se teniamo conto del fatto che, precedentemente, esistevano grandi riserve da entrambe le parti, anche perché la storia del cristianesimo è stata vista come segnata da discriminazioni nei confronti dell’ebraismo e persino da tentativi di conversione coatta (cfr. "Evangelii gaudium", n. 248). Sullo sfondo di questa complessa relazione vi è, tra l’altro, un rapporto asimmetrico: gli ebrei hanno dovuto spesso confrontarsi, quale minoranza, con una maggioranza cristiana, dalla quale sono stati non di rado dipendenti. L’ombra oscura e terribile della Shoah sull’Europa durante il periodo nazista ha spinto la Chiesa a riflettere nuovamente sul suo legame con il popolo ebraico.

2. L’apprezzamento di fondo espresso nei confronti dell’ebraismo in "Nostra aetate" (n. 4) ha contribuito a far sì che comunità nel passato scettiche le une di fronte alle altre si trasformassero col tempo, passo dopo passo, in partner affidabili e addirittura in buoni amici, in grado di far fronte insieme alle crisi e di gestire i conflitti in modo positivo. Il quarto articolo di "Nostra aetate" è dunque considerato come un solido fondamento per gli sforzi tesi a migliorare le relazioni tra cattolici ed ebrei.

3. Ai fini di un’implementazione concreta di "Nostra aetate" (n. 4), il 22 ottobre 1974 fu istituita dal Beato Papa Paolo VI la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, che, sebbene collegata dal punto di vista organizzativo al Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, è indipendente a livello operativo; essa è incaricata di seguire e promuovere il dialogo religioso con l’ebraismo. Anche da una prospettiva teologica, il legame tra la Commissione ed il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha un senso, poiché la separazione tra Sinagoga e Chiesa va considerata come la prima frattura, quella più densa di conseguenze, all’interno del popolo eletto.

4. L’anno stesso della sua fondazione, la Commissione della Santa Sede pubblicò, il 1° dicembre 1974, il suo primo documento ufficiale, intitolato "Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra aetate (n. 4)". L’obiettivo principale ed innovatore di questo documento è quello di avvicinarsi all’ebraismo per conoscerlo nel modo in cui esso si auto-concepisce, esprimere il profondo apprezzamento del cristianesimo nei suoi confronti e sottolineare l’importanza attribuita dalla Chiesa cattolica al dialogo con gli ebrei, come si legge nel documento: "Praticamente è dunque necessario, in particolare, che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa" (Preambolo). Sulla base della testimonianza di fede della Chiesa in Gesù Cristo, il documento riflette sulla natura specifica del dialogo della Chiesa con l’ebraismo. Il testo fa riferimento alle radici della liturgia cristiana nella sua matrice ebraica, menziona nuove possibilità di avvicinamento nel campo dell’insegnamento, dell’istruzione e della formazione e infine propone attività comuni nell’ambito sociale.

5. A distanza di undici anni, il 24 giugno 1985, la Commissione della Santa Sede ha pubblicato un secondo documento intitolato "Circa una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica". Questo documento ha un più forte orientamento teologico-esegetico nella misura in cui riflette sulla relazione tra Antico e Nuovo Testamento, delinea le radici ebraiche della fede cristiana, illustra il modo in cui gli ebrei sono presentati nel Nuovo Testamento, menziona ciò che le rispettive liturgie hanno in comune, soprattutto nelle grandi Feste dell’anno liturgico, e si sofferma brevemente sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo nella storia. Riguardo alla "terra dei padri", il documento afferma: "I cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le sue radici nella tradizione biblica, senza tuttavia far propria un’interpretazione religiosa particolare di questa relazione… Per quanto concerne l’esistenza dello Stato d’Israele e le sue opzioni politiche, essi vanno visti in un’ottica che non sia di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale" (VI, I).

6. Un terzo documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo è stato presentato al pubblico il 16 marzo 1998. Esso si occupa della Shoah ed è intitolato "Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah". Il testo, esprimendo un giudizio severo ma accurato, evidenzia che il bilancio dei 2000 anni di relazioni tra ebrei e cristiani è purtroppo negativo. Esso richiama alla memoria l’atteggiamento dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo dei nazionalsocialisti e si concentra sul dovere dei cristiani di ricordare la tragedia umana della Shoah. In una lettera all’inizio di questa dichiarazione, il Santo Papa Giovanni Paolo II esprime la sua speranza che il documento "aiuti veramente a guarire le ferite delle incomprensioni ed ingiustizie del passato. Possa esso abilitare la memoria a svolgere il suo necessario ruolo nel processo di costruzione di un futuro nel quale l’indicibile iniquità della Shoah non sia mai più possibile."

7. Tra i documenti della Santa Sede, va menzionato il testo pubblicato dalla Pontificia Commissione Biblica il 24 maggio 2001, che si occupa esplicitamente del dialogo ebraico-cattolico: "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana". Questo è il più importante documento esegetico e teologico del dialogo ebraico-cattolico ed è una miniera di temi comuni che si basano sulle Scritture dell’ebraismo e del cristianesimo. Il testo considera le Sacre Scritture del popolo ebraico come "parte fondamentale della Bibbia cristiana", ne tratta i temi basilari, come pure la loro accoglienza all’interno della fede in Cristo, e illustra nel dettaglio il modo in cui gli ebrei sono presentati nel Nuovo Testamento.

8. Testi e documenti, per quanto importanti, non possono sostituire gli incontri personali ed i dialoghi faccia a faccia. Il dialogo ebraico-cattolico, i cui primi passi sono stati intrapresi sotto il Beato Papa Paolo VI, è stato ulteriormente promosso e approfondito dal Santo Papa Giovanni Paolo II, attraverso i suoi eloquenti gesti nei confronti del popolo ebraico. Primo tra i papi a recarsi nell’ex campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per pregare per le vittime della Shoah, egli ha anche visitato la Sinagoga di Roma per esprimere la sua solidarietà alla comunità ebraica. Nel contesto di un pellegrinaggio storico in Terra Santa, è stato ospite dello Stato di Israele, dove ha partecipato ad incontri interreligiosi, ha reso visita ai due Rabbini Capo ed ha pregato al Muro Occidentale. Regolari sono stati i suoi incontri con gruppi di rappresentanti ebraici sia in Vaticano che durante i suoi numerosi viaggi apostolici. Anche il suo successore, Papa Benedetto XVI, già prima della sua elezione al soglio pontificio, si è impegnato nel dialogo ebraico-cattolico offrendo, in una serie di conferenze, importanti riflessioni teologiche sul rapporto tra Antica e Nuova Alleanza e tra Sinagoga e Chiesa. A seguito della sua elezione, egli, sulle orme del Santo Papa Giovanni Paolo II, ha continuato a promuovere questo dialogo nel modo a lui proprio, compiendo gesti altrettanto pregnanti ed esprimendo il suo apprezzamento per l’ebraismo attraverso la forza delle sue parole. Anche l’allora Cardinale Jorge Mario Bergoglio, come Arcivescovo di Buenos Aires, ha avuto a cuore la promozione del dialogo ebraico-cattolico, contando tra i suoi amici molti ebrei dell’Argentina. Attualmente come Papa, continua ad intensificare, a livello internazionale, il dialogo con l’ebraismo attraverso numerosi incontri amichevoli. Tra questi, uno dei primi è stato quello avvenuto nel maggio 2014 in Israele, dove il Papa ha incontrato i due Rabbini Capo, ha visitato il Muro Occidentale ed ha pregato per le vittime della Shoah allo Yad Vashem.

9. Già prima dell’istituzione della Commissione della Santa Sede, esistevano contatti e relazioni con varie organizzazioni ebraiche, condotti attraverso l’allora Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani. Avendo l’ebraismo molte sfaccettature e non presentandosi in maniera unitaria dal punto di vista organizzativo, la Chiesa cattolica si è trovata di fronte alla sfida di determinare con chi interloquire, dato che non era possibile intavolare dialoghi bilaterali individuali ed indipendenti con tutti i gruppi e le organizzazioni ebraici che si dicevano disponibili al dialogo. Per risolvere tale problema, le organizzazioni ebraiche hanno accolto il suggerimento avanzato dalla Chiesa cattolica di costituire un singolo organismo incaricato di condurre questo dialogo. L’International Jewish Committee on Interreligious Consultations (IJCIC) è il rappresentante ebraico ufficiale presso la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede.

10. L’IJCIC ha cominciato i suoi lavori nel 1970 e già l’anno successivo è stata organizzata a Parigi la prima conferenza congiunta. Le varie conferenze che hanno avuto luogo da allora rientrano nelle competenze di quell’organismo chiamato International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC) e danno forma alla collaborazione tra l’IJCIC e la Commissione della Santa Sede. Nel febbraio 2011, di nuovo a Parigi, l’ILC ha potuto guardare con gratitudine a 40 anni di dialogo istituzionale. In questo arco di tempo, molto è stato realizzato; dalla contrapposizione di una volta si è passati ad una proficua collaborazione, dal potenziale di conflitto ad un’efficiente gestione dei conflitti, da una coesistenza contrassegnata dalle tensioni ad una convivenza solida e fruttuosa. I legami di amicizia sviluppatisi negli anni hanno dimostrato la loro robustezza ed hanno permesso così di affrontare insieme persino temi controversi senza il rischio di arrecare al dialogo un danno permanente. Questo è stato tanto più necessario quanto, negli ultimi decenni, il dialogo non è stato sempre privo di attriti. In generale, possiamo comunque costatare con soddisfazione che nel dialogo ebraico-cattolico, soprattutto a partire dal nuovo millennio, sono stati compiuti intensi sforzi per affrontare, in modo aperto e positivo, le divergenze di opinione ed i conflitti che si sono di volta in volta presentati, così che le mutue relazioni hanno potuto rafforzarsi.

11. Oltre al dialogo con l’IJCIC, vanno menzionate le conversazioni istituzionali con il Gran Rabbinato d’Israele, che possono essere indubbiamente considerate come frutto dell’incontro che il Santo Papa Giovanni Paolo II ha avuto a Gerusalemme con i due Rabbini Capo durante la sua breve visita in Israele nel marzo 2000. La prima conversazione è stata organizzata a Gerusalemme nel giugno 2002; da allora, ogni anno ha luogo un incontro, che si tiene in alternanza a Roma e a Gerusalemme. Essendo le due delegazioni relativamente piccole, è possibile condurre una discussione personale ed intensa su vari temi, tra i quali la santità della vita, la condizione della famiglia, il significato delle Sacre Scritture per la vita nella società, la libertà religiosa, i principi etici dell’agire umano, la sfida ecologica, il rapporto tra autorità secolare ed autorità religiosa ed i requisiti essenziali di una leadership religiosa nella società secolare. Il fatto che i rappresentanti cattolici che partecipano agli incontri siano vescovi e sacerdoti e che i rappresentanti ebraici siano quasi esclusivamente rabbini presenta il vantaggio di poter affrontare i singoli argomenti anche da una prospettiva religiosa. In tal senso, il dialogo con il Gran Rabbinato d’Israele ha permesso di allacciare relazioni più aperte tra l’ebraismo ortodosso e la Chiesa cattolica a livello mondiale. A conclusione di ogni incontro, viene pubblicata una dichiarazione congiunta, che testimonia quanto ricco è il patrimonio comune dell’ebraismo e del cristianesimo e quali tesori preziosi rimangono ancora da dissotterrare. Guardando ad oltre dieci anni di dialogo, possiamo affermare con gratitudine che si è sviluppata una forte amicizia, che costituisce una solida base su cui costruire il futuro.

12. Il lavoro della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede non si limita naturalmente a questi due dialoghi istituzionali. La Commissione, infatti, ha come intento quello di rimanere aperta a tutte le correnti dell’ebraismo e quello di curare i contatti con tutti i gruppi e le organizzazioni ebraici che desiderano allacciare relazioni con la Santa Sede. Da parte ebraica, è stato mostrato un particolare interesse per le udienze papali, nella cui preparazione è coinvolta la Commissione. Oltre ai contatti diretti con l’ebraismo, la Commissione della Santa Sede si sforza di fornire, all’interno della Chiesa cattolica, opportunità di dialogo con l’ebraismo e di collaborare con singole conferenze episcopali, sostenendole nella promozione del dialogo ebraico-cattolico a livello locale. Un buon esempio di ciò è l’introduzione di una "Giornata dell’Ebraismo" in alcuni paesi europei.

13. Nel corso degli ultimi decenni, sia il "dialogo ad extra" che il "dialogo ad intra" hanno portato con crescente chiarezza alla consapevolezza che cristiani ed ebrei sono irreversibilmente interdipendenti gli uni dagli altri e che il loro dialogo, dal punto di vista teologico, non è un’opzione arbitraria, ma un dovere. Ebrei e cristiani possono arricchirsi vicendevolmente nella loro amicizia. Senza le sue radici ebraiche, la Chiesa rischierebbe di perdere il suo ancoraggio nella storia della salvezza, scivolando infine in una gnosi astorica. Papa Francesco osserva che "sebbene alcune convinzioni cristiane siano inaccettabili per l’ebraismo, e la Chiesa non possa rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia, esiste una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure di condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli" ("Evangelii gaudium", n. 249).

2. Lo statuto teologico speciale del dialogo ebraico-cattolico

14. Il dialogo con l’ebraismo è qualcosa di assolutamente speciale per i cristiani, poiché il cristianesimo ha radici ebraiche che determinano l’unicità delle relazioni tra le due tradizioni (cfr."Evangelii gaudium", n. 247). Nonostante la rottura storica ed i dolorosi conflitti che ne sono derivati, la Chiesa rimane consapevole della sua permanente continuità con Israele. L’ebraismo non può essere semplicemente considerato come un’altra religione; gli ebrei sono i nostri "fratelli maggiori" (Santo Papa Giovanni Paolo II), i nostri "padri nella fede" (Benedetto XVI). Gesù era un ebreo, vissuto nella tradizione ebraica del suo tempo e formato in maniera determinante da quell’ambiente religioso (cfr. "Ecclesia in Medio Oriente", n. 20). I primi discepoli radunati intorno a lui avevano lo stesso retaggio e la loro vita quotidiana era segnata dalla stessa tradizione ebraica. Nella sua relazione unica con il Padre celeste, Gesù si concentrò soprattutto sull’annuncio della venuta del Regno di Dio: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). All’interno dell’ebraismo esistevano all’epoca concetti molto diversi sul modo in cui il Regno di Dio si sarebbe realizzato; tuttavia, il messaggio centrale di Gesù sulla venuta del Regno di Dio è in accordo con alcune delle idee ebraiche del tempo. Non si può comprendere l’insegnamento di Gesù e dei suoi discepoli se non lo si situa all’interno dell’orizzonte ebraico e nel contesto della tradizione vivente di Israele; ancora meno lo si può capire se lo si percepisce come contrapposto a tale tradizione. In Gesù, non pochi ebrei del suo tempo hanno visto l’arrivo di un "nuovo Mosè", il Cristo promesso (il Messia). Eppure, la sua venuta ha provocato un dramma le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi. Pienamente e completamente uomo, ebreo del suo tempo, discendente di Abramo, figlio di David, formato dall’intera tradizione di Israele, erede dei profeti, Gesù si pone in continuità con il suo popolo e con la storia del suo popolo. Dall’altro lato, alla luce della fede cristiana, egli stesso è Dio –il Figlio- e trascende il tempo, la storia e ogni realtà terrena. La comunità di coloro che credono in lui confessa la sua divinità (cfr. Fil 2,6-11). In questo senso, egli è percepito in discontinuità con la storia che ha preparato la sua venuta. Dal punto di vista della fede cristiana, egli porta pienamente a compimento la missione e le attese di Israele, ma, al contempo, le supera e le trascende in maniera escatologica. La differenza di fondo tra ebraismo e cristianesimo consiste nel modo in cui si ritiene di dover valutare la figura di Gesù. Gli ebrei possono vedere Gesù come un appartenente al loro popolo, un maestro ebraico che ha sentito di essere chiamato in modo particolare ad annunciare il Regno di Dio. Il fatto però che il Regno di Dio sia venuto con lui quale rappresentante di Dio è al di fuori dell’orizzonte ebraico di attese messianiche. Il conflitto tra Gesù e le autorità ebraiche del tempo non dipendeva in fondo da una trasgressione individuale della legge, ma dalla rivendicazione avanzata da Gesù di agire con autorità divina. Per questo, la figura di Gesù è stata e rimane per gli ebrei una "pietra di scandalo", il punto centrale e nevralgico del dialogo ebraico-cattolico. Da una prospettiva teologica, per la propria auto-comprensione, i cristiani devono far riferimento all’ebraismo dei tempi di Gesù ed in certa misura anche all’ebraismo sviluppatosi da esso nel corso della storia. Date le origini ebraiche di Gesù, è sempre indispensabile per i cristiani il confronto con l’ebraismo. Ma la storia delle relazioni tra ebraismo e cristianesimo è stata caratterizzata anche da una reciproca influenza.

15. Il dialogo tra ebrei e cristiani può essere definito solo per analogia "dialogo interreligioso", ovvero dialogo tra due religioni intrinsecamente separate e differenti. Non si tratta infatti di due religioni aventi natura fondamentalmente diversa, che si sono sviluppate l’una indipendentemente dall’altra senza reciproca influenza. L’humus di ebrei e cristiani è l’ebraismo del tempo di Gesù, che ha dato origine non solo al cristianesimo, ma anche all’ebraismo rabbinico postbiblico successivo alla distruzione del Tempio nel 70 d.C., ebraismo che aveva dovuto fare a meno del culto sacrificale e che si era incentrato esclusivamente, nel suo ulteriore sviluppo, sulla preghiera e sull’interpretazione della rivelazione divina sia scritta che orale. Ebrei e cristiani hanno dunque la stessa origine e possono essere considerati come fratelli che hanno preso, come avviene di solito tra fratelli, strade diverse. Le Scritture dell’antico Israele sono parte integrante delle Scritture sia dell’ebraismo che del cristianesimo, considerate da entrambi come Parola di Dio, Rivelazione, storia della salvezza. I primi cristiani erano ebrei che naturalmente si riunivano, come membri della comunità, nella sinagoga, rispettavano le prescrizioni religiose alimentari, lo Shabbat ed il comandamento della circoncisione, ma al contempo confessavano Gesù come il Cristo, il Messia inviato da Dio per la salvezza di Israele e di tutta l’umanità. Con Paolo, il "movimento ebraico per Gesù" si aprì in maniera definitiva a nuovi orizzonti, travalicando così le sue radici ebraiche. Gradualmente, il suo pensiero si impose, ovvero l’idea che non fosse necessario ad un non-ebreo diventare prima ebreo per confessare Cristo. Nei primi tempi della Chiesa, vi erano dunque i cosiddetti giudeo-cristiani ed i cristiani gentili, la "ecclesia ex circumcisione" e la "ecclesia ex genti bus", una Chiesa di origine giudaica, l’altra di origine pagana, ma che, insieme, costituivano l’una ed unica Chiesa di Gesù Cristo.

16. La separazione della Chiesa dalla Sinagoga non avvenne però bruscamente, ma, sulla base di recenti conoscenze, sembra che si sia protratta fino al terzo o quarto secolo. Ciò significa che molti giudeo-cristiani dei primi tempi non percepivano come contraddittorio vivere conformemente ad alcuni aspetti della tradizione ebraica e confessare Gesù come il Cristo. Soltanto quando i gentili iniziarono a rappresentare la maggioranza e, all’interno della comunità ebraica, la polemica sulla figura di Cristo acquisì contorni più marcati, una separazione definitiva sembrò ormai inevitabile. Col passare del tempo, i due fratelli – ebraismo e cristianesimo – si allontanarono sempre più, crebbe l’inimicizia tra loro e si ricorse anche alla reciproca diffamazione. I cristiani si figuravano spesso gli ebrei come dannati da Dio e ciechi, perché incapaci di riconoscere Gesù quale Messia e Salvatore. Gli ebrei percepivano non di rado i cristiani come eretici che seguivano non il cammino originario indicato da Dio, ma la loro strada. Non senza motivo, negli Atti degli Apostoli, il cristianesimo è chiamato la "dottrina" (cfr. At 9,2; 19,9.23; 24,14.22), in contrasto con la Halachà ebraica che regola l’interpretazione normativa ai fini di una condotta pratica. Con il tempo, ebraismo e cristianesimo si sono estraniati sempre più, arrivando persino ad acerrimi conflitti ed all’accusa reciproca di aver abbandonato il cammino prescritto da Dio.

17. Molti padri della Chiesa favorirono sempre più la cosiddetta teoria della sostituzione (o "supersessionismo") tanto che, nel Medioevo, essa divenne il fondamento teologico generale per le relazioni con l’ebraismo: poiché Israele non aveva riconosciuto Gesù come il Messia e il Figlio di Dio, le promesse e l’impegno di Dio non valevano più per Israele, ma si rivolgevano alla Chiesa di Gesù Cristo che era ora il vero "nuovo Israele", il nuovo popolo eletto da Dio. Nati dallo stesso humus, ebraismo e cristianesimo erano giunti nel corso dei secoli dopo la loro separazione ad un antagonismo teologico che soltanto con il Concilio Vaticano Secondo si sarebbe stemperato. Con la sua Dichiarazione "Nostra aetate" (n. 4), la Chiesa professa inequivocabilmente, all’interno di un nuovo quadro teologico, le radici ebraiche del cristianesimo. Mentre mantiene salda l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in Cristo, essa non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto. Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili ed una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa. Da un rapporto originariamente stretto tra ebraismo e cristianesimo si era sviluppata una lunga relazione di tensioni che, dopo il Concilio Vaticano Secondo, è stata gradualmente trasformata in dialogo costruttivo.

18. Si è tentato spesso di individuare il fondamento della teoria della sostituzione nella Lettera agli Ebrei. Tuttavia, questa epistola non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di origine ebraica, che iniziavano a sentirsi stanchi ed insicuri. Il suo intento è di rafforzare la loro fede e di incoraggiarli nella loro perseveranza, indicando Gesù Cristo come il vero e definitivo sommo sacerdote, il mediatore della Nuova Alleanza. È questo il contesto che occorre tenere a mente per comprendere il contrasto, nella Lettera, tra una prima Alleanza, puramente terrena, ed una seconda Alleanza, nuova (cfr. Eb 9,15; 12,24) e migliore (cfr. 8,7). La prima Alleanza è definita antiquata, già invecchiata e prossima a sparire (cfr. 8,13), mentre la nuova Alleanza è detta eterna (cfr. 13,20). Per giustificare questo contrasto, l’epistola si riferisce alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia 31,31-34 (cfr. Eb 8,8-12). Ciò mostra che la Lettera agli Ebrei non intende provare la falsità delle promesse dell’Antica Alleanza, ma, al contrario, la loro fondatezza. Il riferimento alle promesse veterotestamentarie vuole essere d’aiuto ai cristiani, rendendoli sicuri della salvezza in Cristo. Il punto cruciale della Lettera agli Ebrei non è dunque la contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza così come la intendiamo oggi, e neanche il contrasto tra Chiesa ed ebraismo. Piuttosto, la contrapposizione è tra il sacerdozio eterno celeste di Cristo ed il sacerdozio provvisorio terreno. Il tema centrale nella Lettera agli Ebrei, davanti alla nuova situazione creatasi, è l’interpretazione cristologica della Nuova Alleanza. E questo è precisamente il motivo per cui "Nostra aetate" (n. 4) non ha fatto riferimento alla Lettera agli Ebrei, ma alle riflessioni di San Paolo nella Lettera ai Romani 9-11.

19. Ad un osservatore esterno, la Dichiarazione conciliare "Nostra aetate" potrebbe dare l’impressione che il testo si occupi delle relazioni tra la Chiesa cattolica e tutte le religioni mondiali in modo paritario. Ma la storia di come è nata la Dichiarazione ed il testo stesso mostrano che non è così. Originariamente, il Santo Papa Giovanni XXIII aveva suggerito che il Concilio promulgasse unTractatus de Iudaeis, ma alla fine prevalse la decisione di prendere in considerazione, in "Nostra aetate", tutte le religioni mondiali. Il fulcro della Dichiarazione conciliare, che fa spazio appunto anche alla relazione tra la Chiesa cattolica e le altre religioni, è comunque il suo quarto articolo, che s’incentra sulla nuova relazione teologica con l’ebraismo. In tal senso, la relazione con l’ebraismo può essere considerata come il catalizzatore per definire il rapporto della Chiesa cattolica con le altre religioni mondiali.

20. Tuttavia, rispetto alle altre religioni mondiali, il dialogo con l’ebraismo, da un punto di vista teologico, ha un carattere completamente diverso e si situa ad un altro livello. La fede degli ebrei testimoniata nella Bibbia, fede che si ritrova nell’Antico Testamento, non è per i cristiani un’altra religione, ma è il fondamento della loro stessa fede, sebbene la figura di Gesù sia chiaramente l’unica chiave di interpretazione cristiana delle Scritture dell’Antico Testamento. La pietra d’angolo della fede cristiana è Gesù (cfr. At 4,11; 1 Pt 2,4-8). Il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico; il cristianesimo, date le sue radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito "dialogo interreligioso" in senso stretto; si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di "dialogo intra-religioso" o "intra-familiare" sui generis. Nel discorso pronunciato presso la Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986, il Santo Papa Giovanni Paolo II ha difatti descritto questa situazione con le seguenti parole: "La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori."

3. La rivelazione nella storia come "Parola di Dio" nell’ebraismo e nel cristianesimo

21. Nell’Antico Testamento ci viene presentato il piano salvifico di Dio per il suo popolo (cfr. "Dei verbum", n. 14). Questo piano salvifico è espresso chiaramente all’inizio della storia biblica, nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12 ss). Per rivelare se stesso e per parlare all’umanità, redimendola dal peccato e radunandola come un unico popolo, Dio ha iniziato con lo scegliere il popolo di Israele attraverso Abramo, separandolo dagli altri popoli. A questo popolo Dio si è rivelato poco a poco per mezzo dei suoi inviati, dei suoi profeti, come il vero Dio, l’unico Dio, il Dio vivente, il Dio redentore. L’elezione divina è un aspetto costitutivo del popolo di Israele. Soltanto dopo il primo grande intervento del Dio redentore, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Es 13,17 ss) e la stipula dell’Alleanza sul Sinai (cfr. Es 19 ss), le dodici tribù sono diventate una vera e propria nazione ed hanno acquisito la consapevolezza di essere il popolo di Dio, coloro ai quali erano stati trasmessi il messaggio di Dio e le sue promesse, i testimoni della benevolenza misericordiosa di Dio nel mezzo delle nazioni ed anche per il bene delle nazioni (cfr. Is 26,1-9; 54; 60; 62). Per istruire il suo popolo su come adempiere la sua missione e su come trasmettere la rivelazione affidatagli, Dio ha dato ad Israele la legge che definisce come deve vivere (cfr. Es 20; Dt 5) e che lo distingue dagli altri popoli.

22. Come la Chiesa stessa anche ai giorni nostri, Israele trasporta il tesoro della sua elezione in fragili vasi. La relazione di Israele con il suo Signore è la storia della sua fedeltà e della sua infedeltà. Per compiere la sua opera redentrice, nonostante la piccolezza e la fragilità degli strumenti da lui scelti, Dio ha manifestato la sua misericordia e la grazia dei suoi doni, così come la fedeltà alle sue promesse che nessuna infedeltà umana può annullare (cfr. Rm 3,3; 2 Tm 2,13). In ogni tappa del cammino del suo popolo, Dio si è scelto almeno un "piccolo numero" (cfr. Dt 4,27), un "resto" (cfr. Is 1,9; Sof 3,12; cfr. anche Is 6,13; 17,5-6), un’esigua comunità di fedeli che "non hanno piegato le ginocchia a Baal" (cfr. 1 Re 19,18). Attraverso questo resto, Dio ha realizzato il suo piano salvifico. Oggetto costante della sua elezione e del suo amore è sempre rimasto il suo popolo, perché attraverso di esso –come obiettivo finale- tutta l’umanità viene riunita e condotta a Dio.

23. La Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. "Nostra aetate", n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. La Chiesa è stata "mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza" ("Lumen gentium", n. 2). La Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio: "E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura" ("Nostra aetate", n. 4).

24. Dio si è rivelato nella sua Parola, così che può essere compreso dall’umanità in situazioni storiche concrete. Questa Parola invita tutti gli uomini a rispondere. Se la loro risposta è in accordo con la Parola di Dio, il loro rapporto con Dio è giusto. Per gli ebrei, questa Parola può essere imparata attraverso la Torah e la tradizione basata su di essa. La Torah è l’insegnamento per condurre una vita riuscita nella giusta relazione con Dio. Chi osserva la Torah ha la vita nella sua pienezza (cfr. Pirqe Avot II, 7). Osservando la Torah, l’ebreo prende parte alla comunione con Dio. Al riguardo, Papa Francesco ha affermato: "Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fattasi carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah." (Discorso ai membri dell’ International Council of Christians and Jews, 30 giugno 2015).

25. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio, sebbene spetti all’intervento divino determinare in che modo egli intenda salvare gli uomini in ciascuna circostanza. Il fatto che la volontà salvifica di Dio sia rivolta a tutta l’umanità è testimoniato dalle Scritture (cfr. Gen 12,1-3; Is 2,2-5; 1 Tm 2,4). Pertanto, non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto "Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo". La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini. La Parola di Dio è una realtà unica e indivisa che assume una forma concreta nel contesto storico di ciascuno.

26. In questo senso, i cristiani affermano che Gesù Cristo può essere considerato come la "Torah vivente di Dio". Torah e Cristo sono Parola di Dio, rivelazione di Dio per noi uomini quale testimonianza del suo amore sconfinato. Per i cristiani, la preesistenza di Cristo come Parola e come Figlio del Padre è un’affermazione dottrinale fondamentale; secondo la tradizione rabbinica, la Torah ed il nome del Messia esistono già prima della creazione (cfr. Genesi Rabbah 1,1). Inoltre, nella visione ebraica, Dio stesso interpreta la Torah nell’Eschaton, mentre, secondo il pensiero cristiano, tutto è ricapitolato in Cristo alla fine dei tempi (cfr. Ef 1,10; Col 1,20). Nel Vangelo di Matteo, Cristo è presentato come il "nuovo Mosè". Matteo 5,17-19 mostra Gesù come l’interprete autorevole ed autentico della Torah (cfr. Lc 24,27. 45-47). Nella letteratura rabbinica troviamo invece l’identificazione della Torah con Mosè. In questo contesto, Cristo quale "nuovo Mosè" può essere collegato alla Torah. La Torah e Cristo sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico dabarsignifica sia parola che evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.

4. La relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza

27. L’Alleanza offerta da Dio a Israele è irrevocabile. "Dio non è un uomo da potersi smentire" (Nm 23,19; cfr. 2 Tm 2,13). La permanente fedeltà elettiva di Dio espressa nelle alleanze precedenti non è mai stata ripudiata (cfr. Rm 9,4; 11,1-2). La Nuova Alleanza non revoca le precedenti alleanze, ma le porta a compimento. Attraverso l’evento di Cristo, i cristiani hanno compreso che tutto ciò che era avvenuto nel passato doveva essere interpretato in maniera nuova. Per i cristiani, la Nuova Alleanza ha una qualità tutta sua, anche se la caratteristica di ciascuna alleanza è quella di vivere una relazione specifica con Dio (cfr. la formula dell’alleanza in Lv 26,12, "sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo"). Per i cristiani, la Nuova Alleanza in Cristo è il punto culminante delle promesse di salvezza dell’Antica Alleanza ed, in tale misura, non è mai indipendente da essa. La Nuova Alleanza ha per base e fondamento l’Antica, poiché è il Dio di Israele che stringe l’Antica Alleanza con il popolo di Israele e rende possibile la Nuova Alleanza in Gesù Cristo. Gesù vive al tempo dell’Antica Alleanza, ma con la sua opera salvifica nella Nuova Alleanza conferma e perfeziona le dimensioni dell’Antica. Il termine Alleanza indica una relazione con Dio che si realizza in modo diverso per ebrei e cristiani. La Nuova Alleanza non può mai sostituire l’Antica, ma la presuppone e le conferisce una nuova dimensione di senso, rafforzando quella natura personale di Dio che è stata rivelata nell’Antica Alleanza e definendo tale natura come apertura a tutti coloro che risponderanno fedelmente tra tutte le nazioni (cfr. Zc 8,20-23; Sal 87).

28. Unità e differenze tra ebraismo e cristianesimo sono apparse in primo piano innanzitutto con la testimonianza della rivelazione divina. Per il fatto che l’Antico Testamento è parte integrante dell’unica Bibbia cristiana, vi è un senso di appartenenza profondamente radicato ed un intrinseco legame tra ebraismo e cristianesimo. Il cristianesimo affonda le sue radici nell’Antico Testamento e da tali radici trae continuamente nutrimento. Ma il cristianesimo si fonda sulla persona di Gesù di Nazareth, che è riconosciuto come il Messia promesso al popolo ebraico e come l’unigenito Figlio di Dio e che, dopo la sua morte in croce e la sua risurrezione, ha comunicato se stesso per mezzo dello Spirito Santo. Con l’esistenza del Nuovo Testamento, molto presto si è posta la domanda di capire come i due Testamenti si rapportano l’uno all’altro e se ad esempio gli scritti neotestamentari non abbiano superato tutti gli scritti più antichi, annullandone la validità. Questa era la posizione sostenuta nel secondo secolo da Marcione, il quale affermò che il Nuovo Testamento aveva reso obsoleto il libro di promesse dell’Antico Testamento, destinato a svanire nello splendore del Nuovo, proprio come la luce della luna è resa superflua dal sorgere del sole. Questa marcata antitesi tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana non è mai diventata dottrina ufficiale della Chiesa cristiana. Escludendo Marcione dalla comunità cristiana nel 144, la Chiesa ha respinto il suo concetto di una Bibbia unicamente "cristiana" depurata da tutti gli elementi veterotestamentari, ha testimoniato la propria fede nell’unico Dio, autore di entrambi i Testamenti, e, così facendo, è rimasta fedele all’unità dei due Testamenti, alla "concordia testamentorum".

29. Questa, naturalmente, è soltanto una faccia del rapporto tra i due Testamenti. Il patrimonio comune dell’Antico Testamento non ha solo costituito la base fondamentale del legame spirituale tra ebrei e cristiani, ma ha anche comportato una tensione di fondo nelle relazioni tra le due tradizioni di fede. Questo traspare dal fatto che i cristiani leggono l’Antico Testamento alla luce del Nuovo, nella convinzione dichiarata da Agostino nella sua pregnante formula: "L’Antico Testamento si mostra nel Nuovo, mentre il Nuovo è nascosto nell’Antico" (Quaestiones in Heptateuchum 2,73). Papa Gregorio Magno si espresse in maniera analoga quando definì l’Antico Testamento "profezia del Nuovo" ed il Nuovo "il migliore commento all’Antico" (Homiliae in Ezechielem I, VI, 15; cfr. "Dei verbum", n. 16).

30. Questa esegesi cristologica può facilmente dare l’impressione che i cristiani considerino il Nuovo Testamento non solo come compimento dell’Antico, ma anche come sua sostituzione. Per capire l’infondatezza di tale impressione basti pensare al fatto che anche l’ebraismo, dopo la catastrofe della distruzione del secondo Tempio nell’anno 70, si vide costretto ad adottare una nuova lettura delle Scritture. Poiché i sadducei, che erano legati al Tempio, non sopravvissero a tale catastrofe, i rabbini, sulla scia dei farisei che avevano già sviluppato il loro modo particolare di leggere ed interpretare le Scritture, portarono avanti questa attività esegetica, senza più il Tempio quale centro del culto ebraico.

31. Di conseguenza, si profilarono due risposte a questa situazione o, per meglio dire, due nuovi modi di leggere le Scritture, ovvero l’esegesi cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella forma di ebraismo che ebbe uno sviluppo storico. Poiché ciascuna modalità comportava una nuova interpretazione delle Scritture, la questione cruciale consiste ora nel comprendere precisamente come queste due modalità si rapportano l’una all’altra. Tuttavia, dato che la Chiesa cristiana e l’ebraismo rabbinico post-biblico si svilupparono in parallelo, ma anche in una reciproca opposizione ed ignoranza, non è possibile trovare una risposta a questa domanda basandosi soltanto sul Nuovo Testamento. Dopo secoli di contrapposizioni, il dovere del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far interloquire tra loro questi due nuovi modi di leggere le Scritture bibliche, per individuare la "ricca complementarietà" laddove esiste ed "aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola" ("Evangelii gaudium", n. 249). Pertanto, il documento della Pontificia Commissione Biblica del 2001, "Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana", afferma che i cristiani possono e devono ammettere che "la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dall’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra" (n. 22).

32. Poiché entrambe le letture sono al servizio di una giusta comprensione della volontà e della Parola di Dio, è evidente quanto sia importante essere consapevoli che la fede cristiana è radicata nella fede di Abramo. Ciò solleva l’ulteriore questione di capire come si rapportano tra loro Antica e Nuova Alleanza. Per la fede cristiana è inconfutabile che possa esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza tra Dio e l’umanità. L’alleanza con Abramo, il cui segno è la circoncisione (cfr. Gen 17), e la seconda alleanza con Mosè ristretta ad Israele, che vincola all’obbedienza di fronte alla Legge (cfr. Es 19,5; 24,7-8) ed in particolare all’osservanza dello Shabbat (cfr. Es 31,16-17), sono state estese all’intera creazione (cfr. Gen 9,9 ss) nell’alleanza con Noè, il cui segno è l’arcobaleno (cfr. "Verbum Domini", n. 117). Attraverso i profeti poi, Dio propone una nuova ed eterna alleanza (cfr. Is 55,3; 61,8; Ger 31,31-34; Ez 36,22-28). Ciascuna di queste alleanze incorpora la precedente e la interpreta in maniera nuova. Questo vale anche per la Nuova Alleanza, che per i cristiani è l’alleanza eterna conclusiva e dunque l’interpretazione definitiva di ciò che era stato promesso ai profeti dell’Antico Testamento o, come dice Paolo, il "sì" e l’ "Amen" a "tutte le promesse di Dio" (2 Cor 1,20). La Chiesa, quale rinnovato popolo di Dio, è stata eletta da Dio incondizionatamente. La Chiesa è il luogo definitivo e insuperabile dell’azione salvifica di Dio. Ciò non significa che Israele, quale popolo di Dio, sia stato ripudiato o abbia perso la sua missione (cfr. "Nostra aetate", n. 4). La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza.

33. Per il dialogo ebraico-cristiano, si rivela costitutiva soprattutto l’alleanza di Dio con Abramo, poiché egli non è solo il padre di Israele, ma è anche il padre della fede dei cristiani. In questa comunione di alleanza, deve essere chiaro per i cristiani che l’alleanza stretta da Dio con Israele, in virtù dell’incrollabile fedeltà di Dio al suo popolo, non è mai stata revocata e rimane valida; di conseguenza, la Nuova Alleanza in cui credono i cristiani può essere intesa solo come conferma e compimento dell’Antica. I cristiani sono anche convinti che, attraverso la Nuova Alleanza, l’alleanza abramitica abbia acquisito quell’universalità rivolta a tutti i popoli, che era originariamente sottesa nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12,1-3). Per la fede cristiana, questo riferimento all’alleanza abramitica è un aspetto talmente costitutivo che, senza Israele, la Chiesa rischierebbe di perdere la sua collocazione nella storia della salvezza. Dal canto loro, sempre per quanto riguarda l’alleanza abramitica, gli ebrei potrebbero arrivare alla conclusione che, senza la Chiesa, Israele correrebbe il rischio di rimanere troppo particolarista e di non comprendere a sufficienza l’universalità della sua esperienza di Dio. In questo senso fondamentale, Israele e la Chiesa, conformemente all’alleanza, restano strettamente legati ed interdipendenti.

34. Che possa esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza di Dio con l’umanità e che, di conseguenza, Israele sia il popolo eletto e amato da Dio, il popolo dell’alleanza, che non è mai stata sostituita o revocata (cfr. Rm 9,4; 11,29), è la convinzione alla base dell’appassionato sforzo dell’Apostolo Paolo di conciliare, da un lato, il fatto che l’Antica Alleanza di Dio continua ad essere valida e, dall’altro, il fatto che Israele non ha accolto la Nuova Alleanza. Per rendere giustizia a entrambi, Paolo ha ideato l’immagine eloquente della radice di Israele nella quale sono stati innestati i rami selvatici dei gentili (cfr. Rm 11,16-21). Si potrebbe dire che Gesù Cristo porta in sé la radice vivente dell’ "oleastro" e che, in un senso ancora più profondo, l’intera promessa è in lui radicata (cfr. Gv 8,58). Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa immagine, Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza tra Israele e la Chiesa. Da un lato, questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera salvifica di Dio, tanto che la Chiesa cristiana non può essere semplicemente intesa come un ramo o un frutto di Israele (cfr. Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine deve essere compresa anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di Israele ed i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero recisi da tale radice (cfr. "Ecclesia in Medio Oriente", n. 21).

5. L’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’alleanza mai revocata di Dio con Israele

35. Poiché Dio non ha mai revocato la sua alleanza con il suo popolo Israele, non possono esserci vie o approcci diversi alla salvezza di Dio. La teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesù di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana. Confessare la mediazione salvifica universale e dunque anche esclusiva di Gesù Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana tanto quanto confessare il Dio uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi in Gesù Cristo, si è manifestato pienamente come il Dio di tutti i popoli, nella misura in cui in Cristo si è compiuta la promessa che tutti i popoli pregheranno il Dio di Israele come l’unico Dio (cfr. Is 56,1-8). Nel documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede "Circa una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica" si afferma dunque che la Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come "due vie parallele di salvezza" e che la Chiesa deve "testimoniare il Cristo Redentore a tutti" (n. I,7). La fede cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesù Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è "altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,12).

36. Dalla confessione cristiana di un’unica via di salvezza non consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio perché non credono in Gesù Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio. Tale affermazione non troverebbe fondamento nella visione soteriologica di San Paolo, il quale, nella Lettera ai Romani, esprime la sua convinzione non soltanto che non può esserci una rottura nella storia della salvezza, ma anche che la salvezza viene dagli ebrei (cfr. anche Gv 4,22). Dio ha affidato a Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo misterioso piano di salvezza rivolto a tutti i popoli (cfr. 1 Tm 2,4) senza coinvolgere il suo "figlio primogenito" (Es 4,22). Vediamo dunque chiaramente che Paolo, nella Lettera ai Romani, risponde in maniera negativa e determinata alla domanda che lui stesso si è posto, ovvero se Dio abbia ripudiato il suo popolo. In maniera altrettanto decisa afferma: "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!" (Rm 11,29). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. Non è dunque un caso che le riflessioni soteriologiche di Paolo in Romani 9-11 circa la salvezza definitiva degli ebrei sullo sfondo del mistero di Cristo culminino in una magnifica dossologia: "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rm 11,33). Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice che per gli ebrei "è stato fissato un tempo che non può essere anticipato".

37. Un altro punto focale per i cattolici deve continuare ad essere l’assai complessa questione teologica di come conciliare in maniera coerente la fede cristiana nel ruolo salvifico universale di Gesù Cristo con la convinzione di fede altrettanto chiara che afferma l’esistenza di un’alleanza mai revocata di Dio con Israele. La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili. Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti, "in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e ‘lo serviranno sotto uno stesso giogo’" ("Nostra aetate", n. 4).

38. La Dichiarazione sull’ebraismo del Concilio Vaticano Secondo, ovvero il quarto articolo di "Nostra aetate", si situa in un quadro decisamente teologico per quanto riguarda l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’Alleanza irrevocata di Dio con Israele. Ciò non significa che nel testo siano state risolte tutte le questioni teologiche sorte nelle relazioni tra cristianesimo ed ebraismo. Tali questioni sono state inserite nella Dichiarazione, ma richiedono un’ulteriore riflessione teologica. Naturalmente esistono testi precedenti del Magistero sull’ebraismo, ma "Nostra aetate" (n. 4) presenta la prima panoramica teologica sulle relazioni della Chiesa cattolica con gli ebrei.

39. A motivo della grande svolta teologica apportata, il testo conciliare non di rado è stato sovra-interpretato e vi sono stati letti aspetti che esso in realtà non contiene. Un esempio importante di sovra-interpretazione è la seguente affermazione: che l’alleanza stretta da Dio con il suo popolo Israele è sempre in vigore e non sarà mai invalidata. Per quanto vera sia tale affermazione, questa non si trova esplicitamente espressa in "Nostra aetate" (n. 4). Essa è stata invece espressa per la prima volta con assoluta chiarezza dal Santo Papa Giovanni Paolo II, quando ha osservato, durante un incontro con i rappresentanti della comunità ebraica di Magonza, il 17 novembre 1980, che l’Antica Alleanza non è mai stata revocata da Dio: "La prima dimensione di questo dialogo, cioè l’incontro tra il popolo di Dio del Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato […], e quello del Nuovo Testamento, è allo stesso tempo un dialogo all’interno della nostra Chiesa, per così dire tra la prima e la seconda parte della sua Bibbia" (n. 3). La stessa convinzione è affermata anche nel Catechismo della Chiesa del 1993: "l’Antica Alleanza non è mai stata revocata" (121).

6. Il mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione all’ebraismo

40. È facile capire che la cosiddetta "missione rivolta agli ebrei" è una questione molto spinosa e sensibile per gli ebrei, poiché, ai loro occhi, riguarda l’esistenza stessa del popolo ebraico. Anche per i cristiani è un tema delicato, poiché considerano di fondamentale importanza il ruolo salvifico universale di Gesù Cristo e la conseguente missione universale della Chiesa. La Chiesa deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto -per principio- di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah.

41. Il concetto di missione deve essere presentato correttamente nel dialogo tra ebrei e cristiani. La missione cristiana trae origine dall’invio di Gesù da parte del Padre. Gesù rende i discepoli partecipi di tale chiamata riguardo al popolo di Dio, Israele (cfr. Mt 10,6), e poi anche, come Signore Risorto, in relazione a tutte le nazioni (cfr. Mt 28,19). Così il popolo di Dio assume una nuova dimensione per mezzo di Gesù, che istituisce la sua Chiesa chiamando sia ebrei che gentili (cfr. Ef 2,11-22), sulla base della fede in lui, il Cristo, attraverso il battesimo, ovvero attraverso l’incorporamento nel suo Corpo, che è la Chiesa ("Lumen gentium", n. 14).

42. La missione cristiana e la testimonianza cristiana, sia nella vita che nell’evangelizzazione, sono inseparabili. Il principio che Gesù trasmette ai suoi discepoli quando li invia in missione è subire la violenza piuttosto che infliggerla. I cristiani devono riporre la loro fiducia in Dio, che compirà il suo piano universale di salvezza in modi noti soltanto a lui; essi sono infatti testimoni di Cristo, ma non sono loro a dover attuare la salvezza dell’umanità. Lo zelo per la "casa del Signore" e la solida fiducia nel successo dell’azione divina non possono essere scissi. La missione cristiana significa che tutti i cristiani, nella comunione della Chiesa, confessano e proclamano il compimento, nella storia, della volontà salvifica universale di Dio in Gesù Cristo (cfr. "Ad gentes", n. 7). I cristiani sperimentano la presenza sacramentale di Cristo nella liturgia e la rendono tangibile nel servizio agli altri, specialmente ai bisognosi.

43. È e rimane un tratto qualitativo della Chiesa della Nuova Alleanza il fatto che essa sia composta da ebrei e gentili, anche se il rapporto quantitativo tra giudeo-cristiani e gentili può dare a prima vista un’altra impressione. Come dopo la morte e risurrezione di Gesù Cristo non esistevano due Alleanze tra loro non correlate, così il "popolo dell’Alleanza di Israele" non è scollegato dal "popolo di Dio composto dai gentili". Piuttosto, il ruolo permanente del "popolo dell’Alleanza di Israele" nel piano salvifico di Dio deve essere rapportato in maniera dinamica al "popolo di Dio composto da ebrei e gentili uniti in Cristo", in Colui che la Chiesa confessa quale mediatore universale della creazione e della salvezza. Nel contesto della volontà salvifica universale di Dio, tutti coloro che non hanno ancora ricevuto il Vangelo sono posti sullo stesso piano del popolo di Dio della Nuova Alleanza: "In primo luogo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29)" ("Lumen gentium", n. 16).

7. Gli obiettivi del dialogo con l’ebraismo

44. Il primo obiettivo del dialogo è l’approfondimento della conoscenza reciproca tra ebrei e cristiani. Si può amare soltanto ciò che si è imparato gradualmente a conoscere e si può conoscere realmente e profondamente soltanto ciò che si ama. Questa conoscenza approfondita si accompagna sempre ad un mutuo arricchimento, nel quale i partners di dialogo diventano i destinatari dei rispettivi doni. La Dichiarazione conciliare "Nostra aetate" (n. 4) parla del ricco patrimonio spirituale che dovrebbe essere ulteriormente scoperto passo dopo passo attraverso studi biblici e teologici e mediante il dialogo. In tal senso, da un punto di vista cristiano, un importante obiettivo è quello di riportare alla luce le ricchezze spirituali custodite nell’ebraismo per i cristiani. Al riguardo, va menzionata soprattutto l’interpretazione delle Sacre Scritture. Nella prefazione dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger al documento del 2001 della Pontificia Commissione Biblica, "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana", si mette in evidenza il rispetto dei cristiani per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento. E si sottolinea: "i cristiani possono imparare molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi cristiana." Nel campo dell’esegesi, molti studiosi ebraici e cristiani adesso collaborano e trovano la loro collaborazione fruttuosa per entrambi, proprio perché appartengono a tradizioni religiose diverse.

45. Questa acquisizione di conoscenza reciproca non deve limitarsi agli specialisti. È importante che gli istituti di istruzione cattolici, in particolare nel campo della formazione dei sacerdoti, includano nei loro curricula sia "Nostra aetate" che i documenti successivi della Santa Sede sull’attuazione della Dichiarazione conciliare. La Chiesa è altrettanto riconoscente per gli sforzi compiuti nella stessa direzione all’interno della comunità ebraica. I cambiamenti fondamentali nelle relazioni tra cristiani ed ebrei introdotti da "Nostra aetate" (n. 4) devono essere resi noti anche alle generazioni future e da loro accolti e divulgati.

46. Un importante obiettivo del dialogo ebraico-cristiano consiste indubbiamente nell’impegno comune a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in tutto il mondo. È possibile che nel passato diverse religioni, sulla base di una rivendicazione di verità intesa in maniera ristretta e di una intolleranza ad essa conseguente, abbiano contribuito a fomentare conflitti e scontri. Oggi, tuttavia, le religioni non dovrebbero essere parte del problema, ma parte della soluzione al problema. Soltanto quando le religioni dialogano con successo le une con le altre, contribuendo in tal modo alla pace mondiale, questa pace può essere realizzata anche a livello sociale e politico. Prerequisito di tale dialogo e di tale pace è la libertà di religione garantita dalle autorità civili. Al riguardo, il banco di prova consiste nel modo in cui le minoranze religiose sono trattate e in quali diritti vengono loro concessi. Nel dialogo ebraico-cristiano, di grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato di Israele, poiché là –come in nessun altro luogo al mondo- una minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in Terra Santa –una pace che manca e per la quale si prega costantemente- svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cristiani.

47. Un altro importante obiettivo nel dialogo ebraico-cattolico consiste nella lotta comune contro ogni manifestazione di discriminazione razziale verso gli ebrei e contro ogni forma di antisemitismo, il quale certamente non è ancora stato sradicato e riaffiora in modi diversi in vari contesti. La storia ci insegna dove possono condurre perfino quelle forme di antisemitismo all’inizio appena sottintese: alla tragedia umana della Shoah, in cui due terzi degli ebrei europei sono stati annientati. Entrambe le tradizioni di fede sono chiamate, insieme, a mantenere sempre sveglie vigilanza e sensibilità, anche nell’ambito sociale. Per lo stretto legame di amicizia che unisce ebrei e cattolici, la Chiesa cattolica si sente particolarmente in dovere di fare quanto è in suo potere, insieme ai nostri amici ebrei, per respingere le tendenze antisemite. Papa Francesco ha più volte sottolineato che un cristiano non può mai essere un antisemita, soprattutto a motivo delle radici ebraiche del cristianesimo.

48. Giustizia e pace non dovrebbero comunque essere concetti astratti nel dialogo, ma dovrebbero concretizzarsi in modo tangibile. La sfera sociale-umanitaria offre un ricco campo di attività, poiché sia l’etica ebraica che l’etica cristiana comprendono l’imperativo di assistere i poveri, i deboli e i malati. Ad esempio, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede ed il Jewish Committee on Interreligious Consultations (IJCIC) hanno lavorato insieme nel 2004 in Argentina nel periodo in cui il paese era attraversato dalla crisi finanziaria, per organizzare mense popolari comuni per i poveri e i senzatetto e per permettere ai bambini privi di mezzi di sussistenza di frequentare la scuola, offrendo loro i pasti. La maggior parte delle Chiese cristiane hanno grandi organizzazioni umanitarie, simili a quelle esistenti all’interno dell’ebraismo; esse potrebbero dunque collaborare per alleviare la miseria umana. L’ebraismo insegna che il comandamento di camminare in tutte le vie del Signore (cfr. Dt 11,22) richiede l’imitazione degli Attributi Divini ("imitatio Dei") attraverso la cura rivolta alle persone vulnerabili, bisognose e sofferenti (Talmud di Babilonia, Sotah 14a). Questo principio è in linea con l’insegnamento di Gesù sulla necessità di assistere i bisognosi (cfr. ad es. Mt 25,35-46). Ebrei e cristiani non possono semplicemente accettare la povertà e la sofferenza umana; devono piuttosto impegnarsi attivamente per il superamento di tali problemi.

49. Quando ebrei e cristiani, attraverso un’assistenza umanitaria concreta, apportano insieme il loro contributo alla giustizia ed alla pace nel mondo, offrono testimonianza dell’amorevole premura di Dio. Non più in discordante contrapposizione, ma cooperando a fianco gli uni degli altri, ebrei e cristiani dovrebbero adoperarsi per un mondo migliore. Ad una simile collaborazione ha invitato il Santo Papa Giovanni Paolo II nel discorso pronunciato il 17 novembre 1980 davanti ai membri del Consiglio centrale degli ebrei in Germania e della Conferenza dei rabbini di Magonza: "Giudei e cristiani, quali figli di Abramo, sono chiamati ad essere benedizione per il mondo […], in quanto si impegnano insieme per la pace e la giustizia tra tutti gli uomini e i popoli, e lo fanno in pienezza e profondità, come Dio stesso le ha pensate per noi, e con la disponibilità ai sacrifici, che questo alto intento può esigere".

10 dicembre 2015
Cardinale Kurt Koch 
Presidente
S.E. Mons. Brian Farrell 
Vice-Presidente
P. Norbert J. Hofmann, SDB 
Segretario