NON DESIDERARE (Esodo 20,1.17)
I° commento (voce ebraica)Rav GIUSEPPE MOMIGLIANO
Presidente
dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia
I Dieci Comandamenti, secondo alcune interpretazioni, racchiudono in forma sintetica tutti i 613 precetti biblici, esemplificando anche in modo chiaro come essi si applichino ad ogni espressione della vita, richiedendo un impegno globale della persona, nell’azione, nella parola e nel pensiero.
Il 10° Comandamento rappresenta quindi, nell’ambito della seconda parte del Decalogo contente i precetti rivolti ai rapporti tra gli uomini, il campo del pensiero, completando in un progressivo ampliamento di orizzonte la responsabilità che abbiamo di non nuocere in alcun modo al prossimo, non solo con le azioni – divieto di omicidio, furto, rapimento e adulterio – e con la parola – proibizione di dare falsa testimonianza – ma neppure con il pensiero, con i sentimenti di invidia verso ciò che appartiene ad altri e col desiderio di entrarne in possesso.
Questo Comandamento presenta alcune varianti nelle due versioni del Decalogo, quella del Libro dell’Esodo e quella del Deuteronomio:
SHEMOT (ESODO) 20,17
«Non desiderare (lo tachmod) la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo»;DEVARIM (DEUTERONOMIO) 5,18
«E non desiderare la moglie del tuo prossimo e non concupire (welò tittawweh) la casa del tuo prossimo né il suo campo né il suo servo né la sua serva né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
La differenza nell’ordine di presentazione dei diversi oggetti proibiti del desiderio, in particolare il fatto che nell’Esodo sia ricordata prima la casa mentre nel Deuteronomio si dia la precedenza alla donna sposata, viene spiegata da Izhak Abravanel – rabbino e importante esponente della comunità ebraica sefardita, esule dalla Spagna con la cacciata degli ebrei nel 1492 – con il fatto che il testo dell’Esodo si riferisce all’ordine dei beni che l’uomo tende a ricercare quando progetta la propria vita, dando quindi la priorità agli elementi indispensabili come la casa; secondo un’altra interpretazione il testo dell’Esodo si esprime secondo il principio «affermazione generale seguita dal particolare», cioè la casa rappresenta un termine onnicomprensivo, per indicare tutta la sfera della vita privata di una persona, che non deve essere in alcun modo oggetto di invidia e desiderio da parte di estranei, segue il dettaglio a cominciare dall’elemento più importante, la moglie. Il Deuteronomio enumera invece gli oggetti proibiti in base alla gravità dell’azione che ne consegue, per cui il desiderio della donna sposata, con la possibile conseguenza di un adulterio, è codificato come l’azione da proibire in assoluta prima istanza.
Troviamo invece diverse opinioni discordi, sia tra gli esegeti della Torah che tra i codificatori dei precetti, per quanto riguarda l’interpretazione delle due espressioni lo tachmod e lo tittawweh, che esprimono la proibizione del desiderio; alcuni, tra cui in particolare l’esegeta per eccellenza – Rashì (rabbi Shelomo ben Izhak) – sono propensi ad intendere nelle due espressioni lo tachmod e lo tittawweh un medesimo significato. Diverse altre fonti esegetiche colgono invece le differenze tra i due termini, sia rispetto al significato semantico che all’applicazione del Comandamento. Un antico testo rabbinico, la Mekhiltà di Rabbì Sim’on bar Yochay, un testo di midrash normativo e narrativo dei primi secoli dell’e.v. attribuito da alcuni allo stesso Maestro di cui porta il nome, secondo altri riferibile invece alla scuola di Rabbì Akivà, interpreta il Comandamento «lo tittawweh» come proibizione di coltivare il desiderio di cose appartenenti ad altri, mentre «lo tachmod» è interpretato come divieto di fare progetti per entrare in possesso di tali beni; un’altra raccolta di midrashim, la Mekhiltà di Rabbi Ishmael, definisce solo il divieto «lo tachmod» come relativo ad un desiderio che si traduce in azione. Maimonide nel Sefer Hamizwot (Il Libro dei Comandamenti) codifica le due proibizioni come altrettanti precetti negativi (divieti): «Precetto 265°, è la proibizione che ci è stata fatta di occupare i nostri pensieri con espedienti tesi ad acquisire beni di proprietà altrui, questo precetto è espresso dal detto dell’Eccelso “lo tachmod – Non desiderare la casa del tuo prossimo”(Esodo 20,17)... Questo divieto proibisce di mettere in atto espedienti volti ad ottenere qualcosa che desideriamo e che appartiene ad altri, anche se lo si acquista ad alto prezzo». «Precetto 266° è la proibizione che ci è stata fatta di concentrare i nostri pensieri nel desiderio di beni altrui e nel concupirli, perché questo porterebbe a mettere in atto gli espedienti per acquisirli, è questo un precetto negativo che scaturisce dall’espressione “lo tittawweh – Non concupire la casa del tuo prossimo”». Nel codice Mishneh Torah - Hilkhot ghezela waavedah (Norme sul furto e oggetti smarriti 1,11) lo stesso Maimonide specifica il legame tra i due divieti: «La concupiscenza – taawah – induce a progettare stratagemmi per appagare il desiderio – chimmud – e questo può condurre al furto, nel caso il proprietario non sia disposto a vendere il bene concupito malgrado l’offerta di denaro che riceve, se poi il proprietario cerca di difendere ciò che gli appartiene, la vicenda può giungere fino allo spargimento di sangue, considera bene l’episodio di Akhab e Navot». Il riferimento è al drammatico episodio riportato nel 1° Libro dei Re, a proposito della perversa bramosia che indusse Akhab, re d’Israele, a far condannare a morte un innocente, Navot di Izreel, con l’ausilio di falsi testimoni prezzolati, al fine di impossessarsi della vigna di proprietà del poveretto che si era rifiutato di cederla a qualsiasi prezzo.
Tra i commentatori moderni si sottolinea la differenza semantica dei due termini, in particolare il biblista Benno Jacob, sulla base di raffronti con diversi passi biblici, afferma che il desiderio espresso dal verbo lo tachmod nasce dalla vista diretta dell’oggetto della bramosia, laddove invece il desiderio richiamato dall’espressione lo tittawweh scaturisce dal pensiero o dall’immaginazione, anche senza alcun contatto visivo.
L’opinione prevalsa tra i legislatori è che si incorre in vera e propria trasgressione di concupiscenza nel momento in cui si inizia a meditare sulle manovre e sulle insistenze a cui si è disposti a ricorrere pur di conseguire il bene concupito, d’altro lato la trasgressione vera e propria del divieto di desiderio avviene quando si compiono ripetute insistenze e pressioni, sia personalmente che attraverso terzi, al fine di indurre il proprietario a privarsi, sia pure dietro equo pagamento, di un bene al quale in effetti egli non intende rinunciare e che si dispone a vendere solo per la pressione su di lui esercitata (Yosef Karo, Shulchan Aruch, Choshen Mishpat cap. 359 par. 10). Pertanto una persona che matura il desiderio di un determinato oggetto che è in possesso di altri, e si limita a rivolgersi al proprietario chiedendogli se è disposto a venderlo, senza ricorrere ad eccessive insistenze, non compie alcuna trasgressione, d’altra parte l’espressione «qualsiasi cosa appartenga al tuo prossimo» circoscrive il divieto al desiderio di beni che sono effettivamente di proprietà altrui, ma non proibisce di desiderare di possedere beni simili.
Altra limitazione riguarda il desiderio di possedere beni che possono essere lecitamente acquisiti solo attraverso un regolare acquisto, questo esclude dalla proibizione il desiderio di entrare in possesso di conoscenze e capacità che riscontriamo in altre persone, essendo riconosciuto lecito in questi casi anche insistere per essere messi a parte di scienze e competenze. È naturalmente proibito ambire e cercare di acquisire, anche attraverso leciti mezzi persuasivi, ruoli e posizioni professionali che sono già occupati da altre persone.
Per quanto la normativa riconosca una vera e propria trasgressione solo quando sussista concupiscenza di beni altrui e si progetti di entrarne in possesso, tuttavia è comunque proprio di un comportamento moralmente più elevato il non cercare in alcun modo di procurarsi un bene ambito se il desiderio scaturisce da sentimenti di invidia e cupidigia e non da reale necessità.
Da questo punto di vista questo Comandamento contiene anche un importante messaggio per una condotta di vita che trovi un giusto equilibrio tra l’aspirazione a migliorare le proprie condizioni di vita, che è propria della natura umana e rientra quindi nel compito che D.O stesso ci ha affidato, di portare a piena realizzazione le risorse del creato e le potenzialità della mente, rispetto al rischio, particolarmente diffuso ai nostri giorni, di concentrarsi con eccessiva insistenza nel desiderio e nella ricerca di beni superflui o di scarsa utilità per chi li acquista; il contenimento del desiderio nei limiti di sane aspirazioni può significare dare maggiore attenzione verso le necessità di chi ha veramente bisogno dell’essenziale e dedicare uno sguardo più responsabile al reale valore delle cose, evitando di giudicarle solo dalla loro apparenza e dal fascino con cui si presentano ai nostri occhi.
La proibizione di desiderare beni appartenenti ad altri, proprio in quanto Comandamento prevalentemente rivolto al pensiero, pone diversi interrogativi, sia sulle finalità, sia sulla stessa possibilità di stabilire confini ad ambiti, quali i sentimenti e le emozioni, che si ritiene sfuggano al controllo della nostra mente e della nostra volontà razionale.
Per quanto riguarda il significato e le finalità di questo Comandamento, oltre alla funzione di prevenzione verso i più gravi reati già ricordata, è necessario tener presenti anche altri valori in esso insiti. La proibizione del desiderio di cose altrui ci insegna che anche il solo pensiero negativo può costituire, di per sé, un modo di danneggiare il nostro prossimo, possiamo cioè recare danno non solo con azioni e parole ma anche con il pensiero; così infatti afferma Umberto Moshe David Cassuto, rabbino e profondo studioso della Bibbia: «L’uomo è soggetto non solo ai divieti di compiere adulterio con una donna sposata, e di impossessarsi di beni altrui, ma anche alla proibizione di desiderare la moglie del suo prossimo o le sue ricchezze; anche il solo desiderio costituisce una grave trasgressione dei principi formulati nella rivelazione divina. Non si tratta solo del rischio che il desiderio possa condurre ad un’azione più grave, e vada quindi proibito a titolo di prevenzione, ma che questi sentimenti negativi costituiscano di per sé una sorta di invasione dello spazio che appartiene ad altri, sia pure compiuto nel pensiero e non ancora nei fatti». Del resto, a titolo esemplificativo, sono intuitivi i danni che possono darsi nei rapporti di coppia per via di un interessamento estraneo, sia pure minimamente e persino involontariamente manifestato.
Nel midrash – la già menzionata Mechiltà di Rabbì Ishmael – che interpreta i Dieci Comandamenti attraverso la posizione speculare da essi occupata nelle due Tavole, cogliamo una diversa chiave di lettura, che mette in luce gravi aspetti della ricaduta di questo Comandamento sul soggetto stesso e addirittura sulla sua famiglia. Il midrash si sofferma sul raffronto tra il quinto Comandamento, «Onora tuo padre e tua madre», e il decimo, affermando: «Chi si lascia trasportare dal desiderio finirà per avere figli ribelli che non avranno per lui alcun rispetto»; i genitori che danno troppo spazio a desideri materiali, ambizioni, cupidigie, finiscono con il ritrovarsi figli che, educati ad un criterio di vita basato sull’egoismo e sul piacere, non avranno sviluppato sentimenti profondi neppure nei confronti degli stessi genitori e non esiteranno a far loro mancare l’onore dovuto per realizzare i propri interessi; se poi la concupiscenza del padre ha il risvolto della bramosia per una donna estranea, il monito nasce dal rischio di disfacimento che può darsi nell’educazione dei figli se viene meno il rispetto reciproco dei genitori.
Secondo altre interpretazioni, oltre a prevenire le conseguenze negative che possono nascere da desideri e concupiscenze, sia per le persone verso cui si dirige il desiderio che per i soggetti stessi, il valore e il fine di questo Comandamento consistono nell’educare la persona a sviluppare sentimenti puri e positivi, verso il prossimo e verso l’autorità divina da cui dipende la vita dell’uomo, potendo così godere di maggiore equilibrio e serenità. Il commentatore medievale spagnolo Rabbi Avraham Ibn Ezra si sofferma su questo significato nell’ambito di un più ampio discorso, nel quale sviluppa diversi esempi ed argomentazioni, sia di carattere etico e didattico che di contenuto religioso, relativamente alla possibilità per l’uomo di controllare i propri desideri e i propri sentimenti istintivi. Ibn Ezra afferma in particolare che l’uomo deve maturare anche in questo campo una forte coscienza della propria fede, basata sulla consapevolezza che ciò che possediamo è proprio quanto ci è stato assegnato dalla volontà del Signore e non possiamo cercare di procurarci quello che D.O ha disposto per altri e non per noi; la proibizione stessa deve di fatto tradursi nella consapevolezza che quanto non ci appartiene, in pratica non ci è neppure raggiungibile, è propriamente al di fuori della nostra portata; seguendo questi principi, sostiene Ibn Ezra, l’uomo potrà essere lieto e appagato per quanto dispone e potrà serenamente riporre la propria fiducia in D.O.
L’autore del testo medievale Sefer Hakhinnuch sviluppa con particolare enfasi il concetto secondo cui l’uomo è assolutamente in grado di gestire i propri desideri e i propri pensieri, accogliendo e sviluppando quelli che possono maturare in propositi e azioni positive e respingendo invece sul nascere quelli suscettibili di indurci a comportamenti negativi, a vere e proprie trasgressioni o addirittura a crimini – «(l’uomo) ha il proprio cuore nelle sue mani, egli può orientarlo verso ciò che desidera», in altre parole, il libero arbitrio si esercita non solo verso le azioni ma anche verso i sentimenti e aspirazioni, e può guidarci ogni volta che dobbiamo decidere se lasciarci influenzare o meno dalle emozioni che il nostro animo percepisce. Il fatto stesso che la Torah stabilisca veri e propri precetti relativi al pensiero ed ai sentimenti, prevedendo le conseguenze che ne possono derivare e riconoscendo all’uomo libertà e responsabilità nel modo in cui li gestisce, viene interpretato da Shimshon Refael Hirsch, grande rabbino ed esponente del pensiero ebraico nell’ottocento, come una prova dell’origine divina dei Comandamenti, dal momento che solo D.O, avendo la piena conoscenza non solo delle azioni ma anche del pensiero dell’uomo, può legiferare su un ambito che invece sfugge al controllo di qualsiasi autorità umana.
In ultima analisi sono i sentimenti più forti, dell’amore per D.O e dell’amore per il prossimo che ci permettono di rimuovere e di prevenire il radicamento di invidia, gelosia e di insano desiderio di beni altrui; rav Yaakov Zevi Mecklenburg – importante rabbino tedesco del 19° secolo, nel suo commento alla Torah «Haketav wehakkabalah» – afferma che per il rispetto di questo Comandamento è determinante l’intensità dell’amore per D.O, se esso anima e riempie il nostro cuore non vi è spazio per gli istinti e i sentimenti negativi e distruttivi, in modo analogo ad un bicchiere pieno che non permette di versare null’altro. Una diversa spiegazione ci propone invece un Maestro contemporaneo, rav Simchà Zisel Broida, nel commento alla Torah «Sam derekh», secondo il quale la radice più profonda della bramosia e della concupiscenza è la mancanza di amore per il prossimo; infatti nei confronti della persona verso cui è rivolto il nostro amore non proviamo sentimenti di invidia e non aspiriamo ad entrare in possesso di qualcosa che gli appartiene, pertanto la Torah ci insegna ad evitare il desiderio di beni altrui attraverso il Comandamento dell’amore per il prossimo; questo commento sviluppa un pensiero già espresso dal midrash – Waikrà Rabbà – che, nell’ambito di una puntuale verifica del legame tra i Dieci Comandamenti e le leggi della santità, formulate nel capitolo XIX del Levitico, individua un nesso preciso tra il divieto di desiderare beni altrui e il Comandamento dell’amore per il prossimo contenuto nel brano del Levitico.
L’elevato livello di fede e il profondo sentimento di amore per il prossimo, necessari per dare completa attuazione a questo Comandamento, ne motivano forse la sua collocazione a chiusura del Decalogo, un antico Midrash afferma che, come i Dieci Comandamenti contengono tutti i 613 precetti, così l’ultimo Comandamento del Decalogo contiene tutti gli altri e chi lo osserva pienamente può essere considerato come persona che rispetta tutte le leggi del Signore, d’altra parte, un maestro del Chassidismo – rabbi Yekhiel Mikhael di Zlotczow, noto come Magghid di Zlotczow discepolo del fondatore del movimento, il grande Baal Shem Tov, affermava che l’espressione «non desiderare» proprio per la difficoltà che racchiude e per la collocazione a conclusione del Decalogo, va inteso non solo come comandamento ma come promessa: «Chi fa attenzione ai primi nove Comandamenti e li mette in pratica, certamente arriverà a rispettare il divieto di desiderare ciò che appartiene ad altri».
Completandosi quest’anno l’analisi del Decalogo quale testo guida per la Giornata del Dialogo con la Chiesa, desidero esprimere l’auspicio che le parole della Bibbia possano essere anche per il futuro occasione di dialogo fecondo, particolarmente in un periodo così carico di eventi drammatici nel quale è dovere delle religioni portare parole di pace.
Rav GIUSEPPE MOMIGLIANO
Presidentedell’Assemblea dei Rabbini d’Italia
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