sabato 20 aprile 2013

Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.


Una sfida da accogliere

Giorgio Israel

La sfida è trasportare i risultati ottenuti nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

Quando si parla dell’antisemitismo cristiano non occorre dimenticare il percorso compiuto in circa mezzo secolo. Constato senza esitazione che i miei figli non hanno conosciuto nemmeno una piccola parte delle cattive parole, delle insinuazioni devastanti, delle pressioni psicologiche che ho subito nei miei anni scolastici. L’insegnamento del disprezzo sopravvive, ma in circoli ristretti ed esterni alla dottrina ufficiale della Chiesa. Come dimenticare quel che veniva scritto ancora meno di un secolo fa sull’organo ufficiale dei Gesuiti, “Civiltà Cattolica”? Prose come quelle stentano a uscire – almeno in quei termini – persino dal covo più accanito dell’antisemitismo cattolico, la comunità lefebvriana. Un grande cammino è stato compiuto in mezzo secolo dopo duemila anni di odio e di persecuzioni.

Eppure questo non ci basta, ed è giusto che sia così. Ma non sarebbe giusto svalutare l’importanza di quel cammino, altrimenti non sapremmo neppure cosa resta da fare. L’opera di Giovanni XXIII e la Nostra Aetate hanno segnato l’inizio della svolta. Quel testo contiene l’embrione della tesi più audace, secondo cui i «doni» e la «vocazione» di Dio sono «senza pentimento», accanto a un atteggiamento di generica benevolenza: gli ebrei sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Era un passo decisivo per sbarazzare il campo dell’insegnamento del disprezzo incorniciato in un invito ai fedeli alla tolleranza e al rispetto malgrado le incomprensioni depositate nei secoli. Per iniziare a spazzare via il terreno da queste incomprensioni occorrevano atti concreti, spettacolari, carichi di emozioni. Tale fu la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Il papato di Wojtyla non è stato esente da passi incespicanti, soprattutto in certe occasioni pasquali in cui rispuntarono ambigui accenni sul ruolo degli ebrei nella Passione di Gesù.

Ma la nota dominante fu quella della traduzione sul piano concreto dell’invito contenuto nella Nostra Aetate. Giovanni Paolo II dichiarò che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». Fu, ancor più che un asserto teologico, un proclama pratico, un invito a incontrare non soltanto un ebraismo astratto e cristallizzato nel passato, ma l’ebraismo vivente e, in definitiva, a incontrare gli ebrei. Ma neanche questo poteva bastare. Non poteva bastare la professione di fratellanza e il fatto emotivo, perché le radici più profonde, ostinate e difficili da sradicare sono sul terreno teologico. Chi ha compreso che questo era il passo decisivo da compiere è stato il Cardinale Ratzinger, prima sotto il papato di Giovanni Paolo II, e poi come quel papa Benedetto XVI che si è dimesso con un gesto che ha lasciato il mondo attonito. Sono in tanti, quasi tutti, a riconoscere l’importanza dell’opera da lui fatta, ma nel passato non sono stati altrettanti ad averla compresa e apprezzata; soprattutto ad aver valutato lo straordinario sforzo concettuale e teologico compiuto con il documento del 2001 su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”. È un testo che sviscera tutti i passi evangelici in cui trova alimento l’antigiudaismo, al fine di eliminare le potenzialità negative che essi possono contenere.

A questo testo occorre aggiungere varie parti dei libri di Benedetto XVI su Gesù di Nazareth, che hanno sottratto ogni spazio al tragico mito del deicidio. C’è chi ha minimizzato l’importanza di quest’opera – che invece, a mio avviso, costituisce la conquista più solida di tutte – a causa della visione complessiva ratzingeriana tesa a una forte difesa della dottrina e della tradizione. È curioso che questa accusa sia venuta talora da chi propone una difesa del tutto analoga in ambito ebraico. È un atteggiamento incoerente: perché mai si dovrebbe chiedere un atteggiamento riformatore alla Chiesa quando si considera un indirizzo del genere una sciagura per sé stessi? Chi scrive considera
negativo - per dirla con le parole di Alberto Cavaglion - che siano sempre i “modernisti” ad avere la peggio. Ma non si può predicare il “modernismo” a tutti salvo che a sé stessi. L’importanza dell’opera teologica di Benedetto XVI è provata dal fatto che essa ha reso possibile il dialogo sul tema più difficile. Basti pensare al noto libro del rabbino Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù; o all’affermazione del rabbino Gilles Benheim - che ricordavo nell’ultima rubrica di Shalom -secondo cui l’antigiudaismo sarà superato definitivamente quando i cristiani riusciranno a percepire il significato positivo del “no” ebraico alla divinità di Gesù. Cosa resta da fare? Il lavoro lungo e complesso di trasportare questi risultati nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

È un lavoro tanto più complesso in un periodo di grande difficoltà e di sfide epocali per il mondo cattolico, e cristiano in generale, di cui le dimissioni del Papa sono la testimonianza. Sta alla saggezza di tutti mettersi gli occhiali di quel che unisce, persino quando si guarda a quel che divide, anziché darsi all’opera di distruzione, la più facile di tutte.

Giorgio Israel

Fonte: Shalom, marzo 2013

giovedì 18 aprile 2013

La pasqua di mons.Clemente Riva

Mons.Clemente Riva con Lea Sestieri

“il vescovo del dialogo”

I cristiani si apprestavano a celebrare la Pasqua del Signore, e gli ebrei la festa di Pèsach, quando mons. Clemente Riva passava da questo mondo alla casa del Padre. Era il 30 marzo 1999, martedì della settimana santa per i cristiani, l’antivigilia di Pèsach per gli ebrei.

“Per Amore di Gerusalemme” ricorda, con affetto e commozione, mons. Clemente Riva, già vescovo ausiliare di Roma e presidente della Commissione Diocesana per l’ecumenismo e il dialogo che, con tenacia evangelica, ha reso possibile la storica visita di Papa Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986.

Così lo hanno ricordato:

Mons. Paolo Schiavon: “...La sua disponibilità al dialogo interreligioso e la sua profonda convinzione che la cultura ebraica è un crocevia obbligato dei grandi cammini umani, e che il cristianesimo non si può capire senza un attento studio e un sincero amore verso le tradizioni ebraiche e senza un contatto cordiale e aperto verso il Popolo ebraico. Quando uomini così grandi ci passano accanto, non possiamo più vivere come se ciò non fosse accaduto: essi sono un dono e un richiamo all’imitazione”. (Avvenire,“Roma Sette”)

Rav Prof. Elio Toaff: “Con mons. Clemente Riva c’era un’amicizia che durava da molti anni. Lo ricordo sempre la sera di Kippur: veniva ogni anno, puntualmente, al tempio e si metteva in prima fila per essere il primo a darci l’augurio. E’ un ricordo che non si cancellerà mai. Un mese fa eravamo insieme alla presentazione del mio ultimo libro “Il Messia e gli ebrei”. Mons. Riva in quell’occasione improvvisò, e nelle sue parole affiorava nitidamente quello che è stato lo scopo della sua vita: liberare i rapporti fra ebraismo e cristianesimo da tutti gli ostacoli che si sono accumulati e sedimentati lungo i secoli. Non posso dimenticare, inoltre, la storica visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma. Mons. Riva era stato in prima linea con me nell’organizzarla in tutti i particolari, dagli inviti all’assegnazione dei posti. E’ un uomo eccezionale quello che oggi ricordiamo. Un uomo che alla straordinaria intelligenza e al grande cuore univa un’attività che non conosceva soste. Abbiamo perso un grande amico che difficilmente potrà essere sostituito. E tuttavia la sua opera lascerà una traccia profonda: altri - ne sono certo - continueranno il suo lavoro e si dedicheranno a far sì che ebraismo e cristianesimo possano convivere senza lotte, senza i pregiudizi che si sono formati nel corso dei secoli. Questo è il testamento che ci lascia mons. Riva”.

Amos Luzzato: “Ho un ricordo molto dolce, molto piacevole perché soprattutto mi ha colpito il suo atteggiamento in ascolto. Era sempre un uomo che, quando dialogava con me e probabilmente anche con gli altri, ascoltava: non sentenziava, ma cercava di capire l’interlocutore, con un atteggiamento estremamente mite e aperto, che veramente conquistava. Mi ricordava molto cosa diceva del dialogo il nostro Martin Buber, sottolineando l’importanza di immedesimarsi nella persona che si ha di fronte e di essere se stessi in quanto dialoganti. Ho la sensazione di aver perso di più di un amico, direi davvero un fratello”.

Tullia Zevi: “Calmo, sorridente, sereno, sempre incoraggiante. Ci accomunava la convinzione che bisognasse veramente lavorare insieme per cercare di porre rimedio ai mali, che stanno travagliando senza sosta l’umanità”. 




a cura di Vittoria Scanu


sabato 13 aprile 2013

13 aprile 1986/13 aprile 2013

                  Un anniversario da non dimenticare

Giovanni Paolo II e il Rabbino Elio Toaff

 

Ventisette anni fa, alle ore 17, Papa Giovanni Paolo II giungeva al Tempio Maggiore di Roma, dove veniva accolto dalle autorità ebraiche e dal Rabbino Capo Prof. Elio Toaff. Dopo duemila anni, il vescovo di Roma, successore di san Pietro, entrava ufficialmente in una Sinagoga. Incontro storico, indimenticabile. Inizio di un’era nuova nei rapporti ebraico-cristiani.

 

 

Svolgimento della cerimonia

All’ingresso del Papa in Sinagoga viene cantato il Salmo 150 “Lodate il Signore nel suo Santuario", col ritornello dell’Alleluia ripetuto più volte e accompagnato dall’organo.

Applausi dei presenti.

Saliti alla Tevah, Il Papa e il Rabbino Capo si siedono e si dispongono all’ascolto di un brano della Torah. Il Rabbino Vittorio Della Rocca legge in ebraico Genesi 15 (Dio promette ad Abramo una grande discendenza). Lo stesso brano viene poi letto in italiano dal Chazzan.

Il Rabbino Della Rocca legge ora in ebraico il brano del Profeta Michea (Cap.4) :”Venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe…”. Lo stesso brano viene poi letto in italiano dal Chazzan.

Segue il benvenuto al Papa del Presidente della Comunità ebraica, che illustra la storia bimillenaria della Comunità romana.

Prende ora la parola il Rabbino Capo Toaff.

Segue il Discorso del Papa che termina con le parole in ebraico del Salmo 118 “Celebrate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia”, che Giovanni Paolo II ha pronunciato in ebraico.

Il Rabbino Toaff conclude con le parole del Salmo dei gradini di David (124) : “Sia benedetto il Signore, che non ci ha lasciati in pasto ai loro denti. Noi siamo stati liberati… Il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto cielo e terra”.

Il coro del Tempio intona il canto che gli ebrei cantavano andando incontro alla morte nei campi di sterminio nazisti: “Anì maamìn” (Io credo con fede certa nella venuta del Messia).

Il Rabbino Toaff invita ora i presenti a fare un momento di silenzio e di preghiera, “perché la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli”.

Dopo il silenzio, il Chazzan legge il Salmo 16 “Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio…”.

Ora il Coro canta lo stesso salmo in ebraico. Il Papa, i cardinali e i rabbini ascoltano stando in piedi sulla Tevah.

La cerimonia pubblica termina con l’abbraccio fraterno tra il Papa e il Rabbino Toaff, mentre il pubblico presente applaude calorosamente.


mercoledì 3 aprile 2013

Pèsah/Pasqua

La Pasqua degli Ebrei e dei Cristiani

AMICIZIA EBRAICO CRISTIANA di ROMA  

2013/5773  

Incontro 

Domenica 7 aprile alle ore 17

Nell’Aula Magna della Facoltà Valdese di Teologia,  Via Pietro Cossa, 42 

rifletteremo insieme sul significato della Pasqua per ebrei e cristiani.

Pèsah/Pasqua
La Pasqua degli Ebrei e dei Cristiani

Introduzione di Marco Cassuto Morselli

Giuseppe Mallel : Pésah. La Pasqua degli ebrei
Ignazio Genovese : La Pasqua dei cristiani
Dibattito

Alle ore 18,30 il Maestro Michele Gazich eseguirà in anteprima assoluta :

Sette esercizi di celebrazione per Pasqua/Pèsah per voce recitante e violino.

Michele Gazich
Sette frammenti da sette poeti: Friedrich Hölderlin, Paul Celan, Giovanni Testori, Gerard Manley Hopkins, Nelly Sachs, Samuel Menashe, Leonard Cohen, legati alla tematica pasquale. I frammenti, selezionati e tradotti dal Maestro Gazich, hanno dato origine ad un ciclo di composizioni inedite per violino che verranno presentate in anteprima assoluta.

Il M° Michele Gazich è musicista, produttore artistico, autore, compositore. Grazie ad uno stile personale e decisamente innovativo sul suo strumento principale, il violino, che rende il suo suono immediatamente riconoscibile, Gazich, dopo numerose collaborazioni con artisti italiani, si è fatto apprezzare anche fuori dal nostro paese, con significativi e ripetuti tour in USA ed Europa, a partire dagli anni Novanta, con formazioni sinfoniche classiche e contemporaneamente legando il suo lavoro al mondo dei singer-songwriters statunitensi: da Michelle Shocked a Mary Gauthier, da Eric Andersen a Mark Olson .[…]Da inizio 2012 Gazich è in tour in Italia ed Europa con il suo Concerto spirituale: il tour ha anche toccato Cracovia, nell’ambito delle celebrazioni per la memoria.

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