mercoledì 25 febbraio 2015

Gerusalemme: "Museo delle terre della Bibbia"

In mostra 110 tavolette di argilla di 2500 anni fa.

Uno spaccato della vita degli ebrei durante l'esilio a Babilonia 2.500 anni fa: lo testimoniano più di 100 tavolette di argilla - incise in cuneiforme accadico - esposte per la prima volta questa settimana al 'Museo delle terre della Bibbia' a Gerusalemme. La rassegna - intitolata 'Dalle rive di Babilonia' - è considerata "uno dei più importanti antichi archivi ebraici dalla scoperta dei Rotoli del Mar Morto".

Come le tavolette (molto più numerose delle 110 della rassegna che riguardano solo temi ebraici) siano state scoperte, resta ancora in gran parte un mistero: gli studiosi hanno ipotizzato che la collezione sia stata rinvenuta in uno scavo nel sud dell'Iraq negli anni '70 e che sia poi riemersa nel mercato internazionale di antichità. Fatto sta che la raccolta di reperti è ritenuta una scoperta molto importante per far luce sulla vita delle comunità ebraiche sradicate da Israele all'epoca dell'esilio. Le tavolette - che contengono principalmente certificati amministrativi come vendite, contratti, affitti, discorsi - sono nel classico cuneiforme accadico e alcune sono state cotte al forno.

Grazie all'uso babilonese di scrivere la data su ogni documento, in base al re in quel momento sul trono, gli archeologi - secondo quanto reso noto dal museo - hanno fatto risalire le argille tra il 572 e il 477 prima di Cristo.

La più antica tavoletta della collezione è stata scritta circa 15 anni dopo la distruzione nel 586 del Primo Tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, il re caldeo che deportò gli ebrei a Babilonia. L'ultima invece è stata incisa circa 60 anni dopo il ritorno di una parte degli esiliati in Israele secondo la concessione del re di Persia Ciro nel 538 avanti Cristo. Nei libri pubblicati dal Museo sulla collezione, si dice che il contenuto delle tavolette riflette la vita di villaggi tra l'Eufrate e il Tigri: uno di questi chiamato Al-Yahudu, termine usato nelle fonti babilonesi per indicare Gerusalemme.

"Il villaggio - ha detto Horowitz, citato dai media - è la 'Gerusalemme di Babilonia' così come New York è la 'nuova York'". Gli abitanti di Al-Yahudu erano ebrei, come testimoniano i loro nomi: Gedalyahu, Hanan, Dana, Shaltiel e Netanyahu. Inoltre, in una delle tavolette sono incise, accanto alla lingua accadica, antiche lettere ebraiche. "Le più vecchie – ha sottolineato Horowitz - dall'esilio babilonese". (ANSA).

Fonte: “SHALOM 7”- 8 febbraio 2015


mercoledì 4 febbraio 2015

"Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché"


Sempre nella memoria.

L'ATTENTATO terroristico alla Sinagoga di Roma, nel toccante racconto di una persona a noi molto cara: Emanuele Pacifici. Il suo ricordo sia sempre in benedizione!

Il 9 ottobre 1982, Shabbat Sheminì Azeret, era una tiepida giornata d'autunno.
Verso mezzogiorno, terminata la funzione, la gente cominciò ad uscire dal tempio. Alcuni si diressero subito verso casa, altri, come di abitudine, si fermarono qualche minuto davanti alla sinagoga per scambiare due chiacchiere. Io naturalmente ero tra quelli perché per me è sempre un piacere potermi soffermare davanti a quei giardini con gli amici di sempre o con quelli che magari è anni che non capita di incontrarsi.

D'improvviso udii una esplosione violentissima vicino a me e sentii un colpo fortissimo alla testa, tanto che gridai: «Ci stanno tirando i sassi!». Un attimo dopo un'altra deflagrazione mi colpì in pieno: era una bomba a mano. Una scheggia destinata a ferirmi il cuore si conficcò nell'antico libro di preghiere che tenevo sotto il braccio sinistro.
    
Prima che avessi il tempo di rendermi conto di cosa stava succedendo, si susseguirono altre violente esplosioni il cui frastuono si sovrappose alle urla di panico. Vedevo tanto sangue, ma non capivo dove fossi stato ferito; con le mani compresse sullo stomaco, corsi fuori dal cancello del Tempio e sempre correndo, per via Catalana, andai verso il ponte Quattro Capi. Alla fine di via Catalana, dove si immette in via Portico di Ottavia, ebbi l'impulso di voltarmi, ma con perfetta lucidità ricordai il passo della Torà in cui Abramo dice a Lot: «Mettiti in salvo, non ti voltare e non fermarti in tutta la pianura» (Genesi 19,17). Con le ultime energie che mi rimanevano, feci un ultimo sforzo per raggiungere il vicino ospedale Fatebenefratelli sull'isola Tiberina. Quando arrivai davanti all'entrata della chiesetta di Monte Savello, ancora si udivano le esplosioni e il crepitìo delle mitragliatrici. Qui mi accasciai tra le braccia di un passante, Anselmo Astrologo. Il libro di preghiere che tenevo ancora stretto in mano cadde per terra, ma prima di perdere i sensi riuscii a dire: «La prego, raccolga quel libro, lo baci, è un libro sacro di preghiere!». Le ferite più terribili erano al ventre e alla gola, ma erano stati colpiti anche l'occhio sinistro, un braccio, una gamba. Fui portato dentro all'ospedale dove in un primo momento sembrò che non ci fossero speranze; più tardi accorse il rabbino Toaff che mi impartì la berachà dei moribondi, ma mentre le sue mani, le sante mani di mio padre, erano tese nel gesto sacerdotale della berachà, dalla mie labbra sfuggì un lamento. Il rabbino Toaff allora implorò un medico: «Fate qualcosa, è vivo!». Immediatamente fui portato in sala operatoria dove mi praticarono subito la tracheotomia. Rimasi sotto operazione per quasi sette ore. Grazie al dottor Oliviero Schilirò, al dottor Stefano Picchioni e all'infermiera del reparto di rianimazione Anna Bussetta che mi assistettero con abilità e grande umanità, e grazie ai miei genitori che mi assistettero in cielo, ebbi salva la vita.

Appena fui in grado di parlare, chiesi di riavere il mio libro di preghiere che mia moglie Gioia mi portò insieme a quello dei Salmi. Seguendo l'insegnamento del mio rabbino aprii a caso il libro dei Salmi e vi lessi il salmo 17, il salmo della vita.

Durante la degenza in rianimazione che durò nove interminabili giorni, accadde un episodio che mi è caro. Stavo leggendo i Salmi, quando mi addormentai. Risvegliandomi vidi in fondo al letto un sacerdote che pregava con fervore e immaginando che fosse venuta la mia ora gli dissi che ero di religione ebraica e che se la mia ora era venuta, mandasse a chiamare subito il rabbino Toaff. Il sacerdote mi rassicurò dicendomi che stava soltanto pregando per me. Io apprezzai moltissimo il suo gesto e ci salutammo. Dopo neanche mezz'ora era di ritorno, aveva una cosa importante da dirmi: «Emanuele, voi avete gli stessi nostri Salmi!». Io non potevo parlare: feci cenno di sì con la testa.

Nel frattempo si chiariva la dinamica dell'attentato: era stato opera di un commando di terroristi arabi. Erano state ferite cinquanta persone ed era stato ucciso un bambino di due anni, Stefano Taché. La madre Daniela Gay e il fratello più grande Gadiel erano stati feriti. Tra i feriti c'erano anche la zia Giuditta, suo figlio Nathan insieme alla moglie Renata e ai loro bambini Joram e Shulamit. C'era mio nipote David Piazza, suo cugino di quattro anni Jonathan, i miei vicini di casa Eliana e Nissim Hazzan, che per proteggere la figlia di due anni fu colpito a un occhio. La lista dei nomi sarebbe troppo lunga, ma il cuore trema ancora di più se si pensa quali dimensioni poteva assumere la tragedia dal momento che quel giorno, Sheminì Azeret, il Tempio era pieno di bambini,venuti, come è usanza a Roma, per avere la berachà dal rabbino sulla tevà.

L'abilità del professor Cucchiara, che con pazienza certosina ha cercato di rimediare ai danni molteplici causatimi dalle ferite, è stata essenziale perché potessi continuare a vivere, ma non meno essenziale è stato l'amore dei miei cari e le infinite testimonianze di affetto che mi sono pervenute da tanti, tanti amici. Particolarmente caro mi fu il messaggio che in quei giorni mi giunse da parte di monsignor Francesco Repetto, il sacerdote che tentò invano di salvare mio padre quando si trovava nel carcere di Marassi.

Termino qui questi miei ricordi che ho scritto per i miei figli e forse, in parte, anche per me stesso, per rivisitare in un faticoso percorso di riconciliazione gli eventi di una vita non facile.

Il Signore Iddio mi è stato vicino e mi ha guidato. Le persone che ho incontrato lungo il cammino della mia vita sono state in gran parte persone eccellenti dalle quali ho potuto avere buoni consigli e un aiuto concreto. Ma ho dovuto scegliere sempre da solo tra il bene e il male.  Spero di avere scelto il giusto.

Ai miei figli, facendo mie le parole di Anna Frank, voglio dire: «Nonostante tutto credo ancora nell'infinita bontà dell'uomo».

(tratto da: "Non ti voltare" di Emanuele Pacifici, Editrice La Giuntina)
 
 A cura di Per Amore di Gerusalemme

lunedì 2 febbraio 2015

Vignette e religione: sì o no?

Una riflessione su rispetto e libertà


di: Vittorio Robiati Bendaud


Una premessa: sin da ragazzo sono lettore di Tex e di Dylan Dog. Complimenti, dunque, a casa Bonelli, che ha tanti meriti nell’alfabetizzazione – e non solo - di questo Paese.
Il fatto: la concorrente Editoriale Cosmo di Reggio Emilia ha diffuso in edicola questo mese il fumetto Nosferatu, con avventure di umani e vampiri. Tra gli epocali fenomeni narrati ci sarebbe l’umano vampirizzato Yehoshua di Nazareth, alias Gesù, ivi inclusa la sua resurrezione, trionfo della sua leadership e di un certo vampirismo (cfr. p. 68 e segg).

Non credo che l’ebreo Yehoshua di Nazareth, esponente di correnti ebraiche molto vicine all’ebraismo farisaico e influenzato forse dal coevo essenismo, al pari del Gesù Cristo degli amici cristiani, necessiti di difensori d’ufficio. Tramite i suoi insegnamenti, si difende benissimo da solo.


Tuttavia credo che da difendere ci sia il ben ragionare. Cartesio riteneva che il buon senso fosse diviso equamente tra gli esseri umani. Lo storico Marco Cipolla ci ha meglio edotti, fortunatamente, sulle leggi fondamentali della stupidità umana.

Dopo Charlie Hebdo, la domanda è: “E se ci fosse stato, anziché Gesù – o Mosè - (entrambi ebrei, comunque), Maometto? Che cosa sarebbe successo?”.

So già che, anche con un innegabile fondo di verità, molti converrebbero nel sostenere che l’errore consiste nel denigrare le religioni, deriva erronea della libertà di espressione. Sono d’accordo.


Tuttavia, vi è un grave vulnus: questa riflessione, così assennata, si fa strada dopo la tragedia parigina, dopo il terrore. Ci si esprime, per così dire, a posteriori

Accade a posteriori, in primo luogo, perché per anni si sono denigrati cristianesimo ed ebraismo e i loro rappresentanti in varie forme (si pensi, non da ultimo, alla locandina irriverente di un concerto punk a Ferrara denigrante il locale arcivescovo, per non parlare delle vignette offensive che circolarono su Benedetto XVI), senza il turbamento indignato di nessuno. Dov’erano gli indignati? Nel caso, chi li ha presi sul serio? Per i più si trattò, conseguentemente, di satira legittima, talché le rampogne degli offesi furono considerate come iper-sensibilità o come intolleranza. 


Quella stessa buona e colta espressione della società “laica” che oggi chiede il rispetto per l’Islàm è rimasta indifferente all’analogo trattamento riservato a ebrei e cristiani, quando invece non divertita o addirittura complice soddisfatta. Parimenti molti “intellettuali” ebrei e cristiani – ahimè quasi tutti purtroppo delle aree progressiste e politicamente orientati a sinistra -, in relazione a questo tipo di “satira”, hanno spesso preferito lasciar correre, sentendosi “liberali” e “tolleranti” e dimostrando, purtroppo, troppo poco attaccamento alle rispettive Comunità di fede e ai loro simboli più cari. Chi di questi due diversi, ma parimenti inani, gruppi di intellettuali e politici, ha tuonato e prende, per esempio, sul serio le migliaia di vignette antisemite, realmente demonizzanti gli ebrei, che riempiono i giornali del mondo arabo islamico da decenni e che sono da tempo ormai diffuse anche in Europa? La domanda è dunque anzitutto questa: perché invalsi trattamenti diversi circa la comune percezione dell’esercizio del diritto di satira – o della sua censura - per cristiani e ebrei da una parte e musulmani dall’altra?

Rispetto ai fatti del terrore di matrice islamica - a Parigi e non solo - la riflessione sul diritto di satira è a posteriori anche da un secondo punto di vista, più insidioso e preoccupante.


Si può invitare con fermezza, senza ambiguità insidiose, al rispetto per le religioni, ponendo limiti alla libertà di espressione e di satira, solo dopo il terrore? Specifico meglio: si può fondare – o invocare - una morale pubblica e intersoggettiva “del rispetto” unicamente a fronte del terrore esperito? Dunque, in definitiva, solo in quanto reazione, subendo così ancora la paura? Per dirla fuori dai denti: non è profondamente insidioso ed errato fondare il rispetto sulla paura?
Questo assoggettamento – a posteriori - a un’etica giornalistica e satirica della cautela a fronte del terrore scatenatosi - o potenziale e latente -, oltreché risentire di una debolezza concettuale e morale intrinseca, significa ahimè darla parzialmente vinta ai terroristi che, proprio con il terrore, vogliono imporre il loro non-pensiero e il loro fanatismo e, sempre con il terrore religioso, fondare l’etica pubblica.

Chissà se quanti oggi invocano, giustamente, il rispetto delle religioni in relazione a certa satira hanno pensato anche a questo dettaglio etico e politico, tutt’altro che trascurabile?


Permangono altre domande, diverse ma convergenti. 
Possono le religioni, che giustamente invocano la necessità di una satira non offensiva (con l’interrogativo non banale per l’autorità civile laica, aperto a risposte multiple e tra loro forse inconciliabili, di come individuare il limite giuridico dell’eventuale offesa), evitare di banalizzare e presentare in maniera caricaturale o, peggio, demoniaca, l’altro da sé, credente in altre fedi oppure non-credente? Anche in questo è necessaria la reciprocità. L’ebraismo, oltreché in alcune concezioni teologiche e normative arretranti all’epoca talmudica (la dottrina del Noachismo), pur con opinioni diverse, già nei suoi Maestri medievali, aveva dato risposte significative e costruttive (in rapporto, in particolare, agli altri due monoteismi). Si pensi a Yehudah ha-Levì e a Maimonide e, successivamente, a rabbini insigni quali ‘Emdin, Rivkis, Hirsch, Sacks. Il cristianesimo cattolico ha risposto in maniera ufficiale e vincolante in vari passi celebri di Nostra Aetate, della Lumen Gentium e della Gaudium et Spes.


Può l’Islàm condannare le vignette antisemite che circolano sui giornali arabi e di altri Paesi islamici? Può l’Islàm evitare di ridurre gli ebrei a coloro che hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani a coloro le cui pratiche cultuali posseggono sapori idolatrici, apprezzandoli positivamente e evitandone caricature, siano esse teologiche, morali o politiche?


Può la cultura laica evitare di banalizzare le religioni, svilendole unicamente - o in prima istanza - a generatori di violenza, anche se esistono legami insidiosi tra religioni e violenza? Può la cultura laica evitare di offrire una errata visione caricaturale, pseudo-illuminista, delle religioni, tal ché esse costituiscano soltanto un coacervo di ignoranza, psicosi collettive, mortificazione della libertà individuale e dispotismo? 

Avrei, infine, delle domande da porre a coloro che fanno satira “senza freni” e a certi vignettisti, specie in relazione al loro senso di responsabilità sociale. Tuttavia, a fronte di morti così orrende, preferisco condividere il loro lutto. Anche perché vi è un discrimine netto e inviolabile tra il dominio della parola, anche se mal esercitata, e il dominio della violenza fisica, laddove chi compie certi atti è meno che animale. Per non offendere gli animali, si capisce. 

Per il momento, in relazione agli editori di Nosferatu, mi chiedo – ed è ovviamente solo una provocazione - a quando, dopo Gesù, Mosè e Maometto? Saranno mummie, zombie o licantropi?



Vittorio Robiati Bendaud
29/01/2015 Milano
Fonte: www.mosaico-cem.it