lunedì 8 agosto 2016

DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

Modalità e obiettivi


Léon Duƒour


Quanta polvere inutilmente sollevata da coloro che, dialogando, non conoscono il loro interlocutore! Enumeriamo alcune di queste conoscenze indispensabili, preliminari a ogni dialogo. Ho letto, io cristiano, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sugli ebrei? So che dico una menzogna, una calunnia, che sono un persecutore, se continuo a parlare di “popolo deicida” a proposito del popolo ebreo? Persino il Concilio di Trento non aveva adoperato questo termine usato invece nelle traduzioni dei catechismi. Sappiamo che Paolo stesso non è passato dall’ebraismo al cristianesimo come è stato detto, ma è rimasto ebreo, fedele alla religione dei padri (Atti 24, 14)? E che i primi cristiani erano tutti ebrei? Sappiamo che l’ebraismo non si definisce con una fede dogmatica, ma con una pratica di vita?
  
Perché questa conoscenza sia comprensione profonda, devo uscire dal circolo chiuso in cui vivo. Qualcuno può obiettare che gli ebrei hanno messo, per primi, la siepe attorno alla Torà: l'hanno fatto per proteggerla contro perverse influenze.

Tocca a me lasciare il chiuso delle mie abitudini, del mondo in cui mi sono installato confondendo le pratiche religiose con la verità ultima, rigettando nel mondo delle tenebre gli ebrei che, per paura, si sono rinchiusi in se stessi.
Devo superare la frontiera: certamente troverò un mondo molto diverso dal mio.

Eppure quali ricchezze nuove da questo contatto!

Lungi dal criticare costumi che mi sembrano strani, come quello di tenere il capo coperto durante la preghiera o quello di cantare in modo diverso, ho pensato che Gesù di Nazareth ha pregato in quel modo, che i primi cristiani hanno vissuto così? Di più: ho osservato la somiglianza della prima parte della messa e dell'ufficio sinagogale?

Se mi reco al sèder di Pèsach (cena di Pasqua) o alla festa di Kippùr (dell’espiazione), non mi sono forse sentito più stimolato nella mia preghiera pasquale o nel mio comportamento penitenziale? E così per altre istituzioni.

Prima di percorrere le tappe di una autentica conoscenza, dobbiamo dissipare un pregiudizio che può causare mancanza di accordo. Quando si parla di amore nella conoscenza, ciò non significa solo provare visceralmente della compassione per un essere che soffre; a maggior ragione, non è neppure cercare di “convertire” l'altro alla propria verità. Rispetto forse la libertà cercando di imporre la mia fede?

Una delle riserve più profonde che gli ebrei fanno quando sono avvicinati dai cristiani, è di non voler essere considerati come una preda da conquistarsi alla verità cristiana. 
Secondo la precisa affermazione di André Neher, essi non vogliono essere dei “convertiti in potenza”. E' quindi con spirito di autentica gratuità che devo avventurarmi alla conoscenza del mio fratello ebreo.





Padre Léon Duƒourteologo gesuita
-Sefer- Ottobtre 1974



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