Noemi Vogelmann
Goldfeld, nata a Katowìce, si è laureata presso la Hebrew University di Gerusalemme,
ha conseguito il dottorato a Cambridge, è una studiosa dei manoscritti della Genizah del Cairo e di Maimonide[1]. E’
anche una poetessa, in italiano sono stati pubblicati Il dolore del bello (Giuntina 1992) e Roma, una storia d’amore (Giuntina 1997). Giancarlo Galtieri ha composto una cantata per coro e orchestra
da un suo testo: Suono di shofar ad
Auschwitz (Verona 2000). Inoltre, Noemi si è interessata alle attività di
dialogo ebraico-cristiano, partecipando tra l’altro a uno dei Colloqui di
Camaldoli.
Figlia di Rav Mordekhai Vogelmann, cugina
di Rav Israel Meir Lau e di Daniel Vogelmann, nata in Polonia e residente in
Israele, a un certo punto della sua vita Noemi ha scoperto Roma e l’Italia. Cosa
voglia dire Roma per Yerushalayim ce lo ricorda l’immagine scelta per la
copertina del suo libro I santuari dei
nostri amori (Edizioni Interculturali 2014): una foto del bassorilievo
dell’Arco di Tito che mostra il trionfo del distruttore del Tempio e della
Città. Da uno scrittore di Tel Aviv, di cui non conosciamo il nome, il libro è
stato definito «un tentativo di tiqqun».
I
santuari dei nostri amori è un libro pieno di Torah, di Hokhmah, di Midrash,
di Qabbalah. Quello che in una
traduzione inevitabilmente si perde è la stratificazione della lingua ebraica,
in tutte le diverse fasi della sua lunga storia: dalla lingua biblica
all’ebraico moderno, passando attraverso l’ebraico mishnaico e medievale. Per
la sua prosa poetica può essere considerato «un libro dell’anima». Stratificata
è la lingua, come stratificata è l’anima (nefesh,
ruah, neshamah, hayah. yehidah).
Il Bet
ha-Miqdash è il santuario della nostra ahavah
(amore), però, perché esso sia ricostruito, è necessario passare attraverso
altri amori, confrontarsi con la sinah
(odio) e scoprire che l’ahavah è più
forte della sinah.
Il libro è il diario di un decennio
(1993-2002), ma il tempo si dilata, il passato diventa presente, i momenti si
confondono, i ricordi diventano illuminazioni.
Un pomeriggio della calda estate 1993
Noemi si trova a piazza Navona con un suo amico “appassionato dell’era
messianica”: «Vengo tartassata di domande che io stessa non mi concedo di farmi
ma qualcosa devo pur dirla, per cui mi ascolto pronunciare parole che non so se
fuoriescano da me. A quel punto si verifica una assoluta confusione tra il
lontano passato legato all’inizio della diaspora romana e ai primi anni del
cristianesimo e l’ani ma’amin, l’”Io
credo con fede completa nella venuta del Messia”». Tornata a casa, Noemi
rilegge Maimonide, poi Abraham ibn Daud, e infine vorrebbe riascoltare la voce
di suo padre e riapre il suo libro, il Bet
Mordekhai: «Le parole di Rav Abraham ibn Daud vanno interpretate a mio
modesto parere nel loro significato letterale: dal momento che secondo lui la
prima santità non ha reso santo il futuro a venire, di conseguenza in questo
tempo questo luogo non ha santità. Ma nel futuro a venire il luogo sarà
santificato di una nuova santificazione universale, nel rispetto del Signore
per sempre, da cui deriva per conseguenza che sarà anche mutato». La
riflessione conclusiva di Noemi è la seguente: «Potrebbe essere che
interpretando letteralmente, potrebbe essere che interpretando in questo modo,
si possa vedere che le parole del salmista “Il segreto del Signore è per quelli
che lo temono” si riferisca agli stessi timorati di D., che attingono una parte
importante dei loro processi intellettivi da una illuminazione mentale divina»
(pp. 35-37).
L’incontro con l’Italia era avvenuto
già nelle aule universitarie, quando la giovane studentessa ascoltava le
lezioni del Prof. Cassuto: «Con quanto amore insegnava la Bibbia il fiorentino
Moshè David Cassuto. Ed io fanciulla tra le fanciulle d’Israele cerco di
trovare una strada per gli anni futuri, dopo la fine degli studi liceali». Anni
dopo «all’Università di Bologna gli studenti italiani vengono a me con la
Bibbia in mano, ed io mi trovo a tornare con fervore, catturata nuovamente a
ricominciare dalla genesi, a tornare al primo amore, a tornare ai nostri tesori
così antichi e così nuovi» (p. 29).
Cosa vuol dire vedere Venezia con lo
sguardo di Noemi? Vuol dire trovare i suoi marmi e le sue acque nello Zohar: «E’ scritto nello Zohar, in una delle sue parti musicali,
che il grande rabbi Eliezer, quando giunse alle pietre di marmo miste con le
acque superiori, pianse, smettendo di parlare. E’ possibile che anche a Venezia
vi siano acque superiori, ma noi non le percepiremo mai, come non percepiremo
mai il principio vitale superiore dell’anima che è in noi…» (p. 33).
I
santuari dei nostri amori è anche un libro dell’amicizia, e numerosi sono
gli amici presenti nelle sue pagine. Qui ne ricorderemo solo due: Rav Israel
Meir Lau e il Pastore Martin Cunz.
Rav Lau è il bambino di Buchenwald che
è diventato Gran Rabbino d’Israele[2]. All’età
di cinque anni aveva visto suo padre, l’ultimo rabbino di Piotrkov, attendere
l’arrivo dei Tedeschi nella Sinagoga, dove era riunita tutta la Comunità, con
un Sefer Torah tra le braccia. Venne
ucciso a Treblinka. La madre morì a Ravensbrück. Lui, affidato a suo fratello
Naftali, era sopravissuto a Buchenwald, sotto la copertura di un’identità
polacca. Nel 1945 Lulek, così veniva chiamato, viene accolto in casa degli zii
Vogelmann a Kiryat Motzkin, e cresce insieme a Noemi, che considera come una
sorella. Poi frequenta le migliori Yeshivot
e nel 1993 viene nominato Gran Rabbino d’Israele.
Nel 1991 Noemi incontra in Vaticano
Giovanni Paolo II. Qualche tempo dopo va a trovare Lulek e gli parla
dell’importanza del dialogo ebraico-cristiano. Nel 1996 Rav Lau partecipa a un
convegno interreligioso sulla pace organizzato a Milano dal Cardinal Martini.
Noemi partecipa all’evento e si chiede: «Chissà se è questo il tempo o l’inizio
del tempo della realizzazione delle profezie dei nostri profeti?» (p. 48).
Nell’agosto del 1996 Noemi intraprende
un viaggio in Polonia e in Ucraina, «un viaggio verso luoghi che luoghi non
sono già più, luoghi che non conoscevo, di cui non sapevo e dei quali forse non
volevo sapere niente, luoghi forse eclissatesi in segreto chissà dove,
nell’immaginazione della storia della mia famiglia». E’accompagnata dal libro
di memorie di sua madre Bella (pubblicato a Kiryat Motzkin nel 1974) e dal
Pastore Martin Cunz, insieme a un gruppo prevalentemente di cristiani.
Varsavia, Lvov, la città di sua madre, dove ritrova la casa dei nonni,
Drohovitz, dove c’è la casa di Bruno Schultz, Brody, Tarnopol. Martin legge
brani di Buber, Babel, Rav Nahman di Brazlav. A Cernovitz c’è ancora la
casa di Celan. Scrive Noemi: «Le amabili persone con cui viaggio, che mi hanno
voluta come loro compagna israeliana in un’escursione cui si erano preparati da
molto tempo, sono di incoraggiamento per il mio spirito. Chi aveva mai sognato
di raggiungere questi posti?» (p. 117).
Sulla tomba del Baal Shem Tov a Medzeboz
accende una candela e legge il salmo che lui preferiva: «Servite Ha-Shem con
gioia» (Sal 100) e poi il salmo preferito da suo padre: «Alzo gli occhi ai
monti» (Sal 101). Sulla via si aggirano oche, mucche, galline, donne e bambini.
E ancora Toltchin, Patchora, Shargorod, Berdicev, dove vi è la tomba di un altro
saddik, Rav Levi Yitzchaq ben
Meir. Torna a Zurigo con una grande sofferenza interiore e con forze rinnovate.
Quel viaggio apre la strada a un altro
viaggio, due anni dopo, e solo questa volta Noemi riesce a ricollegarsi con la
propria storia personale, «il mio viaggio è come un rientro, lungo il percorso
di fuga dei miei genitori, per via inversa» (p. 123). Questa volta, il sostegno
viene soprattutto dalla lingua yiddisch,
dalle parole e dalle melodie chassidiche che Noemi ricorda di aver ascoltato
dalla voce della madre. Il culmine del viaggio è sulla tomba di Rav Nahman
a Uman.
La conclusione del libro è una
citazione dalla Mishnat ha-Zohar: «Vieni
e vedi. Tutti questi santuari, tutte queste creature, tutte queste schiere,
tutte queste luci e tutti questi spiriti hanno bisogno l’uno dell’altro… questi
santuari dipendono l’uno dall’altro».
Marco Cassuto Morselli
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