Yom Kippùr: giorno di purificazione dai peccati!
Nel Mishnè Torà (Hilkhòt Teshuvà,
2:7) il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) scrive: “Il giorno di
Kippur è il tempo della Teshuvà per tutti, sia per gli individui che per
la collettività. Pertanto tutti sono obbligati a fare Teshuvà e a
confessare [i propri peccati all’Eterno] nel giorno di Kippur. In cosa consiste
la Teshuvà?
“Il peccatore deve abbandonare il suo peccato e rimuoverlo dalla sua mente;
deve ripromettersi di non commetterlo più [...] e deve confessare ed esprimere
con le sua labbra quello che si è ripromesso” (ibid., 2:2).
Rav Joseph Beer Soloveitchik (Belarus,
1903-1993, Boston) in Daròsh Daràsh Yosef (p. 258) afferma che le feste
ebraiche non vengono definite dalle date nelle quali esse cadono ma dalle mitzvòt
(precetti) specifiche che le caratterizzano. Di Kippur la mitzvà del
giorno è la Teshuvà,
che letteralmente significa “ritorno” sulla retta strada. Nella Torà il giorno
di Kippur è espresso nella forma plurale: Yom Ha-Kippurìm, il giorno
delle espiazioni, perché ci sono modi diversi nei quali possiamo fare Teshuvà.
La Teshuvà
può essere motivata sia dall’amore sia dal timore nei confronti dell’Eterno.
R. Yehuda Moscato (Osimo,
1530?-1590, Mantova) nella sua opera omiletica Nefutzòt Yehudà (Derùsh
38) cita il trattato talmudico Yomà (86b) dove è scritto: “R. Shim’òn
figlio di Laqìsh disse: la Teshuvà
è grande perché con essa i peccati volontari vengono trasformati in peccati
involontari [...]. Il Talmud obietta che lo stesso R. Shim’òn figlio di Laqìsh
disse: “Grande è la Teshuvà
perché con essa i peccati volontari vengono trasformati in meriti”. I Maestri
spiegano che se la Teshuvà
è motivata dal timore nei confronti dell’Eterno i peccati volontari vengono
trasformati in peccati involontari; se invece la Teshuvà è
motivata dall’amore nei confronti dell’Eterno i peccati volontari vengono
trasformati addirittura in meriti.
R. Moscato cita il trattato talmudico di Berakhòt
(34b) dove viene posta la domanda se sia preferibile un Ba’al Teshuvà
(penitente) oppure una persona che non ha mai peccato. R. Chiyà affermava:
“Tutti i neviìm (profeti) hanno profetizzato riguardo ai Ba’alè
Teshuvà (penitenti), ma riguardo ai giusti «nessun occhio ha visto al di
fuori di Dio» (Yeshayà’- Isaia, 64:3). R. Abbahu dissentiva affermando
che “nel luogo in cui stanno i Ba’alè Teshuvà (penitenti) perfino coloro
che sono totalmente giusti non vi possono stare”. R. Moscato spiega che il
dissenso tra i due Maestri riguarda solo i Ba’alè Teshuvà (penitenti)
che tornano sulla retta strada per timore dell’Eterno. In questo caso colui che
non mai commesso peccati è certamente superiore a chi ha peccato ed ha fatto Teshuvà.
Tuttavia chi fa una Teshuvà motivata dall’amore nei confronti
dell’Eterno è senza dubbio secondo tutte le opinioni a un livello superiore a
quello del giusto che non ha peccato.
Rav Yosef Shalom Elyashiv (Lituania,
1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p.446) afferma che gli
israeliti dovevano andare tre volte all’anno a Gerusalemme, nel luogo più qadòsh
(sacro) della nazione, per le feste di Pèsach, di Shavu’òt e di Sukkòt
(delle capanne). Proprio nel giorno più qadòsh (sacro) dell’anno, il
giorno di Kippur, potevano restare a pregare nelle proprie città. Rav Elyashiv
spiega che vi sono ricorrenze nelle quali il luogo deve avere un effetto ed
altre nel quale l’effetto, l’assorbimento della qedushà, viene generato
dal tempo. I Maestri insegnarono nel trattato talmudico di Ta’anìt (30b)
che “Non vi erano giorni festivi in Israele come Yom Ha-Kippurìm” perché
in questo giorno vengono perdonati i peccati. Allora la felicità insita nel
giorno di Kippur era palpabile. Ci si rendeva conto che il peccato separa
l’uomo dal Creatore come un cortina di ferro. Se non fosse possibile
purificarsi dal peccato, un peccato ne porterebbe un altro fino a quando gli
uomini affonderebbero in un mare d’impurità. Quando l’ebreo usciva dal Bet
Ha-Kenèsset (sinagoga) alla fine del giorno di Kippur si sentiva puro e
pulito. La mitzvà di essere specialmente felici durante la festa
successiva di Sukkòt ha le sue basi nel giorno di Kippur. Infatti i
Maestri insegnano che di Sukkòt durante le celebrazioni festive nel Bet
Ha-Miqdash (il Santuario di Gerusalemme) i chassidìm (le persone
pie) e anshè ma’asè (gli uomini d’azione, le persone caritatevoli)
ballavano dicendo: “Felice la nostra giovinezza che non ci ha imbarazzato nella
nostra vecchiaia”. I Ba’alè Teshuvà (i penitenti che erano tornati sulla
retta via) ballavano dicendo: “Felice la nostra vecchiaia che ha espiato la
nostra giovinezza”. Entrambi i gruppi dicevano: “Felici coloro che non hanno
peccato”.
Rav Beniamino Artom (Asti, 1835-1879,
Londra) che fu rabbino della comunità sefardita di Londra concluse una sua derashà
(sermone) di Kippur con queste parole (tradotte dall’inglese): “[...] Qui
termina la nostra confessione. E quali sentimenti possiamo avere ora se non
quelli di vergogna? Se nessuno di noi può essere cosi malvagio dall’aver
commesso tutti questi peccati, pur tuttavia ognuno di noi ha fatto la sua parte
[...] Sopportare dure privazioni fisiche per venticinque ore, dedicare tutta la
giornata in preghiera e meditazioni religiose [...] è certamente obbedienza
alla legge. Ma se tutte queste cerimonie e tutta questa religiosità non sono
seguite da penitenza e riparazione, esse sono inutili, sono una beffa [...]
Solo quando abbiamo asciugato le lacrime che abbiamo causato, abbiamo
restituito quello che abbiamo usurpato, ricostruito quello che abbiamo
distrutto, consolato quelli che abbiamo addolorato e guarito coloro che abbiamo
ferito e reso puro quello che avevamo reso impuro, solo allora [...] “In quel
giorno avrete espiazione dei vostri peccati per purificarvi così che sarete
puri al cospetto dell’Eterno” (Vayqrà-Levitico, 16:30).
Donato Grosser
Fonte: www.romaebraica.it
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