venerdì 3 ottobre 2014

Kippùr: un approfondimento salutare per tutti!



Yom Kippùr: giorno di purificazione dai peccati!

Nel Mishnè Torà (Hilkhòt Teshuvà, 2:7) il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) scrive: “Il giorno di Kippur è il tempo della Teshuvà per tutti, sia per gli individui che per la collettività. Pertanto tutti sono obbligati a fare Teshuvà e a confessare [i propri peccati all’Eterno] nel giorno di Kippur. In cosa consiste la Teshuvà? “Il peccatore deve abbandonare il suo peccato e rimuoverlo dalla sua mente; deve ripromettersi di non commetterlo più [...] e deve confessare ed esprimere con le sua labbra quello che si è ripromesso” (ibid., 2:2).

Rav Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Daròsh Daràsh Yosef (p. 258) afferma che le feste ebraiche non vengono definite dalle date nelle quali esse cadono ma dalle mitzvòt (precetti) specifiche che le caratterizzano. Di Kippur la mitzvà del giorno è la Teshuvà, che letteralmente significa “ritorno” sulla retta strada. Nella Torà il giorno di Kippur è espresso nella forma plurale: Yom Ha-Kippurìm, il giorno delle espiazioni, perché ci sono modi diversi nei quali possiamo fare Teshuvà. La Teshuvà può essere motivata sia dall’amore sia dal timore nei confronti dell’Eterno.

R.  Yehuda Moscato (Osimo, 1530?-1590, Mantova) nella sua opera omiletica Nefutzòt Yehudà (Derùsh 38) cita il trattato talmudico Yomà (86b) dove è scritto: “R. Shim’òn figlio di Laqìsh disse: la Teshuvà è grande perché con essa i peccati volontari vengono trasformati in peccati involontari [...]. Il Talmud obietta che lo stesso R. Shim’òn figlio di Laqìsh disse: “Grande è la Teshuvà perché con essa i peccati volontari vengono trasformati in meriti”. I Maestri spiegano che se la Teshuvà è motivata dal timore nei confronti dell’Eterno i peccati volontari vengono trasformati in peccati involontari; se invece la Teshuvà è motivata dall’amore nei confronti dell’Eterno i peccati volontari vengono trasformati addirittura in meriti.
R.  Moscato cita il trattato talmudico di Berakhòt (34b) dove viene posta la domanda se sia preferibile un Ba’al Teshuvà (penitente) oppure una persona che non ha mai peccato. R. Chiyà affermava: “Tutti i neviìm (profeti) hanno profetizzato riguardo ai Ba’alè Teshuvà (penitenti), ma riguardo ai giusti «nessun occhio ha visto al di fuori di Dio» (Yeshayà’- Isaia, 64:3). R. Abbahu dissentiva affermando che “nel luogo in cui stanno i Ba’alè Teshuvà (penitenti) perfino coloro che sono totalmente giusti non vi possono stare”. R. Moscato spiega che il dissenso tra i due Maestri riguarda solo i Ba’alè Teshuvà (penitenti) che tornano sulla retta strada per timore dell’Eterno. In questo caso colui che non mai commesso peccati è certamente superiore a chi ha peccato ed ha fatto Teshuvà. Tuttavia chi fa una Teshuvà motivata dall’amore nei confronti dell’Eterno è senza dubbio secondo tutte le opinioni a un livello superiore a quello del giusto che non ha peccato.

Rav Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p.446) afferma che gli israeliti dovevano andare tre volte all’anno a Gerusalemme, nel luogo più qadòsh (sacro) della nazione, per le feste di Pèsach, di Shavu’òt e di Sukkòt (delle capanne). Proprio nel giorno più qadòsh (sacro) dell’anno, il giorno di Kippur, potevano restare a pregare nelle proprie città. Rav Elyashiv spiega che vi sono ricorrenze nelle quali il luogo deve avere un effetto ed altre nel quale l’effetto, l’assorbimento della qedushà, viene generato dal tempo. I Maestri insegnarono nel trattato talmudico di Ta’anìt (30b) che “Non vi erano giorni festivi in Israele come Yom Ha-Kippurìm” perché in questo giorno vengono perdonati i peccati. Allora la felicità insita nel giorno di Kippur era palpabile. Ci si rendeva conto che il peccato separa l’uomo dal Creatore come un cortina di ferro. Se non fosse possibile purificarsi dal peccato, un peccato ne porterebbe un altro fino a quando gli uomini affonderebbero in un mare d’impurità. Quando l’ebreo usciva dal Bet Ha-Kenèsset (sinagoga) alla fine del giorno di Kippur si sentiva puro e pulito. La mitzvà di essere specialmente felici durante la festa successiva di Sukkòt ha le sue basi nel giorno di Kippur. Infatti i Maestri insegnano che di Sukkòt durante le celebrazioni festive nel Bet Ha-Miqdash (il Santuario di Gerusalemme) i chassidìm (le persone pie) e anshè ma’asè (gli uomini d’azione, le persone caritatevoli) ballavano dicendo: “Felice la nostra giovinezza che non ci ha imbarazzato nella nostra vecchiaia”. I Ba’alè Teshuvà (i penitenti che erano tornati sulla retta via) ballavano dicendo: “Felice la nostra vecchiaia che ha espiato la nostra giovinezza”. Entrambi i gruppi dicevano: “Felici coloro che non hanno peccato”.

Rav Beniamino Artom (Asti, 1835-1879, Londra) che fu rabbino della comunità sefardita di Londra concluse una sua derashà (sermone) di Kippur con queste parole (tradotte dall’inglese): “[...] Qui termina la nostra confessione. E quali sentimenti possiamo avere ora se non quelli di vergogna? Se nessuno di noi può essere cosi malvagio dall’aver commesso tutti questi peccati, pur tuttavia ognuno di noi ha fatto la sua parte [...] Sopportare dure privazioni fisiche per venticinque ore, dedicare tutta la giornata in preghiera e meditazioni religiose [...] è certamente obbedienza alla legge. Ma se tutte queste cerimonie e tutta questa religiosità non sono seguite da penitenza e riparazione, esse sono inutili, sono una beffa [...] Solo quando abbiamo asciugato le lacrime che abbiamo causato, abbiamo restituito quello che abbiamo usurpato, ricostruito quello che abbiamo distrutto, consolato quelli che abbiamo addolorato e guarito coloro che abbiamo ferito e reso puro quello che avevamo reso impuro, solo allora [...] “In quel giorno avrete espiazione dei vostri peccati per purificarvi così che sarete puri al cospetto dell’Eterno” (Vayqrà-Levitico, 16:30).

Donato Grosser
Fonte: www.romaebraica.it

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