«Oggi che il cristianesimo mostra di
voler tornare alle origini»
Il contributo di Rav Elio Toaff al
dialogo ebraico-cristiano
«La mia storia ha inizio a Livorno, la città dove sono nato e dove ho
imparato a fare il rabbino. Mio padre, allievo di Pascoli e di Benamozegh, era
un uomo di vasta e profonda cultura e dirigeva all’epoca il Collegio rabbinico
livornese, in cui si erano formati, per oltre tre secoli, alcuni dei più famosi
rabbini del mondo. Io fui l’ultimo allievo a terminare gli studi in quella
scuola: divenni infatti rabbino nell’autunno del 1939, poco prima che il
Collegio venisse chiuso a causa delle leggi razziali, dell’antisemitismo
montante e della guerra»[1].
Nella prima riga della sua
autobiografia Rav Elio Toaff nomina Livorno, e subito dopo, insieme, suo padre
Rav Alfredo Sabato Toaff e il di lui maestro Rav Elia Benamozegh. Come scrivevo
riferendomi a Benamozegh ne I passi del Messia: «Riteniamo non sia un
caso che proprio il discepolo di un suo discepolo, ossia Rav Elio Toaff, abbia
accolto nel 1986 nella Sinagoga di Roma Giovanni Paolo II… Altri 14 anni, e il
Papa sarebbe salito in Israele e a Yerushalayim…»[2].
1. Intorno al 1867, nel preparare
una relazione che accompagnava i programmi di studio del Collegio rabbinico
livornese, Benamozegh scriveva: «Si comprese la necessità di porsi al livello
dell’ebraismo europeo, ed anche che la scienza non è essenzialmente ereticale e
che Livorno poteva sperare di serbarsi ortodossa diventando scientifica. […] Nei
vari insegnamenti è intendimento dell’insegnante di porsi e porre a giorno i
suoi scolari dello stato attuale e del progresso delle varie ebraiche
discipline, sceverando in tutta la moderna cultura il grano dal loglio,
segnatamente nella teologia e la filosofia in generale, e di combattere gli
errori dominanti e più perniciosi»[3].
L’indirizzo degli studi ebraici
ideato e attuato da Benamozegh rimase invariato anche dopo di lui, portato
avanti dai suoi discepoli, in primis Rav Samuele Colombo e Rav Dante
Lattes. Così ricorda la Scuola benamozeghiana Rav Alfredo Sabato Toaff: «Per un
quarto di secolo Samuele Colombo, nella scuola e fuori, insegnò e fece
apprezzare con la parola e con l’esempio le teorie del Maestro; Dante Lattes,
da quarant’anni, nella sua opera di giornalista e di scrittore dedica alla
verità ebraica, di cui è banditore e apologista efficace, la sua viva
intelligenza e le sue doti preclare di pensatore e polemista dotto e
brillante». Subito dopo, Rav Alfredo Sabato Toaff ricorda il giorno in cui
ricevette da Benamozegh il titolo di Maskil: «Quanto a me, ho presente
sempre alla memoria quella mattina di Sabato del 1898 in cui Elia Benamozegh
dette la Semichah a Dante Lattes del titolo di Hacham ed a me di
quello di Maskil, né ho dimenticato le parole che Egli, ponendomi sul
capo il taleth, mi sussurrava all’orecchio: “Ricordati che per me questa
non è una formalità; conto molto su di te!”»[4].
Nel 1900 il successore di Benamozegh
a Livorno fu Rav Samuele Colombo[5], e
nel 1923 fu Rav Alfredo Sabato Toaff a
succedergli a sua volta e a raccogliere l’eredità del Maestro.
Elio Toaff conseguì la laurea
rabbinica nel 1939, di fronte a una Commissione composta da Rav Augusto Hasdà
di Pisa, Rav Ermanno Friedenthal di Verona e Rav Dario Disegni di Torino.
Colui che più di tutti aveva curato la sua preparazione era stato suo
padre, e l’insegnamento continuò pure dopo il conseguimento del titolo. Anche in
fuga, durante la guerra, nascosti a Nocette, tra Viareggio e Camaiore, la
maggior parte del tempo la passavano studiando insieme.
Avvenne allora che, avvicinandosi Pesah, si dovevano
preparare le azzime e il vino e procurarsi una Haggadah. Il padre
ricordava la Haggadah a memoria, per cui gli riuscì di metterla per
iscritto, un po’ di farina venne trovata, ma come fare per il vino? Anche in
questo caso venne in aiuto l’insegnamento di Benamozegh: il padre raccontò che il suo maestro gli aveva spiegato
in che modo i suoi antenati, in Marocco, facevano il vino per la festa con
l’uva passa. Elio riuscì a procurarsi due chili di uva passa, che venne messa
per una settimana in un recipiente con quattro litri d’acqua, poi coperto con
un velo: «Quando finalmente andammo a vedere cosa era successo, constatammo con
grande meraviglia che nel recipiente c’erano bei chicchi d’uva che sembravano
freschi. Li prendemmo e li pigiammo e poi li lasciammo là a fermentare. Quando
il liquido cominciò a bollire, lo filtrammo e lo mettemmo in bottiglie. Vennero
fuori tre bottiglie e mezza di vino»[6].
Alain Elkann gli domandò una volta se era
divenuto rabbino per vocazione, se aveva sentito una chiamata. Questa la sua
risposta: «Le dirò, io ero affascinato da quello che faceva mio padre. Era
l’esempio che io avevo di una vita ben vissuta: la sua dedizione, la sua
conoscenza profonda, non soltanto dell’ebraismo, ma anche del mondo classico.
Lui era un grecista di chiara fama, conosceva a memoria i lirici greci. […] Da
lui ho avuto questo insegnamento: che l’ebraismo deve essere completato da una
profonda conoscenza della civiltà, della letteratura, della storia del paese in
cui viviamo, perché altrimenti mancherebbe qualche cosa e saremmo fuori dalla
realtà»[7].
Qualche anno più tardi Elkann gli
chiese: «Cosa le ha insegnato suo padre?» e lui rispose: «Tutto. Io non sono
mai stato nelle scuole pubbliche, sono sempre stato alle Scuole ebraiche e al
Collegio rabbinico dove l’orario delle lezioni era questo: una lezione di
italiano, una di Talmud, una di greco, un’altra di Bibbia, e così via.
Questo ci ha fatto scoprire come ci fosse qualcosa che legava tutto, che la
parte ebraica non era avulsa, che non era divisa, separata. Noi vivevamo in un
mondo dove il mondo classico e l’ebraismo convivevano naturalmente»[8].
Nel Dopoguerra, si trattava di
ricostruire la vita ebraica in Italia dopo le devastazioni: ottomila deportati,
Sinagoghe distrutte, Comunità disperse. A Roma viene riaperto il Collegio
rabbinico italiano. Nominato nel 1946 Rabbino Capo di Venezia, Elio Toaff
organizza una “Jeshivà Ozar ha-Torà” alla quale partecipano quasi tutti i Rabbini
italiani. Le lezioni sono tenute da Rav Alfredo Sabato Toaff: «Mio padre fu un
maestro eccezionale, sapiente, colto, instancabile, e seppe ridestare in noi
l’interesse per la cultura ebraica, per cui alla fine del corso eravamo tutti
soddisfatti, e felici di aver potuto ricominciare a dedicare il nostro tempo a
quello studio che è sempre stato la base della vita di ogni ebreo»[9].
Nel 1951 Rav Elio Toaff viene
chiamato a Roma. Nella cerimonia per l’insediamento «io aprii il corteo dei
rabbini e degli officianti e mi recai davanti all’Arca della Torà dove ad
attendermi c’erano i membri della Consulta rabbinica italiana. Mio padre si
fece avanti e con voce commossa pronunciò in ebraico queste parole: “In nome
della Consulta rabbinica italiana io ti saluto Rabbino Capo degli ebrei di
Roma”»[10].
2. Tra gli insegnamenti ricevuti dal
padre, Elio Toaff ricorda quello di non essere a priori diffidente nei
confronti dei preti e della Chiesa: «Notoriamente gli ebrei hanno sempre
provato una certa diffidenza nei confronti dei preti e della Chiesa, e la cosa
appare abbastanza giustificata se si considera che per circa duemila anni la
Chiesa li ha emarginati, perseguitati e persino mandati a morte a causa della loro
fedeltà all’antica religione, trasformandoli in un popolo disprezzato e
reietto. […] Da questa giustificabile diffidenza, però, mio padre mi aveva
insegnato a prendere le distanze, sostenendo che dovunque c’è il buono e il
cattivo, e che occorre valutare caso per caso se si vuole essere obiettivi e
non cadere negli stessi errori di coloro che, giudicando gli ebrei,
generalizzano mettendo tutti nello stesso calderone»[11].
Il padre era amico del canonico
Polese, con il quale aveva in comune la passione per i libri, del parroco di
Santa Maria del Soccorso, che abitava nel loro stesso palazzo, e anche il
Vescovo si intratteneva con lui per avere delucidazioni su passi biblici o
rabbinici. Nel periodo delle persecuzioni «furono proprio i preti, quelli più
semplici e modesti, che iniziarono generosamente a dimostrare ai perseguitati
la loro solidarietà, con i fatti e non con le parole»[12]. Nella
primavera del 1949, nel periodo veneziano,
un parroco venne a informarlo che il Patriarca Agostini avrebbe avuto
piacere di conoscerlo. L’invito fu accettato e così si incontrarono: «Il
patriarca non sedette sul tronetto che era al centro della sala, ma in poltrona
vicino a me. Parlammo di tanti argomenti, della mia Comunità, dell’Olocausto,
della nascita dello Stato d’Israele, ed ero stupito nel vedere con quanta
affabilità mi parlava e quanta comprensione dimostrava per i problemi così
gravi che il popolo ebraico stava affrontando per la ricostruzione. Fu quella
la mia prima positiva esperienza di un processo di distensione e di
avvicinamento che nel corso degli anni doveva manifestarsi in tutta la sua
ampiezza e importanza»[13].
A Roma le occasioni d’incontro si
moltiplicarono. Frequentando la biblioteca del Pontificio Istituto Biblico
conobbe padre Agostino Bea, poi ebbe modo di collaborare con padre Cornelius
Adriaan Rijk, direttore del Sidic, ed ebbe anche frequenti contatti con padre
Mariano, un cappuccino molto noto perché aveva una sua rubrica in televisione:
«Questa fiducia, che tanti religiosi intelligenti e onesti mi dimostravano, mi
dava soddisfazione e mi faceva piacere, perché era la prova che la mia azione
nella Comunità ebraica, volta a dissipare sospetti e rancori secolari in vista
di un futuro migliore di comprensione e di apprezzamento, stava dando i suoi
frutti, abbattendo le difficoltà e lo scetticismo di chi non credeva che alle
parole sarebbero seguiti i fatti»[14].
La notte in cui Giovanni XXIII entrò
in agonia, Toaff sentì imperioso il bisogno di unirsi ai tanti cattolici che
vegliavano in preghiera a piazza S. Pietro. Era un omaggio al Papa che aveva
convocato il Concilio nel quale sarebbe stata approvata Nostra Aetate,
un uomo «semplice, buono, sensibile e onesto» che un Sabato mattina si era
fermato a benedire gli ebrei che uscivano dalla Sinagoga «ed era forse quello
il primo vero gesto di riconciliazione»[15].
Il primo incontro con Giovanni Paolo
II ebbe luogo l’8 febbraio 1981 nella canonica di San Carlo ai Catinari. Era
stato il Papa, in visita a quella Chiesa al confine con il Ghetto, a esprimere
il desiderio di incontrarlo. Rav Toaff fu colto di sorpresa, ma dopo aver
riflettuto decise di accettare: «Il doloroso passato dell’umiliante clausura
nel ghetto, caratterizzato per noi ebrei di Roma dalla sofferenza e dalla
emarginazione, seppure non può e non deve essere dimenticato, perché è nelle
radici degli ebrei di questa città, e fa parte della loro storia come dei loro
sentimenti, certamente deve cedere il passo di fronte alla nuova realtà che, a
partire dal Concilio Vaticano II, sta riscoprendo i valori del giudaismo,
raccomandando ai cristiani il ritorno alle loro origini per la ricerca della loro
più profonda identità»[16].
Proprio la fiducia in questi nuovi
rapporti consentiva a Rav Toaff di trovare i canali giusti per far pervenire la
sua protesta tutte le volte che qualche episodio a suo avviso contrastava con i
nuovi orientamenti.
All’inizio del 1986 con molta
cautela mons. Mejia iniziò a sondare il terreno per vedere se sarebbe stata
possibile una visita del Papa in Sinagoga. Anche questa volta Rav Toaff fu
colto di sorpresa: «Ricordavo ancora con tristezza quando, al funerale di mio
padre, il vescovo di Livorno non aveva potuto entrare nel Tempio per assistere
alle preghiere perché – aveva spiegato – una regola secolare glielo impediva.
Come avrebbe potuto farlo oggi il Vescovo di Roma?»[17].
Toaff rifletté, si consultò con il
Consiglio della Comunità, poi con la Conferenza dei rabbini europei, e la
decisione fu presa. Il 13 aprile 1986 «alle 17.15 Giovanni Paolo II fece il suo
ingresso nel giardino del Tempio, venne verso di me a braccia aperte e mi
abbracciò. E mentre lui si accingeva a
entrare nella Sinagoga gremita e a compiere quel gesto di riparazione che
doveva ricomporre una frattura di secoli, io mi sentii schiacciare dal peso di
tutto il dolore che il mio popolo aveva patito in duemila anni. […] Passai in
mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il papa al mio fianco,
dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico
nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci volgemmo
verso il pubblico. E allora scoppiò l’applauso. Un applauso lunghissimo e
liberatorio, non solo per me, ma per tutto il pubblico, che finalmente capì
fino in fondo l’importanza di quel momento»[18].
Dopo aver reso omaggio a Giovanni
XXIII e a Jules Isaac, dopo aver ricordato i martiri ebrei di ogni tempo, dopo
aver indicato alcuni punti di un lavoro comune a beneficio dell’umanità, Rav
Toaff toccò quel tema che ancora oggi è problematico e di urgente attualità:
«Il ritorno del popolo ebraico alla sua terra è stato chiamato, dai nostri
maestri, l’inizio dell’avvento della Redenzione. Esso deve essere riconosciuto
come un bene e una conquista irrinunciabili per il mondo, perché prelude –
secondo l’insegnamento dei Profeti – a quell’epoca di fratellanza universale a
cui tutti aspirano e a quella pace redentrice che trova nella Bibbia la sua
sicura promessa. Il riconoscimento a Israele di tale insostituibile funzione
sul piano della redenzione finale, che Dio ha promesso, non può essere negato»[19].
Sempre nel 1986, il 27 ottobre,
venne organizzata ad Assisi la prima giornata interreligiosa di preghiera per
la pace, alla quale Rav Toaff partecipò con una delegazione perché «pregare per
la pace è un dovere preciso per ogni ebreo»[20].
Nel 1993 vennero stabilite regolari
relazioni diplomatiche tra lo Stato d’Israele e la Santa Sede e nel 2000
Giovanni Paolo II salì in pellegrinaggio a Gerusalemme, deponendo tra le pietre
del Kotel una commovente richiesta di perdono:
«Dio dei nostri padri,
tu hai scelto Abramo e la sua discendenza
perché il tuo Nome fosse portato alle genti:
noi siamo profondamente addolorati
per il comportamento di quanti
nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli,
e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci
in un’autentica fraternità
con il popolo dell’alleanza.
Per Cristo nostro Signore»
tu hai scelto Abramo e la sua discendenza
perché il tuo Nome fosse portato alle genti:
noi siamo profondamente addolorati
per il comportamento di quanti
nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli,
e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci
in un’autentica fraternità
con il popolo dell’alleanza.
Per Cristo nostro Signore»
3. Ricordando nel 1985 la figura di Yoseph Colombo, figlio di Rav Samuele
Colombo, Elio Toaff scriveva: «Il mio desiderio, ed il suo, era quello di
pubblicare nella rivista del Collegio rabbinico, un po’ alla volta, tutte le
opere [di Benamozegh] rimaste inedite ma ora che egli non c’è più, la
realizzazione di un tal programma diviene quasi impossibile»[21].
Eppure, negli ultimi vent’anni, sono stati pubblicati otto libri di Benamozegh:
Israele e l’umanità. Studio sul
problema della religione universale (Marietti 1990); Morale ebraica e
morale cristiana (Marietti 1997); Israele e Umanità. Il mio Credo (ETS
2002); L’origine dei dogmi
cristiani (Marietti 2002); Il
Noachismo (Marietti 2006); Storia degli esseni (Marietti 2007); L’immortalità
dell’anima (La parola 2008); Shavuot. Cinque conferenze sulla Pentecoste
(Belforte 2009). Israele e l’umanità è stato tradotto in inglese (Paulist Press
1995) e in spagnolo (Riopiedras 2003), Morale ebraica e morale cristiana
è stato ristampato nell’originale francese (In press 2000) e in traduzione
inglese (Kessinger 2008 e Cornell 2009). E’ stata anche ripubblicata l’autobiografia
del discepolo noachide di Benamozegh: A. Pallière, Il Santuario sconosciuto. La mia “conversione” all’ebraismo (Marietti 2005).
Giustificato era il sereno ottimismo
con il quale Toaff chiudeva la sua autobiografia: «Tramandare quella tradizione
che era caratteristica della scuola in cui mi sono formato sotto la guida di
mio padre, il quale a sua volta seguiva la tradizione del grande Benamozegh e
di quelli che venivano chiamati nel mondo “Hachmè Livorno”, i saggi rabbini
livornesi, è stato ed è lo scopo principale della mia vita. E non mi posso
lamentare dei risultati, se mi soffermo a considerare la dottrina e la capacità
dei miei allievi e l’affetto che mi dimostrano, cercando di collaborare con me
con generoso slancio e filiale affetto»[22].
4. E’ un pomeriggio freddo e umido
del gennaio 2010. Un piccolo corteo si avvicina al portone di via Catalana dove
un uomo anziano con un cappello nero, un cappotto nero, un talled sulle
spalle è in piedi in attesa. Anche questa volta la prima persona a incontrare
il Papa è lui, ora Rabbino Capo Emerito di Roma.
Benedetto XVI gli stringe le mani
dicendo: «Sono lieto di incontrare colui che ricevette il mio amato
predecessore». La Sinagoga è illuminata, gli invitati seguono su due grandi
schermi, non riescono a frenare l’applauso.
Il corteo si congeda e si dirige
verso il Tempio dove sta per avere inizio la cerimonia. Rav Toaff prima di rientrare in casa si volge ancora
una volta a guardare e, con occhi lucidi, mormora: «Bene, bene così… ».
5. La sera di domenica 19 aprile
2015, il 30 nissan 5775, undici giorni prima del suo 100° compleanno, Rav Elio
Toaff lascia questo mondo. Molti si raccolgono in preghiera nel Tempio maggiore
appena la notizia si diffonde, altri giungono al mattino per un ultimo saluto
prima che le spoglie mortali di colui che è stato per 50 anni Rabbino Capo di
Roma raggiungano l’amata Livorno.
Marco Cassuto Morselli
Presidende Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma
[1] E. Toaff, Perfidi giudei,
fratelli maggiori, Mondadori, Milano 1987, p. 3.
[2] M. Morselli, I passi
del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo, Marietti,
Genova-Milano 2007, pp. 11-12.
[3] A. S. Toaff, Il
Collegio rabbinico di Livorno, in «Annuario di studi ebraici», IX, 1977-79,
pp. 119-120.
[4] ivi, pp. 120-121.
[5] Nel cinquantenario della
sua scomparsa è stato ricordato nella «Rassegna Mensile d’Israel» XXXIX, 1973,
con articoli e testimonianze.
[6] E. Toaff, Perfidi
giudei, fratelli maggiori, cit., p. 78.
[7] E. Toaff - A. Elkann, Essere
ebreo, Bompiani, Milano 1994, p. 20.
[8] E. Toaff - A. Elkann, Il
Messia e gli ebrei, Bompiani, Milano 1998, p. 88.
[9] E. Toaff, Perfidi
giudei, fratelli maggiori, cit., p. 156.
[10] ivi, p. 168.
[11]ivi, p. 213.
[12] ivi, p. 214.
[13] ivi, p. 159.
[14] ivi, p. 219.
[15] ivi, p. 220.
[16] ivi, p. 228.
[17] ivi, p. 233.
[18] ivi, pp. 238-239.
[19] ibidem.
[20] ivi, p. 241.
[21] E. Toaff, Il pensiero
di Elia Benamozegh rivive in Yoseph Colombo, in «Rassegna Mensile
d’Israel», LI, 1985, p. 241.
[22] E. Toaff, Perfidi
giudei, fratelli maggiori, cit., p. 248.
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