"...di generazione in generazione"
Rav Roberto Della Rocca
La Tradizione ebraica è caratterizzata dall’imperativo categorico zachor, ricorda. « Noi ebrei – scriveva Martin Buber nel 1938 – siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere… ».
Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte e, nella maggior parte dei casi, ha per soggetto Israele o Dio. La memoria, infatti, incombe su entrambi.
Il concetto di ricordare trova il suo complemento e completamento in quello di segno opposto: dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di ricordare e al tempo stesso di non dimenticare. La Toràh – il Pentateuco – in particolare nel versetto del Deuteronomio, 32;7, ci sprona ripetutamente a ricordare e a non dimenticare.
Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo: “Ricorda i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi (il corso della storia), interroga tuo padre e ti racconterà, i tuoi anziani e te lo diranno…”.
Ma sbaglierebbe chi intendesse questa affermazione come un mero invito a fondare la nostra esistenza sul passato che ci appartiene. La memoria, custodita di generazione in generazione, è l’antidoto più potente contro la morte, rappresentando una ferma determinazione, una volontà di non abbandonare nel nulla le tracce di ciò che è già trascorso e passato ed è ormai sparito dalla storia. Nell’ebraismo, infatti, il passato non è qualcosa di sorpassato, privo di utilità, ma al contrario costituisce un valido aiuto per affrontare la vita. Per questo nella Toràh ci viene detto anche che ricordare gli avvenimenti non può bastare: « …binu scenot dor vador…. », « …cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi… ». Bisogna riflettere su di essi, ponderarli, capirne a fondo il significato. L’ insegnamento della Toràh, come si vede, è ben differente rispetto alla saggezza di Plutarco, secondo cui “la storia si ripete”. Per la cultura ebraica la storia non si ripete. E’ semmai l’uomo che può perpetuare i suoi fallimenti e i suoi successi. Ricordare il passato, ma soprattutto comprenderlo, ci aiuta a mettere a fuoco correttamente gli eventi attuali.
Non a caso Rashi’, forse il più autorevole commentatore della Bibbia (1040-1105) nel suo commento a Deuteronomio, 32; 7, interpreta il passaggio « … Binu scenot dor vador… » non tanto come “gli anni dei secoli trascorsi” ma piuttosto come “gli anni delle future generazioni” , nella convinzione che il futuro sarà tanto migliore quanto meno si dimenticheranno le lezioni del passato.
Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle generazioni future è assegnato dall’ebraismo alla ‘Tradizione orale’ che, anziché essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è inserita nella continuità di un sistema culturale.
Ma come impedire che la memoria muoia cristallizzandosi nella prospettiva storica, come è accaduto con le Crociate, con l’Inquisizione, con i pogrom? La storia dà garanzia di stabilità al ricordo, ma quasi sempre monumentalizza e distanzia i sentimenti, li raffredda, li normalizza, e pretende di offrire in cambio un’impossibile obiettività. La storia come il monumento sottrae la memoria alla sua appartenenza individuale per consegnarla alla collettività universale, che la deposita nel proprio archivio polveroso dopo averla elaborata in modo soggettivo, magari opportunamente revisionata, per liberarsene come di un documento scomodo.
La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. Per assicurare alla memoria un ruolo vitale, anche nella salvaguardia di un modello di vita, è dunque necessario che la memoria storica si innesti nel presente entrando a far parte della coscienza individuale. A maggior ragione, quindi, abbiamo il dovere di ricordare e perpetuare il ricordo della Shoah, momento tra i più tragici della storia ebraica.
Oggi, quindi, le manifestazioni e le testimonianze sono particolarmente significative poiché assistiamo ad una recrudescenza di violenza che non ci deve lasciare inerti.
Anche in Italia vi è un tentativo esplicito da parte di alcuni di mettere sullo stesso piano, vittime e carnefici, persecutori e perseguitati. Ma il tempo trascorso non può legittimare operazioni del genere. Per questo siamo convinti che il dovere di ricordare appartenga a tutti gli uomini, proprio perché quei fatti hanno ancora un aspetto di attualità. Noi dobbiamo in tutti i modi sostenere i superstiti che si sono assunti il gravoso impegno di testimoniare affinché il sacrificio di coloro che non sono più ritornati non cada nel vuoto. Il loro messaggio è un monito che ci invita ad operare affinché ciò che è accaduto una volta non si ripeta. Quindi oggi più che mai dobbiamo ricordare quei giorni e non dimenticare, poiché dimenticare nell’ingenua speranza di sopire l’offesa subita, come taluni affermano, può significare vedere riacutizzare ancora di più il pericolo che tali tragedie possano ripetersi.
Non resta che percorrere quindi la via della perpetuazione del ricordo a monito per i posteri. Una memoria attiva, come ci ha insegnato Primo Levi, che significa per ognuno, e non solo per l’ebreo, assumere i crimini della storia come male fatto a ciascuno di noi, appartenenti tutti alla grande famiglia dell’umanità. E significa anche non liberarsi mai passivamente del dolore e del lutto elaborandoli attraverso riti, cerimonie e monumenti, ma accettarli come segno permanente di un crimine le cui responsabilità collettive e singole sono assai precise, malgrado i ripetuti tentativi di confondere la storia.
Ben vengano tutte le testimonianze, articoli, libri di storia, film e conferenze di ogni genere che ci parlino della Shoah e che ne parlino a tutti.
Resta, poi, a noi il compito di trasmettere, commentare e far rivivere questa memoria per non dimenticare chi si è e da dove si viene.
Nel libro di interviste ai figli dei deportati di Claudine Vegh, “Non gli ho detto arrivederci”, un figlio racconta ancora perplesso dopo quasi quarant’anni, come suo padre, mentre veniva trascinato dalle SS, anziché dirgli per l’ultima volta « ti voglio bene, non temere nulla, bada a te stesso » , gli abbia invece urlato soltanto: “Robert, non dimenticare mai che sei ebreo e devi restare ebreo”. Il figlio, ormai adulto, continua a interrogarsi sul senso di quel monito « non dimenticare mai…». Evidentemente era, per il padre, l’unico modo di dirgli – nei pochi attimi che gli restavano – che per sopravvivere, egli doveva preservare viva la memoria di sé, la sua identità, la sua coscienza, la sua storia.
Rav Dr. Roberto Della Rocca
direttore Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
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